Nell’Europa dell’austerità fiscale, i bilanci pubblici chiusi in una gabbia che si è aperta 40 anni fa. Lungimiranza tecnocratica, miopia politica, assuefazione culturale
Negli ultimi mesi è tornata di moda l’austerità fiscale, predicata pressoché all’unisono dalle istituzioni monetarie, apprezzata da qualche governo (Germania in testa), registrata a malincuore nelle agende politiche di quasi tutti i paesi economicamente avanzati, respinta tiepidamente e quasi sempre incoerentemente dagli schieramenti di orientamento socialista e da quelli sindacali. Vorrei provare a mettere a fuoco alcune delle ragioni che hanno condotto a questo stato di cose.
La mia tesi è che si tratti di un effetto di “intrappolamento” (“lock-in”) in una gabbia che si è aperta circa quaranta anni fa. Decisioni prese allora hanno determinato un corso cumulativo di eventi dai quali è difficile uscire a meno di decisioni clamorose, che tuttavia non verranno prese a meno di eventi catastrofici, un po’ per paura e un po’ per assuefazione. Ciò che a sua volta dipende dall’egemonia culturale che gli esperti che predicano l’esigenza di austerità sono riusciti a consolidare. Parlare di questa storia implica quindi un racconto, da porre in contrapposizione a congetture su storie virtuali alternative.
Fine del signoraggio
Il racconto ha inizio verso la fine degli anni Settanta del Novecento, un decennio segnato da esperienze di inflazione alquanto vistose. Sotto l’effetto della conseguente apprensione, nel giro di pochissimi anni nella maggior parte dei paesi avanzati è stato operato, sia pure con modalità diverse, un grande cambiamento nei rapporti tra potere politico e banche centrali, detto in gergo “divorzio”. Lo stato, che fino al divorzio godeva di un potere assoluto di signoraggio – poteva cioè discrezionalmente decidere di creare moneta a corso legale al fine di finanziare le proprie spese eccedenti le entrate – cedeva tale potere alle banche centrali. Da quel momento lo stato avrebbe emesso titoli in ogni caso, lasciando poi alla discrezionalità della banca centrale la decisione su quanto monetizzare e quanto collocare sul mercato. A questo passo ne seguì poi un altro, nella sola Europa, che faceva divieto alle banche centrali di sottoscrivere in via diretta i titoli pubblici emessi, che quindi venivano sottoscritti da privati e banche ordinarie. Alle banche centrali restava la possibilità di operare sui titoli relazionandosi variamente alle banche ordinarie e questo diveniva uno dei modi, per le banche centrali, di regolare l’offerta di moneta.
Era un cambiamento destinato ad avere vari effetti cumulativi nel tempo. Nella misura in cui la copertura dei deficit dà luogo ad emissioni di titoli, questi si cumulano nel tempo e altrettanto fanno gli oneri per il pagamento di interessi. Quando la crescita dei disavanzi annui supera quella del Pil, a parità dei tassi di interesse pagati sui titoli e di pressione fiscale, la quota di spese pubbliche “libere” si restringe. Per riallargarla occorre aumentare la pressione fiscale, diminuendo il reddito disponibile dei privati e quindi le loro possibilità di spesa. Si restringe cioè o la sovranità dello stato o quella dei privati, consumatori o investitori che siano, e ciò accade come conseguenza delle modalità di finanziamento di spese occorse nel passato. Da notare che tali margini di sovranità sarebbero destinati a restringersi ulteriormente ove si dovessero porre in essere azioni ulteriori rivolte a ridurre lo stock di debito cumulato.
Dall’inflazione al disavanzo
Non erano questi gli intenti iniziali del “partito del divorzio”. Prevaleva piuttosto l’intento, di sapore illuministico, di porre un mordacchio ai politici spendaccioni, inducendoli ad un ricorso minore ai disavanzi annui di bilancio. I politici hanno invece continuato a fare disavanzi. È facile capire perché. Il finanziamento con debito, al contrario delle imposte, non determina resistenze politiche “al momento” della decisione di spesa, chi sottoscrive i titoli lo fa volontariamente e, se va bene, pagherà solo una frazione delle tasse che tutti pagheranno per pagare gli interessi che riceverà. Quando la quota di bilancio che serve a pagare gli interessi sul debito cumulato diverrà insopportabilmente alta non saranno più rintracciabili i responsabili politici che hanno preso le decisioni di spesa in disavanzo. Si ha, per dirla con Puviani, il massimo della “illusione finanziaria”.
A vedere ancora meglio, con il divorzio si concretava comunque una cessione di potere democratico, soprattutto se si pensa che all’epoca non era lontano il momento in cui, nei dibattiti di teoria economica, si guardava al dilemma inflazione/disoccupazione come un “menu di politiche economiche”, in cui chiaramente la scelta non poteva che spettare a chi governava.
In realtà avanzava, nello stesso periodo, la contro-rivoluzione monetarista/liberista, all’insegna di “più mercato e meno stato”. Quel che più conta è che, nella teoria economica, emergeva una prospettiva che vedeva nella stabilità e certezza della creazione di moneta la cornice entro la quale il mercato avrebbe generato sviluppo e piena occupazione, affermandosi al contempo che forzature espansive da parte del soggetto pubblico sarebbero state inani e dannose. Sembra allora che il divorzio non sia che una conseguenza pratica di tale svolta teorica. Le cose, ovviamente, non sono così semplici. La teoria, in particolare quella economica, fragile per l’assenza di laboratorio e la presenza di fattori ideologici (non si chiama per caso “economia politica”), non ha tanto potere. Può solo, in certi casi, aiutare a confezionare abiti buoni per far circolare interessi poco limpidi nei salotti che contano.
Così fan tutti
Il divorzio solleva questioni istituzionalmente delicate, sia sul piano formale che sostanziale. Sotto l’abito buono del “laissez faire” vive un principio che è l’opposto di quello intorno al quale ruotano gli elementi costitutivi delle democrazie quali si sono andate costruendo nella storia contemporanea, quello del “check and balance”. Inoltre tutto il processo di cambiamento innescato dal divorzio è caratterizzato da elementi che ne rendono difficile la reversibilità.
La cessione del potere di signoraggio, prima a favore delle banche nazionali, ora in Europa a favore della Banca Centrale Europea, fa di questi soggetti non solo degli attori di policy, ma addirittura dei protagonisti. Lo fa in associazione con fatti tanto importanti da avere una sorta di rilievo costituzionale: la governance della banca centrale è irrevocabile ed è nominata quasi ovunque per periodi più lunghi di quelli di durata dei governi. In Italia (dove la durata in carica del Governatore non prevedeva limiti) abbiamo avuto un’esperienza quasi folcloristica sui potenziali conflitti che ciò può sollevare, magari su contenuti più strategici (anche se, nel caso della Banca Centrale Europea, la composizione internazionale del board è un tantino più rassicurante, ma solo in termini probabilistici).
L’irreversibilità del processo messo in moto è stata accentuata da due eventi: il primo, non casuale, è costituito dal fatto che lo stesso tipo di cambiamento è intervenuto nel giro di pochi anni, nella maggior parte dei paesi occidentali, grazie alla coesione tra le varie banche centrali e di queste rispetto alle organizzazioni internazionali in campo economico e monetario. L’effetto “lo fanno tutti quindi è giusto” ha facilmente prevalso sull’effetto “lo fanno tutti quindi si sono messi d’accordo”.
Il secondo è costituito dalle tendenze alla c.d. “globalizzazione”, un evento solo in parte fortuito, ed in buona parte invece perseguito da un reticolo di soggetti a ciò interessati, costituito soprattutto da operatori finanziari, ma comunque visto con favore da vari ambienti politici – anche progressisti – e dai circoli delle banche centrali.
Il pendolo del mercato
E pensare che, in seno alla teoria economica, la questione dei rapporti tra stato e mercato ha subito nel corso della sua evoluzione una sorta di moto pendolare. Il Novecento si è aperto con una maggioranza di economisti, di formazione tardo ottocentesca, favorevoli al mercato (senza se e senza ma), convinti dell’esigenza che il bilancio pubblico dovesse essere neutrale per lasciar fare al mercato, e in pareggio per essere neutrale.
Appena poco dopo è intervenuta la saggezza di Pigou, che, evidenziando possibili “fallimenti” parziali del mercato, ha gettato le basi teoriche per interventi circoscritti e qualitativi di politica economica lungo linee ancora oggi prese a riferimento. Dagli anni Quaranta in poi e per un trentennio abbondante la pubblicistica economica è stata dominata dal pensiero keynesiano. Si pensi ai tanti che si sono mossi sulla scia di Tinbergen, che pensavano di poter compensare i difetti di coordinamento propri dell’agire del mercato attraverso opportune attività di programmazione basate sul trattamento econometrico dei dati. Ma si pensi soprattutto a Lerner, per il quale il bilancio non doveva essere necessariamente neutrale perché altro non era che uno strumento da modulare al fine di perseguire obiettivi pubblici, tenendo tuttavia conto delle specifiche condizioni del sistema.
Congetture e realtà
Per valutare se la cessione di potere dalla sfera politica a quella tecnica sia stata comunque un bene o un male un buon punto di partenza può essere una congettura controfattuale: cosa sarebbe successo se il divorzio non vi fosse stato? Qualora la monetizzazione dei disavanzi avesse avuto ripercussioni sul tasso di inflazione i governi sarebbero stati probabilmente costretti, da reazioni politiche relativamente tempestive, a contenere i disavanzi; lo stesso obbiettivo che si intendeva conseguire con il divorzio, cioè, ma affidato ad un meccanismo di reazione politica, senza cessione di potere e privo degli effetti cumulativi di cui si è parlato.
C’è di più. All’epoca un politico accorto non si sarebbe così nettamente schierato per uno dei due eserciti crociati. Guidato da un sano dubbio avrebbe ritenuto che il disavanzo monetizzato potesse alternativamente dar luogo ad effetti prevalenti di prezzo (inflazione) ovvero ad effetti prevalenti di induzione di maggiore produzione e occupazione (attivazione immediata di risorse e costruzione di risorse per il futuro). Nello scegliere avrebbe quindi messo in conto, ex ante, che la monetizzazione del disavanzo potesse avere effetti reali positivi in termini di produzione, occupazione e crescita, come pure, nel caso di effetti inflazionistici, avrebbe previsto la possibilità di retroazioni politiche tempestive rivolte verso responsabili politici identificabili.
Ha prevalso l’opzione del divorzio. Da allora ricordo ben pochi periodi in cui non si sia detto che occorrevano sacrifici, mentre non mi sono accorto dell’esistenza dei frutti promessi, ma forse è solo perché avevo in mente le performance produttive e occupazionali dell’epoca pre-divorzio.
Come si spende?
Ho suscitato dubbi sul fatto che abbia senso la restrizione della discrezionalità di spesa, sia pubblica che privata, quale “conseguenza delle modalità di finanziamento di spese occorse nel passato”. Qualsiasi spesa implica l’attivazione di risorse presenti al momento della spesa per conseguire risultati nello stesso periodo. Tali risultati possono esaurirsi nello stesso periodo (consumo, spreco), ovvero tramutarsi in maggiori vantaggi e possibilità future (investimenti, costruzione di opzioni). Ciò implica che non si possono attivare nel presente risorse future (non ci sono ancora); al massimo l’uso presente può condurre a costruire più o meno risorse per il futuro. Cosa succede dipende quindi da come si spende, dalle cose che realmente si fanno, nel momento della spesa. È allora difficile capire perché, dato il “come” di una azione passata, si possano avere nel futuro più o meno capacità di spesa non quale conseguenza delle caratteristiche e degli esiti dell’azione, bensì a seconda di come le spese passate – quegli stessi, ormai immutabili, costi reali passati – sono stati nel passato finanziati.
Il punto è che viviamo in economie monetarie di mercato, in cui l’attivazione e l’uso delle risorse non rispondono ad ordini diretti (come in una economia di piano o in un esercito), bensì a “comandi” (o meglio “incentivi”) monetari. La moneta può essere sia creata che trasferita. Il dilemma sul modo di finanziamento del deficit, e perfino sull’opportunità o meno di avere un deficit, ruota intorno a ciò. L’attivazione di risorse inutilizzate (lavoro, risparmio) non ha costi reali per il sistema perché non impone rinunce (si possono continuare a fare tutte le cose che si facevano prima dell’attivazione). L’uso dei risparmi per sottoscrivere i titoli pubblici toglierebbe alimento agli investimenti, questa è la tesi di fondo dei contrari al debito. Ma possiamo essere sicuri che ciò sia sempre vero? Possiamo essere in ogni possibile caso sicuri che gli investimenti spiazzati siano quelli reali (costruzione di capacità produttiva) e non invece impieghi finanziari? E non potrebbe invece essere che siano, in certi periodi, insufficienti gli investimenti intenzionali reali, per scarse prospettive di evoluzione della domanda e magari per la minaccia di una eccessiva austerità fiscale?
Questi interrogativi, a ben vedere, non dicono altro che questo: la dinamica dei sistemi economici può presentare situazioni congiunturali varianti. Perché allora “costituzionalizzare” delle regole di condotta che valgono, se valgono, solo in determinate congiunture? Non dovrebbe valere, anche in campo economico, un principio di prudenza?
Assuefazione culturale
Il passo successivo, in questa riflessione, porterebbe a chiedersi che uso del conquistato signoraggio abbiano fatto le autorità monetarie. In particolare vi sarebbe da chiedersi se le autorità monetarie abbiano davvero un controllo completo della creazione di moneta (in caso contrario il loro status di soggetti di policy non avrebbe fondamento) e se (e come) nel determinare la crescita dei valori della ricchezza non legata alla produzione, quella finanziaria in primis, le banche centrali abbiano avuto –in questa era post-divorzio- delle responsabilità. Più in breve se, come e perché le loro politiche abbiano determinato le condizioni che hanno condotto all’esplodere della crisi che stiamo vivendo. Sul “se” è un ragionamento per esclusione a suggerire una risposta positiva, visto che le istituzioni monetarie sono ormai egemoni sul piano della policy; sul “come” vi sarebbe materia per un altro articolo; il “perché” lo lascio alle congetture dei lettori.
In ogni caso ritenere che sia stata la consistenza dei titoli pubblici accumulati la fonte della crisi finanziaria è davvero una proposizione di difficile comprensione. Perché allora si invoca l’austerità fiscale, dal momento in cui, con consenso pressoché generale, i debiti pubblici sono stati aggravati dal salvataggio di banche e aziende spintesi troppo oltre nei giochi speculativi? Sarà perché il mercato non è disposto a rinnovare i titoli in scadenza dei paesi con maggiore debito o perché il mercato segue le indicazioni delle agenzie di rating, quegli strani attori, cioè, che attribuivano il massimo di affidabilità (la tripla A) a soggetti che magari fallivano il g orno dopo ma che con loro avevano interessi incrociati? E chi ha contribuito a costruire la credibilità delle agenzie di rating nel valutare governi ed economie, quando la loro vocazione era solo quella – meramente giornalistica, tutto sommato – di dare informazioni sulle aziende a potenziali investitori (assumendo quindi il ruolo di attenuare le asimmetrie informative, cosa ben diversa da quello del “valutare”)?
Interrogativi scomodi, tutti questi, che nessuno, sia nei media che in seno a partiti di opposizione e sindacati, sembra porsi, ma che danno un senso molto forte alle ultime parole del sommario di quest’articolo: “assuefazione culturale”.