Solo il 5 per cento degli operatori dell’innovazione sociale si aspetta un ritorno ambientale del proprio investimento. La terza puntata della nostra inchiesta
Continua, questa è la terza puntata, l’approfondimento delle politiche e dei comportamenti degli operatori di impact finance (1). Con riferimento all’impatto desiderato degli investimenti effettuati, va notato che la matrice culturale di questi intermediari è molto “sociale” e assai meno “ambientale”: il 50 per cento degli operatori si aspetta un ritorno sociale, il 45 per cento un ritorno sia sociale sia ambientale, solo un 5 per cento cerca un ritorno strettamente ambientale. Ecco un primo paradosso della finanza d’impatto: in una prospettiva di “complementarietà” e non di sostituzione con le politiche pubbliche sarebbe stato lecito attendersi il contrario. La finanza, infatti, potrebbe ben svolgere un ruolo cruciale (ed essere fattore di vera innovazione) nell’orientare i processi produttivi verso un loro migliore impatto ambientale. È uno dei grandi nodi dello sviluppo, che accomuna tutte le economie – emergenti e avanzate – e su cui il fallimento delle politiche pubbliche è sotto gli occhi di tutti. Certamente più che negli altri ambiti. Che però – si osserva – appaiono alla finanza “d’impatto” maggiormente appetibili.
Rispetto allo stadio dell’impresa destinataria delle risorse, il 78 per cento degli operatori predilige la fase di crescita (private equity), il 51 per cento la fase di avvio (venture capital), solo il 18 per cento si rivolge a start-up pure (seed capital). Anche in questo caso il dato empirico è abbastanza spiazzante: sarebbe stato naturale attendersi una grado di priorità opposto da chi si autoproclama innovativo. È il secondo paradosso della finanza d’impatto.
Ciò che risulta maggiormente disarmante è però come questi soggetti vedono l’interlocuzione con la pubblica amministrazione. Se, infatti, si sta ragionando di come utilizzare risorse private per fare ciò che finora ha fatto il pubblico (o dovrebbe iniziare a fare, come nel caso delle economie emergenti), evidentemente si presume di possedere qualche capacità (gestionale, analitica, tecnica, ecc.) in più che possa consentire di perseguire meglio di un apparato pubblico alcuni degli obiettivi tipici di una democrazia. In altri termini, a parità di outcome sociali o ambientali attesi per interventi pubblici in ambiti analoghi, l’operatore di impact finance dovrebbe essere in grado di generare un surplus di tipo finanziario. O viceversa: a parità di costi, maggiore impatto sociale o ambientale. Altrimenti non si vede perché una collettività dovrebbe affidare alcune delle sue funzioni vitali (istruzione e sanità ad esempio) a dei soggetti terzi, spesso ancorati ad economie lontane, che rispondono a logiche – almeno anche – finanziarie e globali.
Le opzioni infatti sono tre: a) lo Stato non deve occuparsi di questi ambiti: assioma di natura ideologica neoliberista, non discutibile e dimostrabile oggettivamente e in quanto tale neanche accettabile all’interno di un’analisi costi-benefici; b) lo Stato non è in grado di gestire efficacemente questi interventi perché inefficiente (o corrotto): andrebbe dimostrato ciò – caso per caso – e perché un soggetto terzo, calato sullo stesso territorio, dovrebbe comportarsi diversamente (e dunque produrre performance migliori); c) lo Stato non ha le risorse per investire.
Quest’ultimo è forse il sottile fil-rouge cui si lega tutto il filone e della social innovation in salsa Ue (come fu per il terzo settore) e della finanza d’impatto, almeno nella sua versione europea. Che si trova cioè a metà strada tra lo slogan neoliberista dell’inefficienza e inopportunità dell’intervento pubblico (opzioni a e b anzidette), fatto proprio da una fetta assai influente anche se forse minoritaria della tecnocrazia di Bruxelles, e la totale rassegnazione alle politiche dell’austerity, che ormai ha colto tutti gli altri burocrati e politici europei.
È evidente che a questo approccio mancano vari elementi di rigore: se lo Stato non ha risorse, ma le hanno i privati, non è affatto detto che sia più conveniente far investire loro o – piuttosto – usare l’autorità statuale per tassarli e poi intervenire attraverso la mano pubblica. Un tempo, qualche decennio fa, nessuno nel vecchio continente avrebbe avuto dubbi sull’opportunità di quest’ultima scelta. Oggi le cose non stanno così. E non è certo colpa dell’impact finance, sia chiaro.
Ma qualcosa non torna. Vediamo cosa chiedono ai governi gli operatori di questa finanza innovativa: assistenza tecnica ai progetti sui quali investire (67 per cento), garanzie pubbliche (67 per cento), sussidi o agevolazioni fiscali (65 per cento), partecipazione agli investimenti (50 per cento). Cioè, in altri termini, risorse e competenze. Proprio ciò, che avremmo dovuto presumere, i poveri Stati colpiti dalla crisi non sono più in grado di mettere in campo. Ancora un paradosso, il terzo, per la finanza d’impatto.
Il quale se ne porta dietro altri due. Se, infatti, non sono le risorse ad essere importanti, allora certamente lo saranno la capacità di garantire soluzioni di ingegneria finanziaria e di accesso ai mercati nonché la capacità di “misurare” le performance socio-ambientali degli investimenti.
Ebbene, alla domanda su quali siano i principali ostacoli per il loro mercato, questi operatori evidenziano prima un deficit di ordine tecnico-finanziario (assenza di appropriata offerta di capitale per i diversi profili di rischio-rendimento degli investimenti; scarsità di progetti di alta qualità dotati di track record in cui investire; difficoltà ad uscire dall’investimento), poi un problema di natura culturale e metodologica (assenza di un linguaggio comune sulla finanza d’impatto; mancanza di strutture finanziarie adeguate alle esigenze delle imprese da inserire nel portafoglio di investimenti; inadeguate pratiche di misurazione dell’impatto).
Cioè proprio quegli elementi critici che hanno giustificato in passato, e invero continuano a giustificare in molte economie avanzate, la presa in carico da parte dello Stato di alcuni particolari e rilevanti investimenti. Due ulteriori significativi paradossi della finanza d’impatto.
L’incoerenza emerge chiara anche da uno dei report predisposti per conto (e non dalla) Commissione Europea nell’ambito della Social Innovation Initiative, che identifica come prioritarie e di gran lunga più significative proprio le risorse di Bruxelles (attraverso i fondi strutturali) invece che gli investimenti privati, per il finanziamento di tutto ciò che entra sotto il cappello di innovazione sociale (e che, per quanto visto, è per definizione oggetto della finanza d’impatto)2.
Vedremo nella prossima puntata come si sta muovendo la politica.
1 JP Morgan, Perspectives on Progress. The Impact Investor Survey, 2013. In www.jpmorgan.com. 2 Social Innovation Europe Initiative, Financing Social Impact. Funding social innovation in Europe – mapping the way forward, 2011. Disponibile in: http://ec.europa.eu/enterprise/newsroom/cf/_getdocument.cfm?doc_id=7048.