La mozione di censura sulla vigilanza bancaria approvata dal Parlamento è davvero inopportuna e lesiva dell’autonomia della Banca d’Italia? Qualche considerazione per inquadrare meglio il tema
La pretesa inopportunità della mozione parlamentare.
Non vi è nessuna delle eterogenee voci politiche che si sono alzate in difesa di Visco/BI (Banca d’Italia) che abbia sostenuto che la vigilanza sia stata efficace. Ovunque in casi di fallimenti organizzativi i massimi dirigenti ne portano la responsabilità. Per BI questo non vale. Si preferisce criticare la mozione approvata dal Parlamento, che principio di sovranità vuole si possa occupare di, e valutare qualsivoglia questione. Evidentemente non quelle che riguardano BI, nonostante che la nomina del Governatore sia l’unica occasione in cui il governo decide qualcosa che riguarda la BI (senza bisogno di passare, come nel caso delle nomine dei membri delle altre autorità indipendenti, per il parere delle commissioni parlamentari competenti). Il tutto sembra paradossale, come ben evidenziato da Clericetti pochi giorni fa su Repubblica.
Dice l’autodifesa del Governatore: “Le banche sono imprese” e “anche in presenza di difficoltà la vigilanza non può sostituirsi agli amministratori”. Nessuna impresa è in Italia sottoposta a operazioni ispettive potenzialmente penetranti quanto lo sono le banche. Ciò non è casuale, data la funzione che esse rivestono in tutela del pubblico. Esiste un rapporto a più mani del luglio 2014 delle principali autorità di controllo europee (le firme sono dell’EBA, dell’ESMA, della EIOPA e del Joint Committee of the European Supervisory Authorities) che descrivevano in dettaglio i comportamenti deviati di collocamento dei titoli tossici presso i clienti delle banche. La vigilanza dunque sapeva quanto meno dal 2013. Ammettiamo pure che gli strumenti correttivi allora disponibili non fossero efficaci. C’è chi possa credere che le suddette Istituzioni e la dirigenza BI non fossero in grado di creare un opportuno allarme, capace di indurre rimedi da una sfera politica che era oltremodo facile rendere oggetto di pressioni forti abbastanza perché non potesse dire di no? Non abbiamo forse visto in questi giorni di quanto prestigio godano le banche centrali?
La pretesa “virtù” del risparmio
Che nel 1924, quando Pantaleoni propose la giornata mondiale, si ritenesse il risparmio una virtù sia individuale che collettiva è comprensibile. Guidavano Pantaleoni sensibilità storica e suggestioni teoriche. All’epoca il risparmio veniva assorbito in massima parte da investimenti produttivi e spesso era insufficiente a questo scopo. La nascente teoria economica neoclassica, poi, vedeva nell’eguaglianza tra flussi di risparmio e flussi di investimenti produttivi la condizione che assicurava l’equilibrio del sistema economico.
Ma già negli anni successivi alcuni studiosi, prima Robertson nel 1926 e poi Keynes negli anni ’30, riflettendo meglio sulle caratteristiche di una moderna economia con moneta creata da stato e banche, insinuavano dubbi sul carattere sempre virtuoso del risparmio. Il risparmio monetario può essere visto infatti come una “sottrazione di domanda di beni”, che può trovare compensazione solo per effetto di una domanda di beni strumentali (investimenti produttivi), di domanda estera (esportazioni), di una domanda pubblica finanziata in deficit (con stampa di moneta o con emissione di titoli). Senza tali compensazioni l’economia si avvita in una depressione. Il risparmio quindi, fermo restando il valore che può avere per i singoli individui, può apparire alternativamente, dal punto di vista sistemico, una virtù o una iattura a seconda di un insieme complesso di circostanze. Tra queste vi è il livello del fabbisogno di investimenti produttivi, che varia nel tempo del tutto indipendentemente dai fattori che determinano il risparmio: aspettative, evoluzione tecnologica, concorrenza internazionale, ecc.
Oggi la possibilità di un sistematico eccesso di risparmio è un evento più che probabile. Tale eccesso anzi era stato previsto come fisiologico da Tobin, unitamente alla conseguente implicazione del formarsi sistematico di una ricchezza improduttiva. A partire dal 2005, poi, sulla scia di uno scritto dell’allora direttore della FED Bernanke, vi è stata una attenzione crescente, su basi tutte empiriche, al fenomeno che Bernanke chiamò Global Saving Glut (GSG), ma che altri hanno denominato con espressioni più direttamente evocative dell’eccesso dei risparmi monetari intenzionali sugli investimenti produttivi (Cash Hoarding, Dead Money, ecc.).
L’inascoltato Tobin
La Tobin tax qualche timido passo nei dibattiti politici l’ha fatto. Non così le notevoli riflessioni di Tobin sulla crescita di una economia monetaria, che gli sono valse il Nobel. Nel suo Memorial Speech del 1981 egli così riassumeva la sua concezione. Il risparmio monetario andrebbe visto come fatto allo scopo di ripartirlo tra titoli rappresentativi di investimenti produttivi (nuove azioni di imprese non finanziarie, indicative dei flussi di investimento produttivo), titoli obbligazionari (in particolare pubblici) e moneta accantonata; moneta accantonata e titoli erano riguardati come esemplificativi di qualsiasi allocazione in ricchezza improduttiva. Si ammetteva quindi esplicitamente una fisiologica eccedenza dei risparmi monetari sugli investimenti produttivi. Ciò non avrebbe fatto venir meno, a livello teorico, le asserite “condizioni di equilibrio” delle economie di mercato; per Tobin infatti doveva fisiologicamente esistere una sistematica creazione di liquidità attraverso una spesa pubblica programmaticamente in deficit e ciò avrebbe conservato costante nel tempo il peso relativo sia del flusso che dello stock della ricchezza improduttiva (proposizione sul quale esprimo riserve più oltre).
Si trattava evidentemente di qualcosa di inaccettabile per le ideologie economiche liberiste e “austeriste” che si andavano allora consolidando, che rifiutano l’idea di un’economia guidata da uno stato protagonista (invece del mercato) e non tollerano bilanci pubblici rilevanti e, meno che mai, in disavanzo. Non vi furono tuttavia particolari critiche dirette. Da un lato si dava il Nobel a Tobin e dall’altro se ne ignoravano le idee. Quando di idee scomode non si parla tanto, esse vengono dimenticate e non hanno conseguenze rilevanti nel più ampio “mondo che conta”.
Il linguaggio comune, consolidato dai mass media, ha comunque agevolato la manipolazione ideologica: si chiamano infatti comunemente “investimenti” non solo la costruzione di beni strumentali (tecnologie, macchine, impianti, ecc.) o per esempio e come caso limite (si tratta di beni di consumo durevoli) il valore delle (sole) nuove case costruite nel periodo, ma anche quelli che sarebbe opportuno chiamare “impieghi in ricchezza” (acquisti di terreni, ovvero di case, preziosi, opere artistiche esistenti, ovvero di azioni e obbligazioni emesse in passato, azioni di imprese finanziarie, quote di fondi finanziari, ecc.). A livello individuale tali impieghi altro non sono che modi di conservazione e ampliamento di ricchezza improduttiva o strumenti di speculazione o acquisizione di ricchezza produttiva già esistente (si pensi alla aberrazione concettuale di chiamare “investimenti” lo “shopping” di imprese produttive già esistenti da parte dei fondi sovrani di paesi con forti attivi commerciali). A livello di sistema si tratta invece di fenomeni meramente redistributivi, che vanno per lo più a premiare di più chi ha già di più.
L’eccesso di risparmio e la crescita del peso relativo della ricchezza improduttiva
I fatti, peraltro, finiscono per mordere, come testimoniato dalle riflessioni, tutte empiriche, post-Bernanke, che attribuiscono le cause dell’eccesso alle motivazioni più varie, in parte fantasiose e in parte di gran buon senso
Per una rassegna chiara è in questo caso sufficiente la voce di wikipedia. Gli studiosi coinvolti vedono nell’eccesso un fattore di squilibrio, al contrario di Tobin (peraltro a mia conoscenza mai citato). Per me essi hanno ragione nel vedere il fenomeno come patologico. Tobin ha a mio avviso infatti mal considerato il fatto che la creazione annua di ricchezza improduttiva, ancorché di peso costante nel tempo rispetto al valore dei flussi produttivi, dà luogo a strumenti di liquidità (moneta nelle mani del pubblico, titoli del debito) che permangono nelle economie (a differenza dei flussi di domanda di merci, che saldano i rapporti dare/avere tra produttori e consumatori nell’ambito di ciascun periodo senza lasciare residui). Di conseguenza moneta e titoli creati in ciascun periodo nel corso del tempo formano ed alimentano uno stock che permane e si accumula. Ne segue una crescita del rapporto tra stock di ricchezza improduttiva e flussi, e quindi anche del rapporto tra ricchezza improduttiva e ricchezza produttiva (sostanzialmente proporzionale ai flussi produttivi). Le inique conseguenze distributive di ciò sono ormai ben note.
A quando un po’ di discorsi adulti?
I problemi, le incertezze cognitive, i rischi che stanno dietro i temi cui ho fatto qui cenno avrebbero dovuto in qualche modo e misura essere al centro dei discorsi fatti nella giornata mondiale del risparmio, così come avrebbero dovuto essere oggetto di attenzione i rischi delle eredità che verranno certamente lasciate dalle politiche monetarie di questi anni, sui quali mi sono recentemente soffermato su Sbilanciamoci.
Di questi discorsi adulti, onestamente problematizzanti, non vi è stata nemmeno l’ombra. Vi è stata solo abbondanza di discorsi auto-assolutivi e auto-celebrativi dei soggetti coinvolti. Ciò induce francamente un qualche stupore, a dire il meno, trattandosi di soggetti che, quale che sia la valutazione finale che si intende dare del loro operato, non si sono dimostratati particolarmente efficaci nel proteggere gli interessi collettivi. Magari non per loro colpa ma per via di un quadro normativo del quale tuttavia, ripeto, con il prestigio che deriva dalla loro competenza avrebbero potuto agevolare una opportuna evoluzione.