Economia, demografia, sviluppo. Qualche riflessione sulle rivoluzioni in corso a partire dalla lettura dei numeri di un annuario
Il mondo si muove. Il Mediterraneo cambia faccia. Chiusi in questo nostro vecchio paese abbiamo guardato il rovesciamento del despota ladro di Tunisi; la vitalità e maturità delle ragazze e dei ragazzi, e di qualche vecchia, straordinaria, signora, di piazza Tahrir: settimane e settimane di protesta senza violenza, fino al riconoscimento; gli scontri nello Yemen, cominciati mezzo secolo fa, ma forse vicini a una svolta; le manifestazioni in Bahrein. Ultima, per ora, la Libia si distingue per la quasi completa mancanza di informazioni dirette. E’ stato e resta il paese più chiuso, più dittatoriale. Certo ci sono molti morti: basterebbero quelli fotografati per farne l’episodio più sanguinoso della rivolta araba. Ma non c’è modo di capire se c’è mascheramento o esagerazione. Ad oggi i giornalisti italiani che sono stati invitati dal Governo libico – Matteuzzi, Caccia e gli altri – hanno scritto che non si vede nulla.
Ci sono stati commenti di studiosi e prese di posizione di politici. Della lungimiranza dei politici non c’è molto da dire. Si muovono paesi di quasi 80 milioni di abitanti, come l’Egitto, paesi di giovani in bilico tra la libertà e il dispotismo, nell’area dove c’è un terzo delle riserve energetiche del pianeta, e loro si preoccupano solo di chiudere le frontiere. Olivier Roy, che insegna all’Istituto universitario europeo di Fiesole, ha scritto per Le Monde un bel commento sulla laicizzazione dei paesi a tradizione islamica, tradotto da Internazionale. E’ un segno della nostra unilateralità che nella prefazione a un bel libro di Roy (Afghanistan. L’Islam e la sua modernità politica, ESIG, Genova, 1986) che sosteneva la funzione universalistica e giuridica dell’Islam, Norberto Bobbio cominciasse: “Mi trovo a scrivere queste pagine nei giorni immediatamente precedenti il 25 aprile…Ma la guerra di liberazione in Italia è durata 20 mesi. La resistenza del popolo afgano contro l’occupazione sovietica dura da più di sei anni”. Mi chiedo chi, oggi, con un diverso occupante, farebbe, magari con dei distinguo, un commento analogo.
Molti commenti giornalistici sembrano fondarsi solo su stereotipi, etnie, affinità culturali nei casi migliori. Gli arabi – o gli islamici, a scelta – vengono confinati in un enorme ghetto o distinti solo per confessione o tradizione. Ma Al Jazeera, la rete televisiva a cui tutti attingiamo, direttamente o indirettamente, nella versione internazionale o in quella araba, tra le migliori accessibili, è basata nel Qatar. E i paesi di cui si parla sono paesi veri, con una economia, una società, una demografia, scuole, ospedali, città, campagne, montagne, deserti; paesi che si visitano per turismo o per affari; paesi di immigrazione o di emigrazione, più reciproche che verso l’Europa; paesi molto ricchi o molto poveri; paesi cambiati moltissimo nell’ultimo quarto di secolo.
Leggere un annuario – nel mio caso Lo sviluppo umano. Rapporto 2007-2008, l’ultima edizione tradotta in italiano da Rosenberg & Sellier – non basta certo a sostenere una tesi, ma basta a porre qualche domanda, a sottolineare qualche differenza; a esprimere qualche perplessità. Gli annuari possono essere rozzi, cancellare le cause, le dinamiche, trasformare paesi vivi in farfalle infilate da uno spillo sotto un vetro; ma impediscono di prendere fischi per fiaschi. Non si trovano tracce di traumi concentrati recenti. Non si trova la catastrofe finanziaria dell’Islanda e dell’Irlanda, prima e quinta nello sviluppo umano anche perché ricche, di una ricchezza puramente contabile; ma si trovano gli alti livelli di istruzione, di uguaglianza.
Molti piccoli paesi petroliferi o nell’area del petrolio sono ad alto sviluppo umano perché la rendita petrolifera, o l’essere la più importante base militare nell’area, come il Bahrein, fa ricchi, e perciò anche alfabetizzati e longevi, tutti i cittadini. Il Kuwait è solo 13 posti sotto l’Italia, che è ventesima, ha sostanzialmente lo stesso indice economico, un’attesa di vita alla nascita di 77,3 anni, l’alfabetizzazione degli adulti (cioè inclusi i vecchi) al 93,3% (l’Italia è al 98,4%). Il Qatar segue due posti dopo. Perché poi in Qatar si trovino i soldi per mettere in piedi Al Jazeera e la Repubblica italiana, per propinarci Minzolini, ci faccia pagare il canone e inghiottire pubblicità, è un altro discorso. Naturalmente anche gli Emirati arabi uniti, il Bahrein sono ben piazzati. Ma si tratta di paesi che rassomigliano a Montecarlo, che fanno comodo come paradisi fiscali, basi militari o come giacimenti diventati Stato. E’ più interessante la Libia, che ha 6 milioni di abitanti, la cui attesa di vita è di 73,4 anni, l’alfabetizzazione degli adulti 84,2%, quella dei giovani il 98%. Non c’è da stupirsene perché i paesi totalitari devono ben nazionalizzare le masse, organizzare i giovani, le donne, la milizia. Ma questo richiede varie decine di migliaia, forse centinaia di migliaia, di maestre e maestri, professori, militanti a tutti i livelli. Noi una jamahiriya l’abbiamo conosciuta per un ventennio e dovremmo ricordarcene. Il primo gruppo sociale che un governo totalitario deve controllare è l’apparato dello Stato, le assicurazioni, la sanità. E’ singolare che si sia letto che la Libia non ha un ceto medio. Viene da dire che ha solo un ceto medio, oltre alla élite del potere, e che invece non ha una classe operaia perché chi fa i lavori servili, un terzo dei residenti, è immigrato. Come, del resto, avviene in tutti i paesi petroliferi più piccoli. Ed anche in molti paesi africani non petroliferi l’emigrazione intrafricana è dieci volte quella verso l’Europa. I lavori in Libia li hanno fatti i tunisini, i neri, gli egiziani, le cui facce, disperatamente contadine, si vedono oggi ai confini occidentale ed orientale. Saranno gli unici a non aver visto Al Jazeera. Sono gli unici che non si dipingono la faccia con i colori di una bandiera, moda la cui diffusione è un segno della potenza del mezzo. La Libia ha avuto le percentuali di immigrazione che Anastasia ha calcolato su dati Istat per il Veneto da qui a venti anni, e che sono probabili per tutto il nord Italia, se il paese non si sfascia prima. Gente che non ha fatto parte dello Stato corporativo, lì, e che qui non vota. Sono quelli con cui, malgrado l’entusiasmo per i giovani dipinti, mi identifico di più.
E l’Afghanistan? Si è letto di un Afghanistan alle porte di casa, Ma lì, per i 25 milioni di abitanti, l’attesa di vita è di 42,9 anni; l’alfabetizzazione degli adulti è al 28%; i figli per donna sono 7,5; la mortalità infantile, in gara con quella somala e quella liberiana per la più alta del mondo, è di 257 per mille. Non diciamo “un altro mondo”, dato che in Puglia e in Abruzzo nel ’22 l’attesa di vita era poco più di 40 anni e che in tutta Italia a inizio ‘900 metà dei nati moriva prima dei 6 anni; piuttosto “un altro tempo”. Lì non c’è una lingua comune; non c’è stato un lungo periodo di nazionalizzazione, spontanea o forzata. L’Afghanistan esiste come Stato perché gli imperi devono tenere un piede sul Pamir, nel centro strategico dell’Asia; e cercano di farlo, con grave danno degli afgani e proprio, dai tempi di Kimballah O’Hara; cambiando i nomi degli imperi, da sempre.
A parte le differenze enormi con l’Asia centrale, l’annuario dice altre cose interessanti.
I paesi popolosi – Egitto, Marocco, Algeria – sono più in basso in graduatoria, per ragioni di reddito, con l’eccezione dell’Arabia saudita (15,6 milioni di abitanti), che si regge sul lavoro asservito e il petrolio. Ma l’attesa di vita è di 71,9 anni in Giordania, di 71,5 in Libano, di 73,5 in Tunisia, di 71,7 in Algeria, di 73,6 in Siria, di 70,7 in Egitto, di 70,4 in Marocco. E in tutti questi paesi le donne hanno ora un’attesa leggermente superiore agli uomini. I figli per donna, in connessione con l’alfabetizzazione, sono scesi, negli ultimi 30 anni, da 6 a 2 in Tunisia, da 7,6 a 3 in Libia, da 7,4 a 2,5 in Algeria, da 6,9 a 2,5 in Marocco, da 5,9 a 3,2 in Egitto, da 7,8 a 3,5 in Giordania. Fanno eccezione i Territori occupati in Palestina, che sono 20 posti sotto la Giordania, in termini di sviluppo umano, dove, malgrado l’attesa di vita sia di 72,9 anni, i figli per donna sono scesi solo da 7,7 a 5,6.
Insomma, malgrado la fecondità delle donne in Egitto sia ancora doppia che in Italia, la istruzione delle donne, la durata della vita e la fecondità in Nordafrica tende rapidamente all’equilibrio. Ma intanto ci sono milioni di giovani istruiti e disoccupati. Venti anni fa Massimo Livi Bacci ha curato un volume Le risorse umane del Mediterraneo, il Mulino, 1990, i cui saggi documentavano uno squilibrio demografico sia a sud, con troppi giovani, sia a nord, con pochi giovani, che sarebbe stato possibile riequilibrare, dato il divario di reddito, con una emigrazione da sud a nord di 300.000 persone l’anno, per tutto il Mediterraneo. Un’inezia. Abbiamo preferito barricarci e contribuire a spopolare la Russia. Nelle situazioni di crisi spesso si scopre che nell’immediato non si può fare nulla; che sarebbe stato necessario fare qualcosa tanti anni fa; che bisogna lavorare per il futuro perché a cambiare il mondo ci vuole tempo. Sarebbe ora che ce ne rendessimo conto. Ne Le conseguenze economiche della pace KeYnes scrisse che la demografia determina le rivoluzioni (parlava di quella russa) “più dell’insipienza dei governanti e dell’estremismo degli atei”. E’ sempre vero.