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Tra il dire e il fare c’è di mezzo… Borgo Mezzanone

La Flai ha organizzato all’interno del ghetto nel Foggiano, dove vivono in condizioni disumane migliaia di lavoratori, una simulazione dell’esame di italiano e ha consegnato generi di prima necessità.

Sono belle le letture e le analisi sulla riscoperta dei borghi italiani. Profumano di buono, riportano al passato, hanno i colori dell’autunno, sanno di quella “nebbia – che – agli irti colli sale”, riportano alle prime ore dei lenti pomeriggi estivi dove “il meriggiare è pallido e assorto”. 

La riscoperta di qualcosa di vicino, che fa fuggire dalla frenesia delle città. Si anela al ritorno in questi luoghi, perché insieme ai borghi abbiamo riscoperto anche il turismo di prossimità, e la lentezza, e la tranquillità e la sostenibilità. È bello.

Ancora più bello, paradossalmente, della riscoperta, da parte delle classi benestanti, di tutto questo, c’è la scoperta di un altro tipo di borgo, quello da cui prende nome un ghetto, quello appunto di Borgo Mezzanone.

Qui l’autunno che apre le porte all’inverno fa paura. La primavera che si spalanca sull’estate terrorizza. Brividi di freddo e brividi di caldo. Denti che battono e teste arroventate. Stufette che scoppiano e acqua torbida. 

Per chi entra nel ghetto si crea un prima e un dopo, un prima fatto di pregiudizi, idee chiare da benpensanti, articoli letti, curiosità voyeuristiche, e un dopo che mette a terra la realtà cruda delle storie di chi fa vivere quella pista abbandonata. Le baracche poggiano infatti sulla pista di un aeroporto militare da dove partivano i caccia G91 della Nato che andavano verso il Kosovo.

Un luogo di guerra. Ora sulle lamiere delle casupole, sulle facciate di calcestruzzo improvvisate, sui cartoni che chiudono le crepe la parola che si legge più spesso è pace, o meglio peace, si inneggia all’amore e al disarmo. Fucili, kalashnikov e pistole disegnate sono cancellate da croci rosse nette, incontrovertibili. Un urlo urbano sommesso, ma vibrante. Quell’urlo lo leggeranno gli abitanti, i transitanti e pochi altri. 

Li le persone sanno cosa può creare la guerra. Lo sapranno per sempre. E sapendo cos’è la guerra in molti cercano di costruire la pace.

È qui che nascono le contraddizioni che ruotano intorno allo slum nascosto dagli occhi di tutti e tutte noi, persone che si autocensurano, rese invisibili dallo Stato e dalla società, e che purtroppo ormai trovano nell’invisibilità la normalità. Una condizione da cui difficilmente riusciranno ad uscire, ne sono consapevoli, ma loro conoscono il significato della parola “resilienza” non perché l’hanno studiata, ma perché è una condizione che scorre nelle loro vene. Speranza, voglia di sopravvivere, di galleggiare in un mondo che forse li preferiva annegati.

Le contraddizioni, appunto sono molteplici e scorrono lungo diverse direttrici. Le prime sono interne, si aprono dentro chi non vive lì, e per la prima volta riesce ad accedere nello slum. Le convinzioni vacillano, si prova un forte senso di vergogna, di imbarazzo, anche in chi da sempre con l’attivismo, la militanza e gli ideali cerca di contrastare l’esistenza di queste voragini, dove si perde di vista la dignità e dove i diritti umani vengono calpestati, sgretolati, distrutti. E arrivano domande, le utopie reali che si pensavano risolutrici, vacillano. Non si è più sicuri che la soluzione sia la redistribuzione di queste persone in contesti urbani più solidi, che comunque mancano.

Mentre si cammina all’interno del ghetto non si sa dove guardare: file alle cisterne, uomini in ciabatte, mani sporche di terra e fango, pelli lucide, denti bianchissimi, vestiti più grandi della taglia adatta, più piccoli delle spalle larghe. Allacci improvvisati alla debole corrente, silenzi rispettosi della stanchezza altrui e della propria. Capannelli di uomini che di ritorno dalla terra si fermano a parlare, tutti in piedi. Un grande movimento silente di persone che sembrano non potersi sedere da nessuna parte. Verso cosa si sta tornando? Una baracca dove per entrare bisogna nuovamente chinare la schiena.

È l’ora di ritorno dai campi, ci si ferma a comprare qualcosa per la sera. Ci sono negozi, piccole attività commerciali dove trovare beni di prima necessità, un barbiere, banchi di stivali contro la pioggia, di abiti da lavoro con i loghi più disparati, Protezione Civile, Croce Rossa…, tavoli con vestiti usati. Uno dei gestori di queste attività arrabattate cerca una persona che lo aiuti a gestire il banco, a pagamento, ovviamente. Una chiesa e una moschea – una di fronte all’altra – bar di ritrovo, locande dove si vende cibo pronto, griglie su cui si cucina qualche tipo di carne. Si vende dignità a buon mercato, la dignità data dall’autonomia della scelta di un prodotto che si preferisce ad un altro.

E poi bandiere rosse. Ce ne sono varie all’interno del ghetto. Sono le bandiere della Flai Cgil, il sindacato che da sempre si occupa di denunciare il caporalato e che da sempre sostiene con atti di solidarietà concreta gli abitanti dei ghetti italiani.

Qui la Flai è di casa, è una casa. Un luogo sia fisico che ideale che protegge e sostiene chi questo luogo lo tiene vivo e vitale. La Flai combatte battaglie che, le migliaia di abitanti fissi – cifra che aumenta nei mesi della raccolta del pomodoro – da soli non possono combattere, perché devono lavorare tanto per campare male e perché non hanno in mano gli strumenti adatti. Le leggi e la burocrazia, troppo spesso ottuse, non si possono arginare con una zappa. 

E allora arrivano gli uomini e le donne della Flai che concretamente distribuiscono gli attrezzi giusti: una scuola di italiano, un presidio di sostegno legale – al termine dell’iniziativa è stato firmato l’accordo per l’istituzione – una biblioteca, una presenza costante, competente, vigile e attenta sui bisogni e le brutture da colmare.

Perché distribuire coperte e maglioni, come è stato fatto in occasione della simulazione dell’esame di certificazione che si farà al termine della scuola di italianonon è assistenzialismo ma solidarietà. E insieme ai piumoni si distribuisce fiducia. 

Gli uomini, e le donne – poche e sfrante – del ghetto si fidano delle sindacaliste e dei sindacalisti della Flai, hanno costruito insieme rapporti solidi e autentici. Borgo Mezzanone, con tutte le sue storture e brutture e vergogne non è più solo un ghetto ma una comunità che si autogestisce.

E allora da qui si deve ripartire, e la Flai l’ha capito, dalla costruzione di comunità che possano sconfiggere l’isolamento sociale che sta fagocitando la nostra società individualista e sgretolata. 

Lamiera su lamiera, mattone dopo mattone. Perché dal ghetto di Borgo Mezzanone si può imparare tanto, la Flai qui insegna e impara. Il ghetto non deve fare paura perché abitato da quelli che si è deciso siano gli ultimi, ma deve fare paura perché se ci si specchia nell’acqua torbida delle pozzanghere vediamo il nostro viso, e ci rendiamo conto di quanto poco si sta facendo per costruire alternative valide a un mondo in malora.

 

Articolo pubblicato dal sito Flai.it