50 anni dopo, la storia in 3 parti di una straordinaria stagione di conflitto che ha aperto la strada alla democratizzazione del lavoro e della società. Prima parte: alla fine dei ’60, mentre comincia a soffiare il vento della contestazione, alla Fiat di Torino regna il terrore di Valletta&Co…
Alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso il contesto storico, politico e sociale era molto particolare, sicuramente diverso da quello di oggi. Le prospettive di sviluppo sembravano inesauribili nel tempo. Tutto il mondo era percorso da fermenti di ribellione e da movimenti che stimolavano i cervelli e suscitavano grandi emozioni: gli studenti di Berkeley e il maggio francese, il movimento italiano nelle università, l’onda lunga delle lotte per l’indipendenza in Africa e in Asia, Cuba, ma soprattutto il Vietnam, per noi simbolo della possibilità che l’intelligenza e la tenacia dei poveri potesse tenere in scacco e poi sconfiggere i ricchi e i potenti.
E anche la discussione feroce sui paesi cosiddetti comunisti, dopo la Cecoslovacchia, con il confronto tra le varie componenti del comunismo e del socialismo italiano, tra le varie sinistre, dal manifesto al Psiup: “il taylorismo è taylorismo anche in URSS”, ci dicevano Aventino Pace, Emilio Pugno e Bruno Trentin, nostri dirigenti torinesi e nazionali, “e non ci pare che abbiano inventato un modello diverso, anche se dicono di essere comunisti”. E poi i cattolici del dissenso, i preti operai e la scuola di Barbiana. E anche la novità positiva di Giovanni XXIII. Tutti segnali che lasciavano presagire trasformazioni profonde, nella società e nella cultura dell’intero paese. Anche la fiducia nella politica, ripensando con un certo distacco a quei tempi, era diversa e sicuramente maggiore.
Non certo perché la pensassero tutti allo stesso modo, anzi. Ma probabilmente perché c’era la convinzione che i grandi movimenti di massa avevano il potere di cambiare gli orientamenti consolidati, di modificare le scelte dei grandi partiti. Basti pensare a come stava cambiando il sindacato e ai rapporti tra il sindacato e la politica, intanto con la crescita di un orientamento che ha portato all’autonomia del sindacato dai partiti.
Sono anche gli anni nei quali, per una scelta coraggiosa del gruppo dirigente Fiom, decine di studenti, me compreso, che avevano partecipato alle prime lotte nelle Università, quelle del 1962-63, vengono fatti entrare nel sindacato, pensando ai corsi di formazione. Forse anche per questo così alto è stato nella Fiom l’interesse per il Sessantotto studentesco, con la sua carica di innovazione e di lotta contro tutte le ossificazioni autoritarie. Ne abbiamo parlato, abbiamo studiato i loro documenti, a partire da quello di Palazzo Campana (che era proprio dietro l’angolo dell’allora Camera del Lavoro). Si fece addirittura un numero monografico di Sindacato moderno, la rivista della Fiom nazionale, pieno di idee analisi e proposte.
La Cgil ha reagito alla sconfitta del ’54 alla Fiat con una svolta che ha rivalutato il ruolo strategico della contrattazione aziendale, ripensata in una funzione non subalterna, e ha così posto le basi per una forte unità con settori della Cisl, a cominciare dai meccanici. È l’epoca della svolta anti-aziendalista della Cisl di Torino, della rottura della Confindustria con la creazione dell’Intersind, associazione delle aziende a partecipazione statale, e dell’inizio di una discussione molto accesa dentro la sinistra su un’intera strategia politica, dalle tendenze effettive del capitalismo italiano alle prospettive politiche (non c’è più l’ora “x”, che fare? Il Psi si orienta verso il centro-sinistra, mentre il Pci?)
Si sviluppano lotte e movimenti significativi. Gli elettromeccanici di Milano nell’inverno ’60, la grande importanza dei rinnovi contrattuali del ’62 e del ’66, che consolidano il diritto alla contrattazione aziendale. Centinaia sono poi le vertenze nelle aziende, a Milano, Genova, Napoli, in Veneto, alla Rex di Pordenone, ma anche a Valdagno, nei tessili, nei chimici, nelle campagne del Nord e del Sud. Ovunque si cerca di intervenire sulle condizioni di lavoro oltre che sui salari, e per una maggiore democrazia in fabbrica. Non bastano più le Commissioni interne, si allargano i casi in cui si affermano protagoniste le sezioni sindacali. Centinaia sono i corsi di formazione per i nuovi rappresentanti sindacali.
***
Nella Fiat, invece, il tempo sembrava essersi fermato al 1952, quando Valletta decise la formazione dei “reparti confino”, a cominciare dalla OSR (Officina Sussidiaria Ricambi, o Officina Stella Rossa, come venne ribattezzata), dove sono stati concentrati i “sabotatori”, cioè i più importanti dirigenti comunisti e socialisti, come esempio di un’operazione sistematica di isolamento di tutti quelli che ardivano protestare, compiuta quotidianamente in ogni reparto dell’azienda. È allora che si è sviluppata una campagna a tappeto, non solo sull’opinione pubblica cittadina, ma direttamente sulle famiglie, con lettere ripetute e terroristiche alle mogli e ai parenti dei lavoratori. Campagna che ha dato i suoi frutti, visto che ha portato alla pesante sconfitta della Fiom nelle elezioni di Commissione interna del 1954.
Alla Fiat di Torino (ed era solo a Torino, con l’eccezione della OM a Brescia e di poche grandi filiali), il modello Valletta rimane immutato. Non semplice autoritarismo, ma galera, garantita da un potere assoluto di una gerarchia di capi e capetti, spesso brutali e ignoranti, che hanno potere assoluto sull’assegnazione della categoria, sui superminimi di cui allora si abbondava, sull’assegnazione dei posti più comodi o più faticosi, sul recupero della produzione alle linee, in barba al numero di assenti o alle fermate tecniche, sulla possibilità di andare al gabinetto per l’assenza di sostituti, e così via. Anche agli operai specializzati – che eseguivano normalmente nel loro lavoro e anche nella manutenzione degli impianti prestazioni di categoria superiore – veniva richiesta l’esecuzione di un “capolavoro” di fronte a una commissione fatta dai loro capi, cioè da quelli che li ricattavano e li condizionavano quotidianamente.
La Mirafiori era la situazione più abnorme ed esasperata. Circa 60.000 dipendenti (Cuneo ha 57.000 abitanti, Rieti 47.000), con 3.000 capi. Condizioni di lavoro infernali – così le descrivono tutte le testimonianze di allora fino ai casi limite delle fonderie, della lastroferratura e della verniciatura, che erano le peggiori in assoluto. Tranne gli impiegati degli uffici che facevano il turno centrale, la gran parte degli altri lavorava su due turni avvicendati, dalle 6 alle 14 e dalle 14 alle 22.
Vi erano anche i turni di notte, ai servizi generali, cioè alle centrali elettriche e termiche e alle presse, con avvicendamento ogni 3 settimane. Dal lunedì al sabato, per 48 ore settimanali. E senza mensa, quindi tutti dovevano portarsi il mangiare da casa. Ritmi e cadenze massacranti: alla 500, alla 600 e poi alla 750, la cadenza era attorno al minuto o poco più nei montaggi finali. Alle linee di montaggio cambi o di montaggio motori della meccanica si arrivava anche ai 30 secondi. Il fordismo spinto a limiti estremi. Caruso, detto “il Terribile”, ci raccontava che spesso sulle linee si udiva un urlo, drammatico, lungo e lacerante. E diceva “Tutti ridacchiano, ma a me si ghiaccia il sangue e si drizzano i peli sulla schiena. Come si può ridere di una sofferenza così grande ed evidente?”
***
Nella città non era certo meglio. Intanto per una crescita fuori controllo e senza adeguato aumento di abitazioni e servizi. Dal ’51 al ’61 Torino cresce del 42,5%. Fino al ’70 l’insieme della cintura metropolitana si moltiplica di 5 o 7 volte. Cosa trovano queste migliaia di giovanissimi immigrati meridionali? Ostilità, a dir poco. “Non si affitta a meridionali” dicevano i cartelli attaccati fuori dalle case o nei negozi. “I napuli fanno l’orto nella vasca da bagno, è chiaro che sono sporchi”. A parte i pochi che avevano già qualche parente in zona, gli altri trovavano solo squallidi dormitori, o magari camere con 3-4 letti in ciascuno dei quali dormivano in 2 perché facevano il turno avvicendato. Come gli immigrati di oggi. E anche in quel caso con la barriera della lingua, perché in giro si parlava in dialetto (sorprende e amareggia il fatto che, a cinquant’anni di distanza, magari anche da questa prima immigrazione arrivino tanti voti alla Lega: come se ci si fosse dimenticati di tutto).
***
Arriviamo alle elezioni di Commissione interna del 12 dicembre 1968 in queste condizioni. 21 erano i membri di Commissione interna, di tutte le componenti. A quelli della Fiom era praticamente impedito di girare nei reparti. La Fiom aveva 183 iscritti su 60.000 dipendenti. Ricordo ancora quei foglietti. E accanto a ogni nome, alla fine una nota come “occhio al nonno”, “attenti alla suocera”. Perché quando si andava a trovarli, era sempre presente la famiglia al completo. Ricordo i giri con Pugno, in qualcuna delle valli, per raccogliere le firme necessarie alla lista di supporto per la presentazione della lista di Commissione interna. Perché anche questa ulteriore difficoltà aveva creato la Fiat. E le discussioni, tutte in dialetto stretto, di cui a malapena capivo la metà.
(Fine prima parte)
Paolo Franco, dal 1964 in Fiom nazionale e dal 1967 alla Fiom di Torino, è stato Responsabile Fiom alla 5° Lega Mirafiori dal 1968 al 1972, segretario della Fiom di Torino dal 1972 al 1977 e membro della Segreteria nazionale Fiom dal 1980 al 1988. L’autore, assieme a Cesare Cosi, Toni Ferigo, Gianni Marchetto, Piero Pessa, ha costruito un sito sulla storia della Mirafiori, dal 1939 ad oggi, suddivisa per decenni, con tutti gli accordi (anche quelli di officina), commentati, e poi foto, video, materiali diversi, testimonianze, bibliografia vastissima e molti libri integrali e molti altri materiali. Alla realizzazione tecnica del sito ha collaborato Cristina Povoledo. Il sito www.mirafiori-accordielotte.org è attualmente gestito da Ismel, centro studi unitario con sede a Torino.