In soli 34 mesi, nonostante gli investimenti e il bassissimo costo del lavoro, la società di De Benedetti è passata da una solida situazione patrimoniale al disastro
Questa è la storia recente di Sorgenia, sub-holding del gruppo Cir, controllata dal gruppo De Benedetti, presieduta da Rodolfo De Benedetti, primo operatore privato del mercato italiano dell’energia elettrica e del gas naturale. L’impresa protagonista venne costituita per partecipare all’acquisto dall’Enel della centrale termoelettrica di Vado, ora chiusa dalla magistratura. Essa è una delle poche realtà produttive che nell’ultimo decennio abbia effettuato consistenti investimenti materiali: ha costruito quattro centrali termoelettriche a ciclo combinato (Ccgt) di ultima generazione con un elevato rendimento energetico, un’alta flessibilità gestionale e un relativamente basso impatto ambientale. Una realtà produttiva che può contare su un’incidenza del costo del lavoro del tutto trascurabile (i dipendenti del gruppo sono soltanto poco più di 400).
Tre anni fa, il 28 febbraio del 2011, la società che allora vantava una situazione economica, patrimoniale e finanziaria equilibrata ha presentato alla comunità internazionale il piano industriale per il 2011-2016 che si poneva l’obiettivo di “avviare una nuova fase del processo di crescita e sviluppo”, “mantenendo un basso profilo di rischio”. Gli amministratori quel giorno scrissero che nonostante la “grave recessione economica iniziata alla fine del 2008 che ha determinato una sensibile riduzione della domanda energetica nazionale, a fronte di un aumento della capacità produttiva, e di un contestuale calo dei prezzi” e nonostante “il settore sia alle prese con una difficile ripartenza, in un contesto più incerto e competitivo”, la società si proponeva “di affrontare in modo sempre più efficace l’attuale ciclo economico e di proseguire la storia di crescita e creazione di valore per gli azionisti attraverso l’ingresso in nuovi segmenti di mercato, un portafoglio di attività diversificato e bilanciato e una più solida struttura patrimoniale e finanziaria“.
Sul piano commerciale e industriale gli amministratori avevano previsto il quadruplicamento dei clienti nel mercato residenziale, ulteriori investimenti nei mercati dell’energia, delle fonti rinnovabili e dell’esplorazione e produzione di idrocarburi (1,2 miliardi). Sul piano economico finanziario gli obiettivi erano ambiziosi: una crescita media dei ricavi del 10 per cento all’anno, del 29 per cento del margine operativo, nel rafforzamento della solidità finanziaria (rapporto tra debito e margine pari a 4), e patrimoniale (il netto si attestava su valori ampiamente superiori al miliardo di euro). Il mantenimento di un basso profilo di rischio si sarebbe realizzato attraverso l’equilibrio tra generazione e vendita di energia elettrica e una posizione “corta” nel gas, in un mercato caratterizzato da eccesso di offerta.
In soli 34 mesi, nonostante gli investimenti effettuati e il bassissimo costo del lavoro, Sorgenia è passata da una solida situazione patrimoniale e confortanti prospettive economiche al disastro. Il 18 dicembre del 2013 la società ha emesso un comunicato in cui afferma “di ritenere necessaria una ristrutturazione finanziaria” e di aver chiesto alle banche finanziatrici di non effettuare le pratiche legali per il recupero del credito poiché tali operazioni potrebbero compromettere il recupero, anche parziale, dei prestiti. Secondo varie fonti giornalistiche i contatti in corso tra la società e le banche hanno come oggetto il problema dell’ammontare dell’aumento di capitale necessario per consentire il proseguimento dell’attività da parte del socio di controllo e da parte dei creditori con la conversione di parte dell’esposizione.
Come è potuto accadere che un’azienda industrialmente e finanziariamente solida sia arrivata alla richiesta di ristrutturazione finanziaria dopo meno di tre anni? Nelle sue attività core, Sorgenia è attiva nel processo produttivo di una commodity, l’energia elettrica, la cui domanda in Italia è crollata. Nel primo trimestre del 2014 l’elettricità prodotta da fonti fossili sarà inferiore di circa il 40 per cento rispetto a sei anni prima. La causa del tracollo discende da due fattori concomitanti: la crisi economica che ha eliminato un quarto della base produttiva del Paese e lo sviluppo delle fonti alternative: soprattutto eolica e solare. In conseguenza della situazione di mercato, i nuovi impianti di Sorgenia lavorano soltanto in concomitanza con i picchi di domanda, mentre, secondo quanto riportato in bilancio, nelle altre ore il prezzo sui mercati all’ingrosso dell’energia è inferiore al costo marginale di produzione. In questa situazione di mercato i principali competitor di Sorgenia, a partire da Enel, hanno in programma di dismettere gli impianti termoelettrici più vecchi e meno efficienti.
La storia del caso Sorgenia ci insegna molte cose: che gli investimenti non possono riguardare l’ammodernamento di un processo produttivo “antico” come quello delle centrali termoelettriche e di un prodotto “antico” come l’energia elettrica quando il mercato si muove in altre direzioni; che l’acquisto di aziende che incorporano elevate aspettative di profitto (cd avviamento) rischia di indebolire fortemente la struttura finanziaria dell’acquirente non appena la crisi ne azzera il valore; che i sistemi di controllo interno dei rischi spesso costituiscono una sovrastruttura organizzativa incapace di cogliere le reali minacce; che il sistema bancario si è dimostrato incapace di valutare il merito di credito delle imprese affidate; che non sembra possibile trasferire ai discendenti diretti di primo grado il proprio spirito imprenditoriale.
Ma anche la storia recente italiana, soprattutto quella legata ad una parte del sistema industriale del nostro Paese, ci insegna qualcosa: per garantire la prosecuzione dell’attività di un gruppo che dispone di impianti industriali moderni e di buona qualità, oltre e prima dell’aumento di capitale, è necessaria la sostituzione del management e degli organi di controllo, insieme con la predisposizione di un piano industriale credibile e realizzabile nell’attuale contesto di mercato. E qualora servano risorse pubbliche, queste devono essere versate in contropartita di quote proporzionali di potere e capitale, non trasferite sotto forma di incentivi “ad aziendam” con l’approvazione di opachi emendamenti, come venne tentato alcuni mesi addietro.