SMart – con la M maiuscola – è l’acronimo della Società Mutualistica per Artisti, nata nel 1998 come risposta alla crescente domanda di tutela e di riconoscimento dei loro diritti da parte degli artisti – belgi, inizialmente. Poi il campo di azione si è allargato a una gamma di profili lavorativi (in senso lato) diversi: dall’interinale allo sviluppatore […]
SMart – con la M maiuscola – è l’acronimo della Società Mutualistica per Artisti, nata nel 1998 come risposta alla crescente domanda di tutela e di riconoscimento dei loro diritti da parte degli artisti – belgi, inizialmente. Poi il campo di azione si è allargato a una gamma di profili lavorativi (in senso lato) diversi: dall’interinale allo sviluppatore di un progetto, dall’imprenditore di se stesso (figura mitizzata dal neoliberismo) al freelance, dal pensionato al dipendente che apre un’attività complementare, all’artigiano e al consulente. E dal Belgio, la Società si è diffusa a Francia, Spagna, Italia, Germania, Austria, Ungheria, Olanda e Svezia.
Sul concetto di smart e di sharing economy, personalmente abbiamo molti dubbi, nati non da un pre-giudizio ma dall’analisi della realtà del capitalismo delle piattaforme. I modelli dominanti di sharing economy sono infatti espressione di un capitalismo estrattivo e sfruttatore e la piattaforma è il nuovo mezzo di produzione nella terza o quarta rivoluzione industriale ed è di proprietà privata e quindi siamo lontanissimi dall’era dell’accesso o dalla società a costo marginale zero secondo i vaticini di Jeremy Rifkin, come da una autentica economia della condivisione. Certo, grande è l’abilità dello storytelling neoliberista nel produrre una mutazione antropologica di massa, di illudere gli autisti di Uber di essere imprenditori di se stessi, di portare il 93% dei rider di Deliveroo a dichiararsi molto soddisfatti del lavoro e non (come invece sono, se uscissero dalla caverna platonica del neoliberismo) lavoratori dipendenti, sfruttati e alienati.
Ma ci può essere una logica di condivisione che invece contrasti proprio le ombre platoniche e ricostruisca verità alle cose? SMart è una possibile e comunque virtuosa risposta. Ma qual è la sua filosofia e in cosa si differenzia dalle retoriche smart oggi dominanti? A capirlo aiuta (chiarendo molto, ma sollevando anche alcuni dubbi), questo libro-intervista all’amministratore delegato di SMart, Sandrino Graceffa; libro che ha una bella Prefazione di Sergio Bologna e una Introduzione di Roger Burton, Virginie Cordier e Carmelo Virone e che (e ne siamo confortati) si avvicinano (con Graceffa) alla tesi che sosteniamo da tempo (anche su sbilanciamoci.info), cioè che non siamo passati dal fordismo al post-fordismo virtuoso, ma a un fordismo individualizzato ed esternalizzato – anche loro scrivendo che «dovremmo domandarci se non siamo di fronte a una sorta di revival della divisione del lavoro fordista applicata all’industria dei servizi e alle relazioni commerciali». Perché questa è l’uberizzazione del lavoro: l’esplosione della vecchia organizzazione di fabbrica e la trasformazione del lavoratore dipendente in imprenditore di se stesso – che dà il massimo di sé per sopravvivere, che quindi non fa conflitto sindacale (l’obiettivo di Ford e di Taylor sembra così raggiunto), che esegue velocemente, che si adatta – massima virtù richiesta dal sistema.
Scrive Graceffa: «Oggi l’organizzazione del lavoro necessita della capacità d’iniziativa e di adattamento. Si creano delle imprese che si fondano su un lavoro ‘autonomo’ che può essere disperso in differenti luoghi e fornire la propria forza produttiva attorno a dei determinati progetti in un momento preciso. Questo tipo di funzionamento offre molti vantaggi: rinforza la libertà d’organizzarsi, contribuisce al miglioramento della qualità della vita grazie a degli orari più elastici. (…) Queste evoluzioni dell’organizzazione dell’impresa e del lavoro hanno tra le loro conseguenze un incremento della precarietà ma anche la liberazione del lavoro da alcuni vincoli: subordinazione inutile, orari rigidi, tempi di spostamento casa-lavoro troppo lunghi». In realtà, la qualità della vita non sta migliorando, gli orari più elastici sono diventati lavoro 24 su 24 e 7 su 7 e la promessa della rete ai suoi inizi (lavoreremo meno e con minore fatica) si è tradotta nel suo contrario.
E tuttavia, diventa comunque urgente «inventare un sistema che si occupi della flessibilità intesa come una nuova modalità d’organizzazione del lavoro, altrimenti non si potranno inventare le necessarie garanzie per controbilanciare questa flessibilità. (…) Credo che ciò possa avvenire solo immaginando una terza via tra i due modelli che oggi si oppongono in maniera caricaturale: da una parte, quello dell’iperflessibilità (…), e dall’altra, l’iperprotetto e unicamente fondato sul lavoro a durata indeterminata, ad vitam aeternam. Tra questi due estremi è possibile sviluppare un modello che prenda in conto i bisogni di flessibilità dell’economia senza per questo nuocere agli interessi degli individui» – facendo tuttavia attenzione perché questo è un obiettivo in realtà non molto diverso da quello dichiarato da Matteo Sarzana, ad di Deliveroo al Sole 24 Ore: Dobbiamo riuscire a coniugare la flessibilità e la sicurezza. Dove il fine è virtuosamente simile, ma opposto è il perché si vuole raggiungere quel fine.
Ancora Graceffa: «Il lavoro autonomo, oggi, sta diventando sempre più autonomo, ma piuttosto che creare la propria impresa individuale e affrontarne i rischi, si può scegliere una prospettiva di imprenditoria collettiva. (…) [Come SMart] ci siamo resi conto che si poteva, all’interno di un’unica impresa, permettere a degli individui promotori di progetti economici di cooperare e di non guardarsi come dei concorrenti. (…) In realtà è possibile, semplicemente con il proprio comportamento, contribuire a numerosi cambiamenti di ordine economico». E secondo Graceffa, quattro sono le piste da seguire per sistemare la barca del lavoro, dopo la tempesta: la prima difende il diritto alla sperimentazione sociale su scala europea. La seconda deve creare un regime europeo universale di protezione sociale. La terza dovrebbe puntare a organizzare la cooperazione economica e sociale per accrescere la regola della solidarietà. La quarta consisterebbe nella promozione di un’economia collaborativa, non predatrice. Quattro piste da condividere totalmente. Anche se esprimiamo due dubbi: il primo: sulla capacità di tali sperimentazioni di contenere una incalzante distruzione creatrice del tecno-capitalismo, capace di far morire sul nascere anche la migliore sperimentazione sociale; il secondo: se si resta nella logica dell’impresa, sia pure sociale e solidale, il rischio è di impaludarsi nel modello neoliberista/ordoliberale della vita come impresa di sé.
Ancora qualche riflessione. SMart non è un sindacato dei lavoratori atipici, è piuttosto una piattaforma collaborativa democratica di lavoro e di servizi per e tra lavoratori del fordismo individualizzato ed esternalizzato, che fa associazionismo, mutualismo, rappresentanza e impresa sociale. Una forma di fordismo individualizzato che tuttavia, è un nostro timore, essa stessa sembra contribuire ad alimentare, illudendosi che la creatività e la voglia di essere autonomi siano una forma di vera individualità/soggettività e non, e invece, un prodotto deliberato (si chiama human engineering) dell’immaginario collettivo generato dall’ideologia neoliberista: per cui la premessa che vorremmo porre alle quattro piste di Graceffa è quella di smascherare l’illusione di una creatività/soggettività che in realtà può essere tale solo se funzionale al sistema – e così come Marcuse scriveva di falsi bisogniindotti dal sistema per la sua riproducibilità, forse dovremmo cominciare a parlare di falsa creatività. Provando ad essere disfunzionalmente creativi.
Certo, ha ragione Sergio Bologna quando scrive che «qualunque miglioramento noi riusciamo a ottenere nella definizione dei rapporti di lavoro e nella regolamentazione del sistema delle tutele non sarà mai in grado di farci uscire dai meccanismi e dai condizionamenti del mercato capitalistico nella sua fase post-fordista. (…) l’Europa poi (…) persiste cocciutamente in una politica dell’occupazione fondata su tre pilastri: la libertà d’impresa, la formazione e gli intermediari. L’occupabilità delle persone è affidata interamente al lato dell’offerta di mano d’opera, a chi sa fare di se stesso un’entità economica imprenditoriale, sa procurarsi tanti attestati di studio e sa rivolgersi agli intermediari di cui pullula il mercato. Come se il lato della domanda non avesse nulla a che fare con il problema dell’occupazione. (…) Associazionismo e mutualismo debbono andare insieme, il percorso di dare identità ai nuovi lavori deve per forza incontrare nel suo cammino la solidarietà mutualistica.».
Ma, con le riserve dette sopra, serve anche altro; soprattutto serve riconoscere – cosa che Graceffa fa solo parzialmente e molti con lui – la forza biopolitica e la volontà di potenzadella tecnica e del capitalismo. Dovrebbe essere, infatti, ormai evidente che sono proprio le nuove tecnologie a flessibilizzare/precarizzare il lavoro e a permettere il passaggio dal fordismo al fordismo individualizzato ed esternalizzato, in quella rete che è oggi la vera fabbrica e in cui tutti – sia che produciamo, consumiamo o ci facciamo imprenditori di noi stessi – siamo dipendenti. Oggi, il mezzo di produzione (la piattaforma) è sì immateriale, ma non permette alcuna economia veramente libera e condivisa, proprio perché è il tecno-capitalismo stesso a mettere a valore – dopo averle prodotte – emozioni, desideri, immaginario, creatività: tecno-capitalismo che quindi non libera, ma assoggetta.
Il prossimo 5 ottobre, Lelio Demichelis terrà una Seminario dal titolo Capitalismo delle piattaforme e delle emozioni, alla Scuola critica del digitale promossa dal CRS.