Conosco Giovanni Accardo da tanti anni. Mi ha sempre colpito la sua profonda dimensione etica che in questo diario scolastico assomiglia a un diamante prezioso. Lo scenario rappresenta una cellula di vibrante passione partecipativa: un liceo di Bolzano. Un luogo dove si consegna il testimone della tradizione, si formano le coscienze dei futuri cittadini e, se possibile, si impara a diventare adulti.
Leggendo queste pagine avrei voluto esclamare: signori, ecco un insegnante! Lasciate stare i ritratti agrodolci che troppo spesso se ne fanno sulle gazzette e sugli schermi, grandi e piccoli, compreso il film di cui si narra nel testo. Dimenticate le visioni precostituite. Stiamo parlando di un uomo che non si accontenta di osservare la partita restando seduto in tribuna a prendere appunti, scattare fotografie o fare battute. Vuole che gli ingranaggi funzionino. Cerca di riparare quelli rotti. Non tiene le mani in tasca. Entra in azione, notte e giorno, ora per ora. Coinvolge persone e istituzioni. Intreccia rapporti. Crea una vegetazione culturale. E voi pensate che sia incoraggiato? Che venga premiato? Che rappresenti un modello virtuoso di sperimentazione didattica? Il testo da lui scritto purtroppo dimostra il contrario.
Il professore si impegna allo spasimo con il risultato di farsi male. Ruba il tempo alla famiglia. Non riesce a dormire. Insomma lascia sul campo qualcosa di se stesso. Però alla fine scopre, dentro di sé, una segreta letizia, assai difficile da comunicare, non distante da quella, dico io, che il muratore di Primo Levi provava persino all’interno del lager nei confronti del lavoro ben svolto.
«Cosa posso fare per gli studenti che non hanno voglia di studiare? Per gli studenti che vengono a scuola completamente disinteressati? Non è troppo facile limitarsi a dirgli di cambiare scuola? Possiamo limitarci a riempirli di insufficienze e poi bocciarli?».
Tutto parte da qui: da queste domande inevase, dall’ansia che le determina, dall’insoddisfazione di chi se le pone. Nel 1938, non proprio ieri, John Dewey, forse il più grande filosofo dell’educazione del ’900, aveva dato le risposte giuste: bisogna innanzitutto motivare i ragazzi, cioè renderli protagonisti dell’azione didattica, al punto tale che il docente, senza mettersi in posizione dominante, come colui che dispensa l’erudizione, diventa «il direttore di attività associate». Invece di incarnare la figura del distributore di traffico concettuale, realizza «un’impresa cooperativa» favorendo la partecipazione degli studenti a un processo di cui loro stessi sono elemento imprescindibile.
Sembra il ritratto del protagonista di questo libro, un racconto sulla scuola com’è, con tutte le sue storture, e, allo stesso tempo, per implicito contrappunto, come dovrebbe essere. L’alter ego del narratore non si limita certo a fare l’appello, spiegare il programma e mettere i voti. Il suo obiettivo è molto più alto: nella consapevolezza anche etimologica della professione che ha scelto, vuole lasciare il segno in chi lo segue. Invita scrittori, divide il tempo con gli alunni, li guida nelle gite, sfida la sorte consigliando capolavori, prende sempre posizione, soprattutto quando scopre la fragilità dei più deboli. Alcuni scorci del libro, un’autobiografia stilizzata, sono impietosi: la ragazza che cerca di scappare di casa e non sa con chi confidarsi; quella che viene dileggiata in rete; i ricatti fra i giovani scoperti per caso; le assenze degli studenti che rivelano lo sfacelo dei mondi sociali nei quali essi crescono.
Il professore raccoglie i cocci delle famiglie smembrate, litiga coi colleghi, organizza eventi conoscitivi. Tutto ciò senza fare l’eccentrico, restando ben dentro il solco tracciato dalle norme e dai precetti che troppo spesso mortificano le sue iniziative, al punto che perfino uno come lui, un’eccellenza secondo la più recente terminologia ministeriale, non può evitare che il presidente di commissione agli esami di Stato definisca «non sempre adeguata» la preparazione dei candidati nell’analisi dei testi di letteratura.
Molte parti di Un’altra scuola dovrebbero essere lette da chi voglia davvero comprendere cosa accade ogni giorno all’interno di un’aula: quelle sui famigerati test Invalsi, ad esempio, concepite come una lettera aperta a coloro che li hanno escogitati, sono decisive perché, nel timbro provocatorio, scoprono lo scarto lancinante fra chi ha in mente solo il risultato e chi conosce il modo in cui questo si ottiene:
«La vostra idea di scuola non prevede gli originali, quelli che guardano lontano, i visionari, i sognatori, ma nemmeno i lenti, quelli che hanno bisogno di più tempo. Voi amate il conformismo, le regole grammaticali, l’obbedienza, forse credete nei vaccini e nella prevenzione, vi piacciono gli studenti noiosi e perciò fate di tutto per annoiarli».
Si parla tanto di «qualità scolastica». Provate a definirla voi, tenendo presente, prima dei traguardi finali, le posizioni di partenza, sia di chi siede sui banchi sia di chi sta in cattedra. Vi renderete conto di quanto sia arduo identificarla. Come sia sbagliato isolare la scuola dal mondo, giudicandola dall’esterno. I brani che riportano i colloqui fra professori e genitori nelle «udienze», così vengono chiamati in Alto Adige i ricevimenti per famiglie, ci fanno toccare con mano la crisi morale del nostro paese. I momenti di sconforto del protagonista, teso a mettere in campo tutta la sua energia pur di contrastare la protervia, l’abulia e l’indifferenza di numerosi adulti coi quali si trova a contatto, fuori e dentro le pareti dell’aula, dovrebbero indurre a riflettere quanti credono che fare il professore sia un mestiere semplice.
Giovanni Accardo, siciliano della provincia di Agrigento, ha scritto un libro politico, come si diceva una volta, nel senso più nobile del termine. E tuttavia nella spinta emotiva da cui ricava alimento il ritmo della narrazione, filtra l’inquietudine esistenziale di chi non riesce ad accettare a cuor leggero gli inevitabili compromessi del patto sociale. Forse per questo nel suo diario, dove la cronaca del calendario scolastico punteggia e sostiene l’interrogazione interiore, prima ancora del piglio civile di Leonardo Sciascia, a me piace sentire il paradosso drammatico di Luigi Pirandello.
Il testo pubblicato è l’introduzione al libro di Giovanni Accardo, “Un’altra scuola. Diario verosimile di un anno scolastico”. Prefazione di Eraldo Affinati, Collana Carta Bianca, Casa editrice Ediesse, Pagine 280, Prezzo 12,00