Anche nel mezzo della crisi, le politiche di liberalizzazione non si fermano. Sotto tiro al Wto sono ora i servizi pubblici – insieme a quelli privati – con un progetto di accordo che va fermato subito
Non è bastato aver vinto il referendum sull’acqua pubblica, e aspettare ancora che i cambiamenti conseguenti vengano introdotti nella legislazione nazionale, come succederebbe in ogni democrazia che voglia dirsi tale. Ora arriva una nuova minaccia contro l’accesso a un diritto essenziale come quello all’acqua, ma anche alla salute, all’istruzione, all’energia o alla comunicazione. Il mostro già ucciso una volta, che ora resuscita e si riaffacci alla finestra, come in un film dell’orrore, si chiama Gats: l’Accordo sul commercio nei servizi dell’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto).
I paesi ricchi in cui hanno sede imprese multinazionali forti in questo settore, a cominciare dall’Europa, hanno tentato di ampliare l’ambito dei negoziati di liberalizzazione commerciale del Wto ad attività come il servizio idrico, quello sanitario, l’istruzione, le comunicazioni, l’energia.
All’inizio del 2012 circa 20 Paesi membri della Wto, tra cui l’Unione europea al gran completo, nominatisi senza un briciolo di autoironia, “I veri buoni amici dei servizi” – non ci crederete mai, ma è così, firmano i loro documenti come “The Really Good Friends of Services” o Rgf – hanno lanciato un negoziato informale e segreto tra loro che porterebbe a liberalizzare il commercio e gli investimenti nei servizi, espandendo il potere di possibili «discipline regolatorie» su tutti i settori, compresi gran parte dei servizi pubblici.
Questi negoziati segreti per un possibile «International Services Agreement» (Isa) è stato uno dei nuovi temi discussi al World Social Forum di Tunisi, ed è al centro delle attività della rete Our World Is Not For Sale per la giustizia nel commercio. Si tratta della coalizione internazionale che fin dal blocco della conferenza del Wto a Seattle del 1999 – dove divennero visibili i movimenti di resistenza al neoliberismo – ha lavorato per fermare la liberalizzazione del commercio e per proteggere dalla mercificazione i servizi essenziali, legati a diritti fondamentali dei cittadini.
Negli ultimi anni il processo di liberalizzazione degli scambi è rallentato molto, sia per il fallimento del “round” di negoziati del Wto, sia per l’accresciuto timore dei governi, in tempi di crisi mondiale, che ulteriori liberalizzazioni possano avere effetti disastrosi sui mercati nazionali. Così la liberalizzazione dei servizi sembrava confinata in un lontano futuro, fuori dalla portata delle diplomazie e delle lobby economiche globali. Qualcosa sta cambiando, però. I servizi, in tempi di crisi, si mostrano come un boccone troppo allettante per essere lasciato in dispensa.
Per i Paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), il valore aggiunto in termini di Pil del settore dei servizi è oltre il 60 per cento del totale e, per molti, arriva al 70 per cento. Per i Paesi in via di sviluppo i servizi rappresentano ancora, in media, oltre la metà della produzione nazionale, anche se con ampie variazioni. A livello mondiale, il settore dei servizi fattura oltre il 68 per cento del Pil, mentre l’agricoltura meno del 10 per cento. Nelle economie avanzate, come ad esempio gli Stati Uniti, il Regno Unito, e l’Unione europea, l’occupazione nei servizi rappresenta due terzi o più del totale. Ma anche in alcune economie a basso reddito pro capite, come la Russia e il Brasile, il settore dei servizi conta oltre il 60 per cento dell’occupazione, in Messico siamo già quasi al 60 per cento.
I «poteri forti» del libero commercio hanno così deciso di rispolverare il “vecchio” Gats – che fa parte degli accordi iniziali del Wto – di potenziarlo e provare a portarlo fuori dal Wto, per poi farlo rientrare dalla finestra, una volta che un blocco solido (anche se composito) di Paesi abbia raggiunto un accordo sulle nuove liberalizzazioni. Obiettivo realistico, considerando che ad oggi i “Really Good Friends” dei servizi includono Australia, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Hong Kong, Islanda, Israele, Giappone, Messico, Nuova Zelanda, Norvegia, Panama, Pakistan, Perù, Corea del Sud, Svizzera, Taiwan, Turchia, Stati Uniti, e i 27 stati membri dell’Unione europea.
Le “discipline”, o norme del Trattato ISA garantirebbero a tutti i fornitori esteri di servizi condizioni “non meno favorevoli” degli operatori nazionali, anche pubblici, di fatto riducendo la capacità dei governi di regolamentarne tutti settori, asservendo l’interesse pubblico agli interessi di profitto delle multinazionali straniere e dei soggetti privati. Il tutto, inoltre, verrebbe approvato di corsa, senza permettere a chi è fuori dal circolo degli amici di approfondire la materia, visto che si prevede di raggiungere un “progresso significativo” al riguardo in occasione della ministeriale della Wto convocata a Bali, in Indonesia, dal 3 al 6 dicembre 2013, per poi mettere a punto un ambizioso accordo, disciplinando l’attività di governo di tutti i Paesi membri della Wto, entro l’anno successivo.
I negoziati Isa seguono in gran parte il vecchio programma delle grandi imprese di utilizzare accordi “commerciali” per rendere le privatizzazioni non reversibili, e promuovere fusioni, acquisizioni e deregolamentazione, al fine di garantire un maggior controllo e profitto privato nelle economie nazionali e globali. L’accordo proposto è il risultato della pressione di imprese multinazionali del settore bancario, dell’energia, delle assicurazioni, delle telecomunicazioni, dei trasporti, dell’acqua, e di altri settori di servizi, attraverso gruppi lobbistici come la US Coalition of Service Industries (Uscsi) e lo European Services Forum (Esf).
Nei primi anni Ottanta, la lobby finanziaria aveva iniziato a premere per quello che sarebbe diventato l’Accordo generale sul commercio dei servizi (Gats) da inserire nel Wto al momento della sua fondazione nel 1995. Nonostante la crisi mondiale, i negoziati sui servizi legati al trattato Gats e agli accordi di libero scambio bilaterali (FTAs) continuano ad avanzare, producendo mandati negoziali identici ai documenti prodotti dagli stessi gruppi di interessi, (come documentato da Corporate Europe Observatory). Il tutto, in ambito Isa, con un’aggravante: mentre il Gats permetteva ai Paesi di scegliere i servizi che volevano liberalizzare, e dove quindi impegnarsi per le discipline di deregolamentazione successive, durante i negoziati Isa i Paesi partecipanti dovranno liberalizzare i servizi in “sostanzialmente tutti i modi e settori”; secondo alcuni “buoni amici” ciò significa il 90% dei servizi.
Che cosa resta della democrazia quando il potere decisionale pubblico su settori chiave quali i servizi finanziari (bancari, contabilità, assicurazioni, ecc.), il commercio al dettaglio, i trasporti, le telecomunicazioni, il turismo è preso in mano dai negoziatori del Wto? Basti pensare a come la deregolamentazione del settore finanziario ha portato alla crisi mondiale del 2008. Oggi è necessario l’opposto: una robusta ri-regolamentazione per prevenire un’altra crisi economica. Dice un proverbio africano: “l’avvenire non si eredita, si prepara”. Del nostro futuro qualcuno se ne sta già occupando, ma siamo sicuri che sia davvero un nostro “buon amico”?