Tra il 2001 ed il 2011 i lavoratori domestici sono triplicati passando da quota 270 mila ad oltre 881 mila. In aumento anche la percentuale di italiani
C’è un aspetto, nelle dinamiche sociali, piuttosto trascurato dalle analisi. Il progressivo sostituirsi di una assistenza, all’interno della famiglia, non più finalizzata solo alla cura della casa ma ora anche e soprattutto alla cura socio-sanitaria dei membri anziani e malati della famiglia stessa. In sostanza, un welfare “fai da te” in assenza di soddisfacenti prestazioni statali o del terzo settore. Lo confermano i dati: tra il 2001 ed il 2011 i lavoratori domestici (donne nell’82,4% dei casi) sono triplicati passando da quota 270 mila ad oltre 881 mila (1). Il Censis propone una stima più allargata. Il numero effettivo dei collaboratori che, con formule e modalità diverse, prestano la loro attività presso le famiglie è passato da poco più di un milione del 2001 agli attuali 1 milione 655 mila (+53%) con una componente straniera pari al 77,3% del totale. Nel 2011, quasi 2 milioni e 600 mila famiglie (il 10,4% del totale) si sono rivolte al mercato per acquistare servizi di collaborazione, di assistenza ad anziani o altre persone non autosufficienti e di baby sitting (2). Viene tentata anche una proiezione nel medio periodo: se il tasso di utilizzo dei servizi da parte delle famiglie dovesse mantenersi stabile la crescita della domanda porterà il numero degli attuali collaboratori da 1 milione 655 mila a 2 milioni 151 mila nel 2030 determinando un fabbisogno aggiuntivo complessivo di circa 500 mila unità (3). Con una novità di rilievo: l’aumento della nazionalità italiana tra gli operatori del welfare “fai da te”. Come viene osservato, se era prevedibile l’aumento della richiesta di aiuto domestico, visto il fenomeno dell’invecchiamento progressivo della popolazione (il trend di crescita è del 20-25% l’anno), lo erano assai meno gli effetti della crisi economica sul rapporto domanda-offerta: mentre nel 2011 i nostri connazionali rappresentavano il 3,73% delle assunzioni totali, già lo scorso ottobre erano balzate al 9,26%. La maggioranza di queste neo-colf “vicine di casa” è concentrata nel Sud (35,7%) dove si registra anche la percentuale più alta di lavoro nero. In un caso su due il versamento dei contributi è totalmente ignorato (4).
Ora, come è stato osservato, in un welfare che lo Stato non riesce più a garantire con un modello universale, l’assistenza ai non autosufficienti, bambini e anziani, rende gravoso per le famiglie l’onere dell’autogestione. Ecco il ricorso alle tate (esaltate dalla televisione come figure sostitutive di successo della genitorialità), alle signore delle pulizie e alle badanti. Le quinte colonne, così definite, della gestione domestica sia che abitino per conto proprio (la maggioranza) o beneficino di vitto e alloggio, o che siano in regola con le modalità contributive (una su tre) o vengono pagate sotto banco. Va considerato che attorno al settore – lo rileva la ricerca del Censis – prolifica un consistente giro di lavoro nero (27,7% dei collaboratori) o che rientra nella fascia cosiddetta “grigia” (il 37,8% dei casi) (5).
Sulla sostenibilità del welfare “fai da te”, s’intuisce, gravano pesanti incongruità di ordine economico.
Il costo del welfare “informale” penalizza i bilanci familiari come emerge dalla ricerca del Censis. A fronte di una spesa media di 667 euro al mese, solo il 31,4% di chi ricorre a questa forma di welfare riesce a ricevere una qualche forma di contributo pubblico che si configura per i più (19,9%) nella cosiddetta indennità di accompagnamento.
Dunque, se complessivamente la spesa che le famiglie sostengono incide per il 29,5% sul reddito familiare non stupisce che in piena recessione una gran parte di fornitori del welfare “fai da te” (56,4%) non riesca più a farvi fronte: una famiglia su due ha ridotto i propri consumi pur di non rinunziare alla collaborazione, una su cinque ha intaccato i propri risparmi, il 2,8% si è dovuta indebitare. Non solo ma la irrinunziabilità del servizio (ammessa dall’84,4% del campione di ricerca) sta portando almeno due famiglie su dieci a costringere uno dei suoi membri a sostituire il “collaboratore”. Con immediate ripercussioni sul piano della percezione del reddito familiare.
Quale conclusione immediata trarre da questa ricognizione “a volo d’uccello” del welfare “fai da te”? Sembra indispensabile, così come da alcune parti viene posto in evidenza, vista la domanda cresciuta di protezione sociale, ed il contrarsi del welfare universale, incrociare il welfare “familiare” che impiega rilevanti risorse private con un intervento pubblico di organizzazione e razionalizzazione dei servizi alla persona. Basato su vantaggi fiscali alle famiglie per garantire la sostenibilità sociale.
1 Acli Colf, Il lavoro di cura nel welfare che cambia. Antiche sapienze e nuove professioni, 2013. 2 Censis, Servizi alla persona e occupazione nel welfare che cambia, Note e Commenti, n.7/8 Agosto 2013, pag.9. 3 Censis, cit., pag.11. 4 F.Paci, Col welfare fai da te tornano in pista colf e badanti italiani, “La Stampa”,30 Novembre 2013. 5 Non ci sono materiali di conoscenza attendibili sul punto ma dai centri di volontariato che offrono assistenza agli immigrati viene segnalato un consistente fenomeno di sfruttamento con riferimento all’impiego del lavoro domestico degli immigrati stessi.