Tra crisi della pandemia e nuove politiche keynesiane, le trasformazioni del capitalismo prendono la strada di un maggior potere della finanza, una crescente centralizzazione del capitale, nuovi rischi per la democrazia nel libro di Emiliano Brancaccio ‘Non sarà un pranzo di gala’.
I pesanti riflessi della crisi sanitaria provocata dal Covid-19 sull’economia sono stati affrontati in un’ottica “keynesiana” sostenendo dei redditi e prevedendo investimenti pubblici (Next Generation EU). Si tratta di interventi che, per noi europei, innovano la politica di austerità prevalsa negli anni successivi alla crisi finanziaria del 2007-08, ma non è dato sapere se sono espressione dell’eccezionalità del momento o indicano un nuovo orientamento della politica economica europea. In quest’ultimo caso si tratta di capire se politiche “keynesiane”, per quanto serie possano essere le loro attuazioni, siano sufficienti a mettere ordine nel nostro mondo, e quale ordine.
È una questione che va oltre il contingente; la cui risposta può essere formulata solo con una visione generale del processo sociale. Prova a offrirla Emiliano Brancaccio nel suo recente libro (Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione, Meltemi Editore, 2020) nel quale raccoglie le interviste e gli interventi in dibattiti ai quali ha partecipato negli ultimi cinque anni. Il messaggio dell’autore – come riprende Russo Spena nell’introduzione – è che “le politiche economiche ordinarie non solo pregiudicano lo sviluppo e il benessere sociale ma rischiano anche di preparare il terreno per una violenta revanche oscurantista”; una tesi che, disseminata in tutti i saggi, trova un’esposizione sistematica nell’ultimo, quello che si presta come sottotitolo del libro. Per la natura dei testi raccolti, l’esposizione della tesi si presenta scorrevole e stimolante, anche per la vis polemica, pur sempre con piglio civile, che caratterizza i confronti con i suoi interlocutori (Blanchard, Monti, Prodi) di contrapposta visione teorica e politica. Ma il libro esprime un’ambizione maggiore; con esplicito riferimento al pensiero di Marx, Brancaccio – valendosi dei risultati della sua produzione accademica – intende “esaminare criticamente ‘il discorso del potere’, ossia indagare i contrasti tra gli sviluppi della conoscenza scientifica in economia, gli snodi cruciali della politica economica, e l’influenza dell’ideologia sull’una e sull’altra”. Un obiettivo che richiede una “visione generale” che possa orientare correttamente la politica economica.
Vi è un punto fermo nel progetto di Brancaccio: la contestazione che muove all’affermazione di Blanchard sulla mancanza di alternativa al capitalismo, cioè l’affermazione secondo cui “in un mondo così complesso, popolato da miliardi di individui, solo il mercato, in ultima istanza, può regolare, disciplinare e orientare i processi e le decisioni”, in base alla quale, per il controllo dell’economia, l’unica ricetta è “un giusto mix tra intervento statale e meccanismi spontanei del mercato, ma in un quadro generale di tipo essenzialmente capitalistico”. È la tesi forte del pensiero dominante che “gode di importanti riscontri storici e teorici”, ma che – ed è il punto critico – mette in sottordine “l’instabilità provocata dalle forze del mercato [che] è risultata di tale portata da travalicare i confini stessi dell’economia, generando importanti ripercussioni sugli stessi assetti sociali e politici”. Per queste ragioni, Brancaccio ritiene che sia necessario disporre di un paradigma che, fondato su solide basi scientifiche, ponga l’instabilità dell’economia capitalistica come oggetto preminente dell’analisi. A questo fine, propone come punto cruciale della dinamica capitalistica il processo di “centralizzazione del capitale”, intesa in un’accezione marxiana non come semplice concentrazione della proprietà ma come crescente controllo del capitale in poche mani. È una scelta di metodo che si contrappone nettamente all’individualismo metodologico e al soggettivismo della teoria dominante per la scelta dell’oggetto dell’analisi, il fatto qualificante della realtà capitalistica (appunto la centralizzazione del capitale), e, di conseguenza, l’individuazione degli agenti economici rilevanti, i cui comportamenti sono definiti dai ruoli che, nella fase storica, sono loro assegnati all’interno della società.
Il diverso punto di analisi discende dalla considerazione che, per verificare la tesi che politiche economiche “ordinarie” possono prospettare esiti autoritari, sia necessario partire dagli aspetti strutturali del processo di centralizzazione del capitale. Il quale trova, nell’odierno mondo globalizzato, il proprio motore nelle grandi imprese internazionali, le “moderne caravelle di Prodi, ossia le grandi multinazionali americane e cinesi”. Le loro decisioni strategiche dirette a rafforzare e difendere le loro posizioni di mercato – acquisizioni (e fusioni) di attività produttive esistenti, di brevetti e proprietà intellettuali, ma anche accordi segreti e attività di lobbying nei confronti delle istituzioni di regolazione e per la ricerca di protezione geopolitica – sono determinanti per la struttura gerarchica tra i Paesi (e associazioni di Paesi), la quale è fonte di continuo conflitto, con il pericolo che esso tracimi dal campo economico a quello politico e, radicalizzandosi, avvii “una nuova era di lotta, e purtroppo, potenzialmente, anche di guerra”. In questo contesto di mercato, la crescita di nuovo capitale (di nuova occupazione) risulta uno strumento secondario rispetto alla crescita del valore dell’impresa, costituendo un fattore non irrilevante per il clima di ristagno e l’ampliamento delle disuguaglianze che stanno caratterizzando le società occidentali. D’altra parte, il fatto che in oligopolio i livelli dei prezzi e delle produzioni non abbiano stretti legami con le basi reali della produzione ma siano strumenti delle strategie di conquista, o di difesa, aumenta – attraverso la “disorganizzazione dei mercati” più volte rimarcata nel libro – l’incertezza nell’economia deprimendo le iniziative delle imprese e dei settori produttivi marginali.
Il movimento (intra e sovranazionale) che conduce alla centralizzazione del capitale è quindi segnato – aspetto cui Brancaccio attribuisce importanza fondamentale – del conflitto endemico interno alla classe capitalista che, quale conseguenza della spinta dei singoli capitali al proprio rafforzamento, spinge al “fallimento dei più deboli o alla loro acquisizione da parte dei più forti, [o, come dice Marx alla] ‘espropriazione del capitalista da parte del capitalista’”. Il processo è orientato e rafforzato da un sistema finanziario che, attraverso la raccolta dei risparmi liquidi ampiamente dispersi nello spazio per redistribuirli a chi presenta maggiori opportunità di rendimento, privilegia le strategie imprenditoriali più interessanti, normalmente quelle delle maggiori imprese.
La pressione della finanza perché l’accumulazione sia “produttiva” incalza l’industria a “creare valore”, non importa se estraendo maggiori profitti comprimendo i costi del lavoro o realizzando maggiori valori patrimoniali (come presunta capacità di realizzare profitti futuri). Per queste ragioni le istituzioni finanziarie, in competizione oligopolista tra loro e con le imprese, svolgono una funzione essenziale nella centralizzazione del capitale, quella di pianificare lo sviluppo della produzione e dei mercati favorendo, come esito delle strategie loro e delle imprese, le linee di crescita aziendale e settoriale di alcune imprese e settori e ostacolando quelle di altri. A questo sembra riferirsi Emiliano Brancaccio, con Luigi Cavallaro, quando introducendo la nuova edizione di Hilferding (Il Capitale Finanziario, Mimesis Edizioni, 2011) affermano che il processo di centralizzazione non è soltanto il frutto “di una ‘tendenza’ oggettiva e impersonale, ma anche di una regolazione politica: ossia è un oggetto specifico della ‘politica economica del capitale finanziario’”.
Nello stesso testo, Brancaccio e Cavallaro nell’affrontare l’attività di speculazione dei mercati finanziari ricordano come Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve nei vent’anni a cavallo del secolo, invitasse “esplicitamente il mondo a scommettere ancora su Wall Street, vale a dire su un nuovo picco nei prezzi di Borsa che possa rimettere in moto la finanza americana, rilanciando così le spese private in modo da portare il sistema mondiale fuori dalla crisi (fuori almeno per un po’)”; una posizione che attribuisce “all’andamento dei valori di borsa il ruolo di primum mobile del sistema: i prezzi dei titoli, infatti, non vengono più considerati dei meri previsori, ma assumono la funzione di veri e propri volani dell’accumulazione capitalistica”. La speculazione non sarebbe guidata dalla ricerca del “vero” valore futuro delle attività che il mercato dovrebbe alla fine svelare, ma risponderebbe alle indicazioni di chi ha il potere di decidere le strategie produttive e finanziarie: “il mercato (finanziario) non prevede il futuro ma lo determina, secondo gli interessi della classe egemone”.
Il mercato finanziario diviene così “il centro nevralgico della riproduzione del capitale [sulla base del] convincimento che esso sia l’unica istituzione in grado di prevedere il futuro” (nei modi e forme indicate dalla speculazione) nel senso che “i prezzi che scaturiscono dalle contrattazioni dei titoli dovrebbero dirci quali Stati e imprese sono solvibili e quali destinati alla bancarotta”. Brancaccio individua in questo l’ulteriore funzione del sistema finanziario, e della Banca centrale, di “regolatore delle ‘condizioni di solvibilità’ del sistema”. In un contesto di strutturale incertezza in cui le forze di mercato generano andamenti divergenti nelle prospettive delle diverse imprese e settori, l’azione delle banche, manovrando la liquidità e i tassi d’interesse, discriminano “i capitali che sono in grado di accumulare attivi, e sono quindi ampiamente solvibili, da quei capitali che, invece, tendono al passivo e quindi all’insolvenza”. La regolazione svolta dalla gestione del credito non riguarda le sole imprese, ma, in quest’epoca di tensione deflazionistica, è indirizzata (e lo è stata ampiamente) a sostegno della spesa dei consumatori (carte di credito, mutui immobiliari). Qualora l’accumulazione delle insolvenze diventi eccessiva minacciando una crisi – come nella crisi del 2007-08 o ora per il coronavirus – l’intervento di regolazione avviene attraverso un’espansione della liquidità che, garantendo la solvibilità del sistema, blocca la caduta della domanda e, secondo l’auspicio di Greenspan, fa riprendere il “volo” alla Borsa.
Nella sua analisi del processo di centralizzazione del capitale, Brancaccio non tiene conto solo della struttura delle relazioni economiche – un’analisi nettamente più ricca di quello utilizzata dal mainstream per le sue rassicuranti soluzioni di mercato –, ma considera anche la “progressiva concentrazione di potere, economico e di conseguenza politico” che coinvolge aspetti che vanno oltre l’assetto economico e finanziario. La composizione sociale e la sua dinamica ne sono infatti influenzate non appena si consideri che il conflitto tra capitali forti e capitali deboli incide sulla mobilità sociale modificando la composizione del ceto imprenditoriale: la centralizzazione del capitale “mette in crisi le piccole borghesie proprietarie e accelera la polarizzazione tra le classi sociali”, così come la pressione per la creazione di valore sostiene la “tendenza dei ricchi sempre più ricchi”. Ma, più sottilmente, la finanza influisce sull’assetto sociale in quanto plasma e aggrega ampi strati sociali (specie delle fasce intermedie) che, in quanto risparmiatori, fanno affidamento sull’offerta di tali istituzioni per ottenere un rendimento “sicuro” dalle loro disponibilità liquide. Il rendimento e la sicurezza patrimoniale si traduce in un interesse individuale così preminente da operare da collante per un blocco sociale che si affida alle promesse finanziarie in una sostanziale accettazione della sua necessità.
Il processo di centralizzazione del capitale è un processo che esercita una pressione sulla stessa struttura istituzionale; ciò risulta evidente quando si consideri come l’operato della finanza tenda ad assorbire funzioni che, di norma, sono di pertinenza dello Stato. I ruoli di pianificazione dell’accumulazione, di sostegno della domanda aggregata, di regolatore della solvibilità del sistema e financo di aggregazione sociale sono tutte funzioni che, in una democrazia, dovrebbero spettare all’ente pubblico. Ma in una realtà in cui l’azione di regolazione della società fa capo a due soggetti guidati da valori (e obiettivi) contrastanti si genera inevitabilmente un rapporto conflittuale che si può risolvere con un compromesso in cui la democrazia viene comunque a patti con l’economia. A seconda dei rapporti di forza, lo Stato è sospinto in una posizione più o meno “ancillare” per integrare – come si può rilevare in questa fase pandemica – con interventi a carico della collettività quel sostegno all’economia che la finanza non è in grado di realizzare tramite il mercato. Lo spazio disponibile per azioni a favore dell’uguaglianza tra i cittadini ne è inevitabilmente eroso.
La riproduzione del capitale non è una semplice “ripetizione” del processo produttivo, ma è produzione e riproduzione di rapporti sociali o, ancor più, nella visione di Brancaccio, “legge di riproduzione e tendenza di un nuovo tipo umano capitalistico, [di un] nuovo capitale umano”, caratterizzato dalla “tendenziale uniformizzazione delle condizioni della classe subalterna [in quanto] acquisizione di forza lavoro indifferenziata”. Uniforme ma subalterna, quale risultato di un contesto egemonizzato da una cultura che ha accorpato, sotto il segno dell’individualismo proprietario, ampi strati sociali che si sono riconosciuti nel messaggio neoliberista, secondo il quale polarizzazione e uniformizzazione sono momenti necessari per un futuro benessere diffuso.
È con riferimento a questo complesso quadro di analisi che Brancaccio avanza la sua tesi che l’austerità e la deregolazione dei mercati, avendo eroso il tessuto sociale, stanno mettendo in stallo la democrazia per l’esito autoritario della crisi che prospettano. L’accentuarsi dello scontro tra capitali forti e capitali deboli – reso più acuto dal coronavirus – induce i capitali più piccoli e più fragili, a rischio di liquidazione e assorbimento, a premere sul governo per mitigare le loro condizioni di solvibilità. In una situazione in cui “la classe lavoratrice [è] silente sul piano politico, e quindi ridotta a variabile residuale” non è impossibile che in questo “scenario di rivendicazioni da un lato e di vincoli [internazionali] di sistema dall’altro, si faccia concreta la minaccia che qualcuno prima o poi […], per difendere il sistema dalla sua stessa instabilità, [decida di sacrificare] la democrazia, con le sue istituzioni, i suoi processi, e i diritti che essa garantisce: non solo i diritti sociali, che sono stati già fortemente ridimensionati, ma anche i diritti civili e politici”. Una deriva autoritaria dimostrerebbe che “la libertà del capitale nel suo espandersi minaccia di catastrofe le altre libertà e lo stesso liberalismo democratico. Il grande meccanismo è così interamente dispiegato”.
Per queste ragioni, Brancaccio mette in guardia che “Keynes non basta”: se finalizzate a garantire la sopravvivenza delle fasce più deboli e fragili del capitale accettando di comprimere gli altri strati deboli della società, le politiche keynesiane sarebbero di supporto a “una politica revanscista, potenzialmente xenofoba, al limite fascistoide, ma sempre a suo modo liberista”. Sostenendo che in questo caso “Keynes si può muovere contro Marx”, ritiene che qualsiasi alternativa alla “barbarie politica” deve porsi “a monte dei meccanismi di riproduzione”. “L’unica rivoluzione in grado di scongiurare una catastrofe dei diritti – scrive – risiede nel recupero e nel rilancio della più forte leva nella storia delle lotte politiche: la pianificazione collettiva, intesa questa volta nel senso inedito e sovversivo di fattore di sviluppo della libera individualità sociale e di un nuovo tipo umano liberato”.
Il “piano” costituisce il terreno di azione che permette di recuperare quelle funzioni di controllo e di promozione dalle quali lo Stato democratico è stato espropriato; esso è il modo per riacquistare alla decisione collettiva la progettualità dello sviluppo, la garanzia della stabilità del vivere civile, l’aggregazione sociale intorno ai valori non della crescita tout court, ma della democrazia. Sono numerose le indicazioni di Brancaccio – in merito ai rapporti con l’Europa, sulla politica della BCE, sulla necessità del controllo sui movimenti di capitale – per dare concretezza alla sua proposta, anche se traspare la consapevolezza che la schema di riferimento utilizzato presenti, data la sua complessità, inevitabilmente dei “vuoti”, ma anche la convinzione che esso consente di visualizzare tali “vuoti” e quindi “di perimetrarli e superarli”. Da qui la necessità di un lavoro collettivo di lunga lena “che ci aiuti a […] recuperare e aggiornare le nostre conoscenze sui nessi tra crisi capitalistica, politiche economiche deflazioniste e sviluppo dei movimenti reazionari di massa, per costruire una coerente e credibile alternativa, politica e di politica economica”.
Ma c’è un’altra difficoltà che non sfugge al ragionamento di Brancaccio; è il fatto che il piano come strumento collettivo di libertà necessita di un arco di forze sociali e politiche consapevoli, di un “blocco sociale”, che ne siano le promotrici e il supporto. A questo riguardo, lo schema di analisi adottato da Brancaccio evidenzia lo stretto intreccio tra le condizioni che strutturano la centralizzazione del capitale con le condizioni che strutturano il corrispondente processo politico. L’alternativa secca “catastrofe o rivoluzione” alla quale sembra condurci con la sua conclusione ha un forte sentore di pessimismo: “Il problema è che sembrano essere in grado di organizzarsi politicamente solo le rappresentanze del capitale. I grandi capitali fortemente ramificati a livello sovranazionale trovano rappresentanza politica in quelle che potremmo definire le tradizionali forze acriticamente “globaliste”, mentre i piccoli capitali radicati soprattutto a livello nazionale, spesso in affanno e con problemi di solvibilità, oggi trovano nel cosiddetto “populismo reazionario” una potenziale rappresentanza politica”; “saremmo più tranquilli se ci fosse ancora quel tessuto di salvaguardia democratica che veniva garantito da sindacati combattivi e da partiti di massa che intermediavano tra popolo e istituzioni. Un tessuto di lotta sociale che non c’è più e che andrebbe ricostruito, in fretta intorno a una chiave, una parola d’ordine, una bandiera per l’egemonia”. Ma se “siamo ancora all’anno zero della formazione di una intelligenza critica collettiva”, cosa si deve fare sapendo che, se i tempi dovessero precipitare, non ci troveremmo certamente a “un pranzo di gala”?