Dopo due referendum, il problema della gestione delle scorie nucleari – affidata alla Sogin – resta irrisolto. Potrebbe costare 6,7 milardi e richiedere altri vent’anni. Una vera emergenza ambientale e democratica
La gestione delle scorie e l’eliminazione dei rifiuti nucleari presenti nel nostro paese potrebbe costare in complesso 6,7 miliardi di euro. A portare l’attenzione su un tema largamente ignorato in Italia è stata la conferenza stampa dell’11 aprile del Comitato “Sì alle energie rinnovabili, No al nucleare”.
Sono passati 25 anni dal primo referendum sul nucleare del 1987 e due anni dal referendum del 2011; entrambi hanno respinto i progetti nucleari italiani. Quando gli italiani decisero per la prima volta di abbandonare il nucleare, in Italia c’erano otto impianti: le centrali di Latina, Garigliano, Trino Vercellese e Caorso, e i centri di ricerca nucleare di Saluggia, Trisaia, Casaccia e Bosco Marengo. Se si esclude quest’ultimo, tutti questi impianti sono ancora lì, nei siti. Ad essi vanno aggiunti almeno una ventina di impianti e depositi di minore consistenza.
In termini di scorie nucleari, le quantità erano significative, anche se non enormi e quindi potevano essere gestite se si fosse affrontato il tema con un minimo di lungimiranza. Si parlava di 2.000 tonnellate di uranio utilizzato come combustibile e stoccato nelle centrali e di una quantità dai 50.000 ai 100.000 metri cubi di rifiuti radioattivi, che potrebbero derivare dallo smantellamento degli impianti. L’ampio campo di variazione delle quantità da smantellamento deriva dal fatto che, a tutt’oggi, non è stata effettuata una esaustiva caratterizzazione degli impianti. Va inoltre trovato un adeguato trattamento e stoccaggio dei rifiuti radioattivi derivanti dagli impianti nucleari minori e di quelli di origine industriale e ospedaliera.
Nel 2001 si decise di affrontare la parte più rilevante, quella degli otto impianti sopra richiamati: le centrali e i centri di ricerca nucleare. Essi vennero affidati a una società per azioni, Sogin, controllata dal Ministero dell’Economia, facendo valere sulla tariffa elettrica i costi di dismissione degli impianti e del conseguente stoccaggio delle scorie e dei rifiuti prodotti. Il controllo della congruità dei costi venne, di conseguenza, attribuito all’Autorità per l’energia elettrica e il gas. Il programma di smantellamento è stato avviato nel 2001 e prevedeva il rilascio “a prato verde” dei siti nel 2020, a fronte di un costo previsto di 4,5 miliardi di euro. Nei costi non erano contemplati gli oneri per la costruzione del così detto deposito geologico, previsto per il combustibile esaurito, ossia per le barre di uranio presenti nelle centrali al momento della sospensione del programma nucleare nel 1987. Il termine “geologico” si riferisce al fatto che il decadimento della radioattività di questo materiale è previsto in oltre 1.000 anni. Inoltre, non era stato individuato il deposito dove stoccare i rifiuti da smantellamento (300 anni di vita prevista!) creando l’assurdità di avviare un programma di dismissione senza sapere dove mettere le scorie nucleari e i rifiuti radioattivi.
Non è facile avere una visione della situazione attuale, in quanto non esiste un unico documento che dia lo stato di avanzamento del programma e soprattutto la previsione delle attività, con i relativi costi e tempi, per arrivare ad una soluzione definitiva del problema delle scorie e dei rifiuti radioattivi. Sulla base delle informazioni reperibili da differenti fonti (Delibere Autorità, Relazione 2009 di Sogin alla Commissione Rifiuti, Piano Industriale Sogin del 2010, Comunicati stampa disponibili su sito Sogin), si può ricavare il seguente quadro d’insieme.
La data di rilascio “a prato verde” è slittata dal 2020 al 2035 (l’ultimo impianto sarebbe Latina). La previsione dei costi a finire è cresciuta da 4,5 a 6,7 miliardi di euro, di cui 1,8 già consuntivati nel 2011 e il restante a sostenere per concludere il programma. Mancano totalmente previsioni di costo in merito alla costruzione dei depositi. Non si è ancora data una soluzione definitiva al problema delle scorie nucleari. Le 2.000 tonnellate di combustibile esaurito sono state inviate in Gran Bretagna e in Francia in impianti di lavorazione, che ne trarranno plutonio e rifiuti vetrificati ad alta radioattività. Si tratta di materiale che verrà poi consegnato all’Italia, che dovrà trovarne una destinazione definitiva. Per quanto riguarda i rifiuti da smantellamento si prevede di stoccarli provvisoriamente nei siti stessi.
Il programma avviato nel 2001 è stato così un fallimento, sotto il profilo dei costi, dei tempi e dei risultati in termini di trattamento delle scorie. Questo clamoroso insuccesso viene fatto pagare al contribuente italiano, ma soprattutto al territorio dove sono localizzati i siti, che si trovano ancora con gli impianti presenti e rischiano di trovarsi con lo stoccaggio dei rifiuti, con l’eufemistica dicitura di “provvisorio”. A oggi, infatti, si è in alto mare nell’individuazione di una località dove collocare un unico deposito per i rifiuti da smantellamento, per cui è probabile, se non certo, che i depositi provvisori sui territori diventeranno definitivi.
Quali sono le ragioni di questo fallimento? È dalla loro identificazione che hanno origine le proposte del Comitato, presentate nella conferenza stampa dell’11 aprile. Manca, innanzitutto la trasparenza. Il Comitato ha presentato un esposto alle autorità competenti perché venga fornito un quadro esauriente della situazione e del programma a lungo termine. Soprattutto deve essere chiarita la destinazione finale delle scorie nucleari, sia di quelle inviate all’estero ma che ritorneranno un giorno, che dei rifiuti che si prevede di lasciare in deposito sui siti. Esiste il rischio, o meglio la certezza, che invece di un deposito il nostro paese si trovi ad avere 7 depositi e tutto senza coinvolgere i territori interessati.
Non esiste un’autorità tecnica di controllo. Lo smantellamento (questo celermente realizzato) delle competenze nucleari dell’Enea ha creato un “vuoto” nel presidio tecnico del problema. Va costituita rapidamente un’autorità indipendente in grado di monitorare e verificare la gestione dei rifiuti nucleari. A questa Autorità va affidato con urgenza il compito di individuare il sito dove localizzare il deposito dei rifiuti da smantellamento e la soluzione, anche a livello europeo, del deposito del materiale nucleare proveniente dagli impianti francesi ed inglesi. Si deve ricordare che si tratterà di plutonio e ciò comporterà anche problemi di sicurezza militare.
Si è di fronte ad un approccio privatistico. L’idea, a dir poco singolare, che una società per azioni gestisca il tema nucleare con soldi pubblici (la tariffa elettrica) ha sommato il peggio del pubblico (inefficienze, una sede romana elefantiaca, carente presidio delle competenze nucleari) con il peggio del privato (ricerca di business limitrofi alla missione fondamentale, perseguimento dell’utile, problemi di assetto patrimoniale). Inoltre, ha generato una costante tensione tra l’Autorità per l’energia elettrica ed il gas, che controlla i costi, il Ministero dello Sviluppo Economico, che dovrebbe dare gli indirizzi strategici, e il Ministero dell’Economia che vorrebbe ricavare un utile dal “business nucleare”. In particolare, a fronte della latitanza del Ministero dello Sviluppo Economico, il presidio del programma è venuto a ricadere sostanzialmente sull’Autorità, che deve autorizzare i preventivi e i consuntivi di Sogin. Ciò ha indebolito l’intero governo del problema, favorendo l’autonomia della Sogin, che ha perseguito proprie politiche. La gestione delle scorie nucleari e dei rifiuti è un problema legato al bene comune dell’ambiente e come tale va gestito da un soggetto totalmente pubblico, la cui missione deve essere innanzitutto la salvaguardia della salute, dell’ambiente e un corretto rapporto con il territorio. In particolare, va prevista una revisione profonda dell’assetto di Sogin, non scartando anche l’idea di un suo smantellamento, per poter ripartire da zero.
L’iniziativa del Comitato è di grande importanza perché affronta un’emergenza ambientale e democratica. Sarebbe necessario avviare una discussione pubblica in Parlamento e presso gli enti locali coinvolti dal nucleare.