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Sanità pubblica e disuguaglianze di salute nel post-Covid

I campani hanno una speranza di vita di oltre 2 anni inferiore rispetto ai trentini, i calabresi un’aspettativa di vita in buona salute di 9 anni inferiore rispetto agli emiliani. La pandemia pone l’urgenza di ripensare la nostra sanità: il tema delle disuguaglianze di salute deve essere una priorità.

La pandemia nella quale il mondo e il nostro Paese sono ancora immersi, col suo carico di dolore e lo sconvolgimento che ha provocato in ogni aspetto della vita sociale o privata, ha imposto all’agenda, alle scelte e al discorso pubblici una brusca virata rispetto agli scorsi anni, rimettendo al centro dell’attenzione il tema della salute. La pandemia ci ha costretto a misurare il peso specifico della salute in relazione alla vita degli individui e delle loro comunità, la sua ineludibile priorità su ogni altro ambito del vivere sociale, il suo impatto sulla mobilità e sulle dinamiche planetarie. Ci ha indotto dunque a riconsiderare la salute, e la capacità di risposta dei servizi sanitari nel promuoverla o quantomeno nel garantirla, con occhi nuovi, collettivamente più attenti di quanto non sia mai stato negli anni passati.

Fatta questa premessa, occorre precisare che l’epidemia ci ha dimostrato, prima di ogni altra cosa, che la questione della salute va necessariamente considerata con un approccio “globale”. Ciò banalmente perché il virus non ha certo guardato ai confini, alle barriere politiche e amministrative che separano un Paese dall’altro, diffondendosi rapidamente da un capo all’altro del pianeta. Ma anche perché non possono che essere di portata globale le misure messe in campo per ridurne la diffusione e l’impatto, e le eventuali soluzioni di prevenzione o di cura sulle quali speriamo per il futuro di poter contare in tutto il mondo.

Quando però si fa riferimento a un approccio globale alla salute si parla anche di qualcos’altro, che la pandemia non ha mancato di evidenziare: al di là della ventura di incontrare la malattia, vi sono una serie di fattori, oltre a quelli biologici e fisici, in grado di incidere direttamente sulla storia di salute di ogni individuo e di riflesso della sua comunità. Inoltre, mentre il coronavirus ha dimostrato di essere democratico nel momento in cui colpisce, vi sono segnali empirici e molti studi in corso sul fatto che fattori sociali, economici, ambientali determino differenti capacità di risposta degli individui rispetto a esso.

In generale, invece, cioè al di là dell’epidemia, il fatto che esistano una serie di determinanti capaci di incidere profondamente sulle storie individuali di salute, in aggiunta al fattore fisico e biologico, è una conoscenza ormai conclamata. I determinanti di salute, oltre la biologia, sono quelli che hanno a che fare con la distinzione degli individui in ricchi e poveri, in coloro che vivono in ambienti più o meno salubri, che sono in condizione di assumere stili di vita più o meno corretti, di fare più o meno prevenzione, di praticare o meno attività fisica e sportiva, di nutrirsi più o meno bene, di ricorrere a servizi sanitari e cure farmacologiche più o meno facilmente. In una parola disuguaglianze, di tipo ambientale, sociale, economico, che determinano esiti di salute completamente differenti.

Ci sono moltissimi studi che lo confermano, e sono assai efficaci anche sotto l’aspetto della comunicazione quelli di Giuseppe Costa, epidemiologo dell’Università di Torino, relativi alla stessa città: egli dimostra che se si sale sul tram numero 3 che parte dalla zona collinare alto-borghese e va verso i quartieri del nord della città, verso le Vallette, a ogni chilometro percorso si perdono 4-5 mesi di vita, con differenze di 3-4 anni in termini di speranza di vita fra i diversi quartieri e uno scarto fra quello con il dato migliore e quello con il dato peggiore di 7 anni.

E se poi si fa riferimento a una politica che è stata così poco oggetto di attenzione nel periodo della pandemia e che, invece, al pari del tema della salute deve essere riportata al centro del dibattito e degli investimenti per il futuro, cioè quella dell’istruzione pubblica, è dimostrata una proporzionalità diretta fra titolo di studio e condizione di salute delle persone, con la seconda che cresce al crescere del primo: due aspetti apparentemente distanti e invece strettamente correlati e interdipendenti.

Avere poche risorse individuali, dunque, non aiuta a stare bene. Mentre aver studiato, esser dotati di un lavoro stabile, godere di un reddito adeguato, vivere in un ambiente più salubre garantiscono sicuramente migliori condizioni di salute. E la buona notizia è che su questi fattori di disuguaglianza – frutto di scelte compiute in una direzione piuttosto che in un’altra e non ineluttabile conseguenza di fenomeni avversi e fatali – si ha la possibilità di incidere. Per esempio, come prima si diceva, migliorando i livelli di istruzione delle persone, facendo scelte ambientali sostenibili, lavorando per l’occupazione e la partecipazione dei lavoratori, e – l’antidoto in assoluto più efficace e direttamente connesso alle storie di salute di individui e comunità – promuovendo e implementando servizi sanitari che siano universalistici ed equi. In questo, il nostro Paese parte da una condizione di vantaggio poiché possiede già, costituzionalmente potremmo dire, questo potente antidoto contro le disuguaglianze di salute, laddove, per incidere sul resto dei determinanti ai quali si è fatto riferimento, occorre una più complessa, duratura e plurifattoriale lotta contro le disuguaglianze.

Eppure, prima della pandemia, tutto quello che ora sembra scontato in termini di priorità del Servizio sanitario pubblico, di ruolo e potenziamento degli operatori, di importanza della ricerca, è stato per lunghi anni rimesso in discussione. Quante volte si è sentito parlare di un Servizio sanitario ormai “insostenibile”, della necessità di percorrere altre strade rispetto a quella di una sanità pubblica, anzi di una “sanità di interesse generale”, dell’inefficienza o dell’inefficacia dei servizi sanitari come se, anche in questo caso, esse fossero condizioni date e non la conseguenza e l’esito di scelte politiche, non necessariamente dichiarate, di soluzioni organizzative inadeguate, di mancata allocazione di risorse e/o inerziale o mal decisa destinazione degli investimenti?

Il de-finanziamento continuativo della spesa sanitaria e la sua flessione drammatica dopo il 2009 sono fatti oggettivi e incontrovertibili. Sono serviti, attraverso lo strumento di una normativa invadente e miope ai diritti qual è stata quella dei Piani di rientro, a mettere sotto controllo i bilanci, e questo ha impedito forse guai ancora maggiori; ma hanno inciso profondamente sull’universalismo del sistema sanitario come non ha mancato di considerare persino la Corte dei Conti. Come è noto, una rilevante inversione di tendenza riguardo al fondo sanitario vi è stata dopo più di un decennio solo con la scorsa Legge di Bilancio e l’atto programmatorio che le è stato contestuale, il Patto per la salute 2019/2021, poche settimane prima che scoppiasse il fenomeno epidemico.

Ora, all’indomani del periodo più drammatico dell’epidemia, si pone per la prima volta dopo tanti anni, in virtù dell’incremento già previsto della spesa pubblica per la sanità e delle risorse aggiuntive che sono arrivate e auspicabilmente arriveranno ancora per migliorare la tenuta del nostro sistema sanitario e degli altri in Europa, la questione e la responsabilità di come utilizzare tali risorse e su cosa orientare gli investimenti in sanità. Alla luce di quello che si è detto, la risposta a questa domanda è piuttosto scontata e sta nella priorità che, nell’allocazione delle risorse, deve essere finalizzata a superare le disuguaglianze e, in particolare, visto che si parla di risorse da investire per la sanità, le disuguaglianze sanitarie più macroscopiche che sono quelle fra le Regioni. Nel garantire un sistema sanitario equo e universalistico, infatti, alcune Regioni hanno saputo o potuto fare meglio di altre, e le fratture che ne sono derivate hanno procurato nel nostro Paese, anche prima dell’epidemia, tanti sistemi sanitari per quante Regioni.

Prima si è fatto l’esempio della città di Torino. Su scala regionale, i dati non sono di minor impatto: i cittadini nati in Campania nel 2017 hanno una speranza di vita alla nascita di due anni e sei mesi inferiore di quelli nati a Trento e, in quanto alla speranza di vita in buona salute, i cittadini nati in Calabria nel 2017 hanno un’aspettativa di vita di 9 anni e 1 mese inferiore di quelli nati in Emilia Romagna nello stesso anno. Un altro dato, che comunica con altrettanta evidenza, è quello relativo alla mobilità passiva collegata alla cattiva distribuzione dei servizi o a differenze, reali o percepite, nella qualità delle cure offerte, che induce le persone ad andare altrove per curarsi. Sul totale dei ricoveri, la percentuale di ricoveri fuori Regione dei residenti sul totale dei ricoveri in Regione è dell’82,1% nel caso dei cittadini calabresi, del 4,1% di quelli lombardi: e la mobilità passiva, oltre a essere un interessante indicatore di disuguaglianze, ne è causa essa stessa, poiché le Regioni con bassi livelli di assistenza, reali o percepiti, e di conseguenza con saldi di mobilità negativi, sono indotte a ridurre la propria spesa sanitaria a scapito, in un circolo vizioso, della qualità dei servizi offerti.

È chiaro che, per abbattere le disuguaglianze sanitarie, il tema non è solo avere più risorse a disposizione, ma saperle spendere bene – senza sprechi, senza corruzione – per garantire i fabbisogni di salute nelle differenti Regioni. Ma due cose sono certe, e rendono più complesso questo ragionamento. La prima è che il fondo sanitario viene ripartito fra le Regioni con altri criteri che non sono i fabbisogni di salute, criteri che hanno a che fare, oltre che con il numero dei residenti di una Regione, con la sua capacità storica di spesa. Detto altrimenti, vengono date più risorse a chi si è dimostrato storicamente in grado di spenderne, non a chi ha un fabbisogno di salute maggiore perché semmai ha una popolazione più anziana, un maggior numero di individui affetti da patologie croniche (il 70-80% dei budget sanitari servono a questo), una maggiore incidenza di patologie dovute a fattori ambientali. La seconda considerazione è che il nuovo meccanismo di valutazione dei Livelli di assistenza erogati dalle Regioni – introdotto dal Patto per la salute e più accurato del precedente visto che conduce la valutazione su tre ambiti, la prevenzione, l’assistenza distrettuale e l’assistenza ospedaliera – mostra che le Regioni inadempienti rispetto ai Livelli essenziali di assistenza sono la maggioranza, non più poche Regioni “canaglia”, e soprattutto che quelle eccellenti in alcuni ambiti, come l’assistenza ospedaliera, non lo sono affatto nel campo della prevenzione e, ancor meno, dell’assistenza territoriale.

E con questo il cerchio pare chiudersi, almeno al livello di ragionamento, perché nella realtà molto andrà fatto per riuscirci: il dibattito sull’assistenza territoriale, anzi per meglio dire su una sanità presente al livello comunitario e non soltanto tra le mura degli ospedali, su una sanità capace di promuovere salute, di fare rete tra gli operatori, di costringere i professionisti a lavorare insieme, di integrare risorse e programmi, di coinvolgere i cittadini, anche singoli, rendendoli agenti di salute (proprio come è avvenuto durante l’emergenza), di favorirne la capacità di organizzazione autonoma, di sostenere il protagonismo solidale delle comunità, è molto di attualità poiché si è osservato, durante il periodo della pandemia, che i luoghi meglio strutturati dal punto di vista dell’offerta di una sanità territoriale sono stati anche quelli in grado di rispondere meglio nell’emergenza in quanto già attrezzati per operare in un’ottica comunitaria.

Ma, oltre l’emergenza, un’idea comunitaria di sanità – che capovolge perfino la relazione fra territorio e ospedale poiché non solo riconosce al primo la stessa centralità dell’ospedale, ma integra quest’ultimo nel territorio e nella comunità e smette di concepirlo come una struttura a sé, autogestita e spesso autoreferenziale – è anche quella in grado di garantire un meccanismo più efficace di lotta alle disuguaglianze, perché raggiunge le persone laddove sono, propone loro percorsi che tengano conto dei loro bisogni di salute e delle informazioni di cui dispongono per soddisfarli, garantisce la prossimità e rende possibili, attraverso essa, politiche di accesso facilitato, di prevenzione, di aderenza alle cure che sono presupposto di salute per tutti i cittadini e che devono diventarlo, in modo non più differibile, per quelli che vivono condizioni di fragilità di ogni genere.

* Anna Lisa Mandorino, Vicesegretaria generale di Cittadinanzattiva