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Salari e contratti, un accordo sbagliato

L’accordo del 22 gennaio non sosterrà la produttività. Si comprimono i salari reali per compensare l’inefficienza di un’economia fondata sulle rendite

Per discutere utilmente dell’Accordo sul rinnovo del modello contrattuale dobbiamo mettere da parte comode e strumentali semplificazioni: chi sostiene l’Accordo è per il sindacato partecipativo; chi è contro è per il sindacato conflittuale; chi è per l’Accordo è un vero riformista perché riconosce l’autonomia tra partiti e sindacati; chi è contrario, persevera nel vecchio collateralismo; chi firma l’Accordo riconosce la necessità di un “Patto tra produttori”; chi non firma è prigioniero di una residuale cultura antagonista.

L’Accordo va valutato per gli effetti in grado di produrre. Proviamo a valutarli. Allentare le maglie del contratto nazionale di lavoro e potenziare la contrattazione decentrata è certamente utile all’innalzamento della produttività. Tuttavia, nonostante quanto afferma chi va alla moda, i suoi effetti sulla produttività possono essere soltanto modesti. Infatti, nel dibattito pubblico si fa confusione, a volte inconsapevole, spesso deliberata, tra produttività del lavoro e produttività del lavoratore. Nel campo dell’economia mainstream, non dell’eterodossia economica, è la prima la variabile rilevante. E, come noto, dipende da un ventaglio di fattori al di fuori del controllo di imprenditori e lavoratori (dalla dotazione infrastrutturale alla regolazione dei mercati, dalla qualità della forza lavoro al livello di civismo ed efficienza/efficacia delle istituzioni politiche, etc) e da altri fattori al di fuori del controllo del lavoratore (dalle strategie aziendali al livello e qualità degli investimenti, dalla qualità del management alla contendibilità degli assetti proprietari e alla dimensione delle imprese). Certo motivare il lavoratore legando una quota della sua retribuzione alle performance dell’impresa contribuisce ad aumentare la produttività, ma in modo marginale. Per valutare gli effetti dell’Accordo, oltre a fuoriuscire dall’ideologia della produttività del lavoratore, dobbiamo anche considerare il contesto di politica economica nel quale si iscrive. La politica economica del governo non solo non porta avanti riforme sulle variabili rilevanti ai fini della produttività, ma cancella i timidi avanzamenti finora faticosamente raggiunti. L’elenco dei passi indietro è lungo, richiamo soltanto: i) lo smantellamento delle misure pro-concorrenza nei mercati (dai servizi professionali all’Opa, dai servizi bancari ed assicurativi alle farmacie, dall’indebolimento delle Authority di vigilanza e regolazione, ai servizi pubblici locali); ii) il sostanziale svuotamento degli incentivi fiscali automatici per gli investimenti nel Mezzogiorno, per le spese in R&S, per le ristrutturazioni ecologiche e le fonti rinnovabili di energia; iii) l’indebolimento delle misure contro il lavoro nero, per i diritti e per la sicurezza dei lavoratori e l’eliminazione delle principali misure anti-evasione che, al di là dei loro effetti sull’equità, incidono anche sulla qualità delle forze in campo. Insomma, la produttività non aumenterà perché le rendite che la legano non vengono intaccate. Oltre al contesto di politica economica, vi sono due punti specifici dell’Accordo di cui valutare appieno le conseguenze. Il primo. Perchè l’indicatore di inflazione da assumere nei rinnovi contrattuali (IPCA) deve essere applicato solo ad una parte della retribuzione (dal 70 al 85% a seconda dei settori, le “pecore nere” sono, ovviamente, i dipendenti pubblici, fannulloni per definizione)? Perchè i lavoratori, tutti i lavoratori, non dovrebbero vedersi garantito almeno il potere d’acquisto delle retribuzioni? Inoltre, mentre al fine di evitare una spirale inflazionistica è corretto escludere daIl’IPCA previsionale l’andamento dei prezzi dei prodotti energetici, perchè anche l’IPCA a consuntivo li deve escludere? Se gli altri redditi non si (auto-) moderano in relazione all’andamento dei prezzi dei prodotti energetici, certo non lo faranno data la scarsa concorrenza in molti mercati interni, perchè l’inefficienza di sistema deve scaricarsi sul reddito da lavoro dipendente? La risposta è che il governo e una parte di Confindustria considera il reddito da lavoro la variabile per compensare l’inefficienza generata dalla congerie di rendite di cui sopra. Una congerie di rendite che il governo non intende affatto scalfire, come continua a segnalarci il ministro Tremonti (da ultimo ad Alba: “A me non importa parlare di riforme strutturali perché le abbiamo già fatte”), dato che con i rispettivi percettori ha stretto patti corporativi. Mettendo insieme l’effetto dell’Accordo sul potere d’acquisto delle retribuzioni, l’assenza di recupero del fiscal drag, i tagli al “salario indiretto” (scuola, assistenza, sanità, ecc), l’allentamento delle misure antievasione, viene fuori un massiccio spostamento di reddito ad ulteriore svantaggio dei lavoratori dipendenti. Il secondo punto specifico è il seguente. Perché il potenziamento delle funzioni degli enti bilaterali? Da due decenni ripetiamo che il mondo fordista è tramontato e che associazioni di categoria e sindacati hanno sempre più difficoltà a rappresentare i protagonisti dell’economia odierna, le miriadi di micro imprese ed i lavoratori con contratti precari. Allora, perché è innovativo un accordo che affida agli enti bilaterali, istituzioni spesso in linea con le worst practices della pubblica amministrazione, il monopolio di funzioni fondamentali per garantire diritti di cittadinanza (ad esempio, la Cassa Integrazione sulla scia di quanto introdotto nel cosiddetto decreto anticrisi)? L’evoluzione dell’economia richiede sempre più un welfare liberal-democratico, universalistico: un sussidio unico per un contratto unico chiede il Pd. L’accordo, invece, punta sul welfare categoriale e corporativo, in linea con il Libro Verde prodotto dal Ministro Sacconi e l’impianto della politica economica del governo. Dato il contesto di politica economica e considerati i punti specifici richiamati, quali saranno le conseguenze dell’accordo? 1) una riduzione media delle retribuzioni nette dovuta alla base di calcolo sulla quale si applica l’IPCA e all’insufficiente recupero via produttività, nonostante gli sconti fiscali. Saranno minoranze le realtà produttive nelle quali i lavoratori avranno retribuzioni più elevate rispetto all’attuale assetto contrattuale; 2) un ampliamento della varianza territoriale delle retribuzioni, causato non dalla qualità della prestazione del lavoratore, ma da variabili assolutamente al di fuori della sua portata. È vero che la retribuzione effettiva è già largamente sfuggita al contratto nazionale di lavoro in tante aree “sottoutilizzate” del Paese. Tuttavia, l’ampliamento delle divergenze è insostenibile al di fuori di politiche di riequilibrio dei territori; 3) un utilizzo in larga misura inefficace di preziosissime ed ingenti risorse pubbliche dato che l’anemia della produttività determinata dall’assenza di riforme strutturali spingerà le parti sociali a spostare al secondo livello contrattuale quote della retribuzione di primo livello. Tali risorse pubbliche si dovrebbero, invece, concentrare a sostegno di ricerca ed innovazione o per interventi più incisivi sui redditi da lavoro. Si ripete l’errore fatto dal governo Prodi con l’intervento “a pioggia” sul cuneo fiscale.

In sintesi, ancora una volta, con l’accordo del 22 gennaio l’Italia sceglie l’illusoria scorciatoia della competizione di costo: prima si praticava anche attraverso la svalutazione della Lira e con l’accumulazione di debito pubblico, ora non rimane che la svalutazione del lavoro. La strada scelta non solo è profondamente iniqua, ma non porta al miglioramento strutturale della competitività del Paese. E nell’attuale “congiuntura” è anche l’opposto di quanto sarebbe necessario per sostenere la domanda ed i consumi.

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