Il quadro politico-istituzionale brasiliano non sembra promettere stabilità, il tessuto sociale è ancora più spaccato. E intanto si fanno avanti nell’epoca Temer i grandi progetti nell’Amazzonia brasiliana: quando lo sfruttamento delle risorse minaccia lo sviluppo.
A seguito dell’inchiesta Lava-jato il Brasile è caduto in una profonda crisi politico istituzionale che, a partire dall’impeachment della presidente Dilma Rousseff dell’agosto 2016, ha condotto alla carica di presidente ad interim l’ex vice presidente Michel Temer fino a portare al recente arresto dell’ex presidente Ignacio Lula da Silva, il 7 aprile 2018.
Nonostante la crisi, nel 2017 secondo l’Instituto Brasileiro de Geografia e Estatística (IBGE) il Paese ha registrato una crescita del +1%, positiva ma inferiore agli altri BRICS, eccezion fatta per il Sudafrica, più la riduzione del tasso di inflazione, l’aumento dei salari reali e dell’occupazione informale. Unica nota negativa, l’aumento della disoccupazione al 13%.
Con la presidenza Temer le politiche mainstream (taglio alla spesa pubblica, privatizzazioni e incentivi alle esportazioni per stimolare l’economia) tornano a essere le politiche di riferimento dopo tredici anni di eterodossia “petista” (da Pt, il partito del Lavoratori) , prima col governo Lula (2003-2010) e in seguito col governo Rousseff (2011-2016), entrambi esponenti Partido de los Trabajadores.
Un segnale di cambiamento è dato anche dal recente tentativo di sbloccare l’utilizzo a scopo economico dell’ex area protetta RENCA (Riserva Nazionale di Rame e altre Leghe), tra Pará ed Amapá in Amazzonia, per facilitare la costruzione di siti di estrazione mineraria, rivelando una strategia ben lontana dagli obiettivi di sviluppo sostenibile proposti dalle Nazioni Unite per il 2030.
L’attrazione di capitale estero finalizzato allo sfruttamento di risorse naturali come volano di crescita non dovrebbe avvenire a discapito di ambiente e società, dal momento che, secondo
Survival International, l’Amazzonia ospita circa il 20% della biodiversità mondiale e quasi il 99% delle terre indigene attualmente presenti in Brasile.
I capitali investiti nell’Amazzonia brasiliana sin dagli anni ‘70 si sono sempre concentrati sul potenziale estrattivo (soprattutto bauxite) comportando, come spesso avviene in aree emergenti, anche investimenti in porti e autostrade come la Transamazonica.
Tuttavia, il caso brasiliano resta emblematico della nascita di “enclave economiche”. Da più di 20 anni l’ecologo Philip Fearnside, ricercatore presso Instituto Nacional de Pesquisas da Amazônia (INPA) sostiene che lo sbilanciamento nella distribuzione di costi e benefici è evidente, restando il costo estrattivo in linea generale a carico esclusivo delle comunità locali. La strategia si rivela quindi per sua natura iniqua, giustificando da un lato lo sfruttamento di risorse in qualsiasi luogo in nome di un generico interesse nazionale, mentre il carattere top down degli interventi, con assenza di partecipazione dal basso (o con partecipazione fittizia) rende il processo di sviluppo estremamente sbilanciato. E così i poli di estrazione e le centrali di energia diventano, come denunciava la geografa e urbanista brasiliana Berta Becker, un lasciapassare per l’occupazione rapida e sconsiderata dell’Amazzonia.
Secondo il Law Justice Programme (2017-2018) il Brasile presenta sia alti livelli di corruzione tra i funzionari degli enti governativi (vedi ad esempio l’appropriazione indebita di finanziamenti pubblici) che una costante discesa dell’indicatore relativo alla tutela dei diritti fondamentali.
La mancanza di istituzioni forti evidenzia dunque, soprattutto nelle dinamiche energetiche, il problema della relazione Nord-Sud: aree rurali caratterizzate da immensi bacini idrografici e grandi centrali idroelettriche si trovano principalmente nel Nord del Paese (Amazzonia), mentre i poli industriali e le grandi metropoli (principali consumatori di energia) sono presenti nel ricco Sud brasiliano.
Il progetto di ricerca AguaSociaL – Water Related Science (finanziato dal 7° programma quadro dell’Unione Europea) coordinato dall’Università degli Studi Roma Tre, ha cercato di valutare l’impatto socio-economico di alcuni progetti di interesse nazionale implementati nello Stato Federale del Pará. Particolare attenzione è stata riservata alla microregione circostante la Centrale Idroelettrica Tucuruí – uno dei principali investimenti previsti dal programma Grande Carajás- che è diventata la prima centrale idroelettrica del Brasile e la quinta nel mondo per capacità produttiva. La ricerca è stata resa possibile dalla disponibilità di dati geo-referenziati prodotti dall’ Instituto Brasileiro de Geografia e Estatística (IBGE) su reddito pro capite, vulnerabilità alla povertà e distribuzione del reddito (indice di Gini) (anni 1991, 2000 e 2010) disponibili per tutte le 144 municipalità dello stato brasiliano del Pará, nell’Amazônia Legal (l’Amazzonia brasiliana).
Dopo una selezione di 27 municipalità interessate da grandi centrali idroelettriche, i dati risultano piuttosto espliciti: più si va avanti con gli anni, e nonostante l’aumento del reddito, maggiore è la vulnerabilità alla povertà (si veda Iorio et al.2018, “The Brazilian Amazon: a resource curse or renewed colonialism?”). Tutte le 27 municipalità hanno trend non incoraggianti, ma le municipalità a valle della centrale idroelettrica di Tucuruí sono le peggiori, a dimostrazione che investimenti energetici di interesse nazionale possono trasformarsi da opportunità in minaccia per un’area che, all’atto pratico, ha performance al di sotto della media non soltanto dello Stato, ma anche dell’intera Federazione.
L’area a valle presenta il quadro più critico perché ha una struttura economico sociale estremamente dipendente dal fiume (fonte di materie prime e mezzo di comunicazione) ed è soggetta alle maggiori e peggiori mutazioni ambientali. Nonostante ciò, è classificata come “area interessata indirettamente” e per questo ha sempre beneficiato, da parte del colosso brasiliano dell’energia Eletrobras/Eletronorte, di compensazioni irrisorie e tardive rispetto a quanto avvenuto con lo “spazio polarizzato a monte”. Inevitabile è allora, tenendo conto anche dell’incidenza di ulteriori fattori esogeni di tipo storico e geografico, pensare che le aree amazzoniche soggette a interventi di interesse nazionale presentino una naturale predisposizione a replicare l’esperienza di Tucuruí.
Il caso della centrale idroelettrica di Belo Monte, entrata in funzione nel 2016 tra le proteste di ambientalisti e popolazione locale, insinua il dubbio che la storia stia per ripetersi.
Sebbene i programmi di interesse nazionale implementati in Brasile a partire dallo sfruttamento di riserve locali garantiscano un grande afflusso di capitali, ciascun grande progetto assicura una crescita insostenibile. Il semplice ruolo di supplier non può evidentemente garantire l’integrazione regionale, relegando l’Amazzonia a jardim do Brasil, come denuncia nel 2017 il giornalista paraense Lucio Flavio Pinto in occasione di una serie di conferenze intitolate “de-colonizzare l’Amazzonia”.
Tuttavia, il quadro politico istituzionale brasiliano non sembra promettere stabilità, mentre il tessuto sociale già estremamente eterogeneo risulta spaccato sia da un punto di vista socio-politico che geografico. Le privatizzazioni rilanceranno davvero l’economia o si trasformeranno in una ufficiosa svendita delle proprie dotazioni di risorse naturali? Qualunque sia la risposta a questa e ad altre domande, le esperienze passate ed i risultati presenti suggeriscono la necessità di concentrare le politiche verso lo sradicamento di diseguaglianze e povertà, vera emergenza nazionale, ma la valorizzazione economica delle risorse (presenti in enormi quantità) non deve prescindere dalla conservazione di un territorio unico al mondo, in modo da garantire una crescita nazionale in grado di trainare quella locale garantendo cosi uno sviluppo sostenibile e integrato.