Dall’Unità in poi l’Italia ha compiuto un percorso “subottimale” ed è sempre cresciuta meno di quanto avrebbe potuto. Una recensione al volume curato da Vasta e Di Martino
Articolo pubblicato su pandorarivista.it
Il volume curato da Di Martino e Vasta rappresenta probabilmente una svolta nella crescente pubblicistica storico-economica. Il lavoro, frutto di un collettivo di accademici (oltre agli autori, in ordine di apparizione, E. Felice, G. Cappelli, A. Nuvolari, A. Colli e A. Rinaldi), nasce da uno speciale di Enterprise & Society, intitolato Wealthy by accident? Il punto interrogativo era forse più in linea con l’interpretazione; ma più che in questa, la principale novità del volume sta nel modo in cui si concepisce il ruolo della disciplina nel più generale dibattito pubblico.
Nel 1990, Zamagni mandava alle stampe una delle più importanti e citate sintesi della storia economica d’Italia. Se, come scriveva Fenoaltea, il ruolo della disciplina (e delle scienze sociali) è quello di proiettare, come nelle leggende dei nostri antenati, l’immagine che abbiamo del nostro presente, è inevitabile che le interpretazioni riflettano i tempi in cui vengono scritte. Il titolo del volume – Dalla Periferia al Centro – rifletteva l’ottimismo e l’orgoglio di un Paese che, forse ancor più che dopo il Miracolo, sentiva di essere scampato per sempre dalla miseria. In un modo che colpisce chi quegli anni non li ha vissuti, e ne ha spesso letto descrizioni incentrate su inflazione e finanza pubblica fuori controllo, la pubblicistica dell’epoca sembra riflettere, forse per la prima volta, la voglia degli italiani di definirsi e raccontarsi in virtù della propria economia, atipica, ma di successo; calabroni industriosi e lavoratori, seppur allergici al fisco. Nel decennio precedente, la ‘terza Italia’ della provincia operosa aveva guidato il primo, storico ‘sorpasso’ ai danni del Regno Unito. I distretti industriali, che trovarono in Becattini il loro cantore, facevano sembrare il nostro Paese il modello di un futuro post-fordista, omaggiato dalle visite del neo-eletto Presidente Clinton. Marcello De Cecco, tra le poche “Cassandre” di quegli anni, commentò nel 1995 che era un peccato che un libro così meritorio dovesse presto cambiare titolo – aggiungendo “e ritorno”. Proprio nella sbornia per la piccola impresa, l’economista abruzzese vedeva la chiave di future sventure economiche. Ma tra l’uscita del libro e la recensione di De Cecco, il clima era già cambiato. Il 1992, apertosi con lo scandalo di Mani Pulite, si chiudeva con la crisi valutaria, e l’Italia veniva declassata da frontiera post-fordista a malato d’Europa.
Da allora, gli storici economici hanno appreso prima e meglio di altri la lezione di De Cecco. Mentre il Paese si concedeva alle sirene della ‘rivoluzione liberale’ berlusconiana, o individuava nella mera disciplina di bilancio e nella fedeltà all’Europa le garanzie di prosperità, abbandonando progettualità e visione strategica, la disciplina ha proiettato nel passato le inquietudini del presente. Di declino economico in prospettiva storica parlava, per esempio, Gianni Toniolo, in un volume del 2004: il caso di Venezia veniva assunto ad emblema, di come il successo di istituzioni e patti sociali rischiasse di rendere impossibili aggiustamenti anche minimi, trasformando periodi di rallentamento relativo in vero e proprio declino. Di certo non un “declinista”, introducendo l’importante volume da lui curato per il 150° dell’unità d’Italia, Toniolo ha enfatizzato il successo, in prospettiva secolare, dell’economia italiana, capace di raggiungere livelli inimmaginabili ai tempi di Giolitti e Lloyd-George. Il dubbio prendeva tuttavia corpo nella generazione successiva di studiosi (prima, e meglio, che nel dibattito politico), fino a prendersi i titoli di testa (ad esempio, nella successiva sintesi di Felice).
Ricchi per caso avanza un’interpretazione ancor più netta: dall’Unità, l’Italia ha compiuto un percorso “subottimale”. A parte brevi periodi (quello giolittiano, il Miracolo), l’Italia è sempre cresciuta meno di quanto avrebbe potuto, senza convergere verso i paesi più sviluppati, come sintetizzato da un grafico in cui la posizione dell’Italia rispetto agli Stati Uniti, dopo un periodo di convergenza, risulta oggi uguale a quella del 1860, contenuto nel cap. 1 (Felice), esauriente descrizione degli andamenti di Pil e dei divari regionali (anche questi, decisamente subottimali). Il libro prosegue cercando le cause di questo insuccesso nei sistemi scolastico (cap. 2, Cappelli) e di innovazione (cap. 3, Nuvolari e Vasta), nella struttura e nelle politiche industriali (cap. 4, Colli e Rinaldi), e nella natura delle istituzioni (cap. 5, Di Martino e Vasta), mantenendo un buon equilibrio tra la divulgazione delle tante evidenze quantitative prodotte negli ultimi anni, e quei fatti storici e politici necessari a leggerle. L’idea di fondo è che il fallimento dello sviluppo italiano stia nella specializzazione in settori poco innovativi, nella mancanza di investimenti in istruzione e ricerca, che ha impedito al Paese di raggiungere stabilmente la frontiera tecnologica, intrappolandolo invece in forme di capitalismo predatorio, dove la competizione si gioca sul prezzo, comprimendo i salari e usando la valvola dell’evasione evasione. I capitoli 2 e 3 hanno il grande merito di dar spazio ad aspetti drammaticamente sottovalutati – dalla politica, e spesso anche dagli studiosi – che invece sono centrali nell’interpretazione e nelle conclusioni degli autori. Allo stesso tempo, i capitoli 4 e 5 cercano di superare l’applicazione frettolosa della categoria spesso vaga di istituzioni, affrontate secondo una definizione precisa – quella di Douglas North, di “regole del gioco che governano le interazioni tra gli agenti economici”, siano esse formali o informali (p. 11). Analizzando aspetti come la legge fallimentare, la definizione dell’impresa artigiana, persino il ruolo dei commercialisti, si cerca poi di definire la “varietà italiana” di capitalismo, trattandola nella sua specificità, e non come semplice ibrido di altri modelli.
L’ultimo capitolo, scritto collettivamente, e intitolato “il futuro economico dell’Italia in prospettiva storica”, fornisce infine vere e proprie proposte di politica economica, traducendo l’interpretazione in ricette contro il declino, tutt’altro che irreversibile e inevitabile. Gli autori usando la storia economica non per prevedere il futuro, ma come colto da Cesaratto su MicroMega, per “esplicitare l’ordine di problemi che una politica all’altezza dovrebbe affrontare”. Riprendendo la parziale rassegna con cui si apriva quest’articolo, con Ricchi per caso la storia economica italiana sembra non riflettere più il presente, ma porsi esplicitamente lo scopo di suggerire visioni e piani per un futuro di successo, saltando lo steccato disciplinare che la divide dalla politica economica. Le proposte – investimenti in istruzione; promozione di un più efficace sistema di scienza, tecnologia e innovazione, facendone davvero una “priorità strategica” (p. 275); l’adozione di una politica industriale mirata a stimolare la crescita dimensionale delle imprese, e a incoraggiarne una specializzazione in settori più innovativi e a più alto contenuto tecnologico – sono estremamente condivisibili e di buon senso, ma potranno risultare evasive a quei lettori più interessati alla storia italiana ed europea degli ultimi decenni. Come riconosciuto dai curatori in una recente presentazione ad Oxford, non è lo scopo del libro approcciare il tema dal punto di vista macroeconomico: e dunque poco spazio hanno nell’interpretazione i radicali cambiamenti intervenuti proprio dagli anni ottanta (l’ingresso nello SME prima e nella moneta unica poi, o le politiche di privatizzazione), che pure hanno contribuito ai problemi denunciati nel libro (il declino o la svendita di grandi imprese; l’assenza di politiche industriali; gli stessi tagli in istruzione e ricerca, come risultato della disciplina di bilancio).
Sicuramente il contesto internazionale non può non aver giocato un ruolo importante, per un Paese che, come sottolineava proprio Felice nel volume citato, necessità fisiologicamente di importare gran parte delle materie prime che trasforma. Eppure, la prospettiva scelta dagli autori aiuta a cogliere nodi importanti, su cui il nostro Paese avrebbe dovuto e dovrà riflettere a prescindere dai contesti internazionali, ed è coerente con l’interpretazione, che cerca le ragioni della crisi recente nel più lungo corso della storia unitaria. Se si ritiene la storia italiana fino al 1992 un percorso di successo, allora il quadro temporale in cui cercare le cause del declino si fa necessariamente ristretto. Ma se, come gli autori di Ricchi per caso, si crede che l’Italia abbia realizzato meno di quanto era lecito aspettarsi, allora diventa interessante chiedersi perché, qualunque sia l’opinione ad esempio sul processo di integrazione europeo, l’Italia vi sia arrivata nella necessità di ripensare un modello di sviluppo già reso obsoleto dalla globalizzazione. Più semplicemente, accanto alla visione macroeconomica, è utile affiancare una più corretta analisi dei fattori micro e della produzione, ribaltando l’ossessione per il costo del lavoro (dove sicuramente in Italia è stata egemone la “cattiva economia del neoliberismo”, di cui ha recentemente scritto Dani Rodrik), e si rilancia il necessario ruolo della mano pubblica (come sfugge persino al recensore di Libero). Come suggerito dal filone di studi sull’economia dell’innovazione, recentemente portato alla ribalta da Mariana Mazzucato, l’intervento dello Stato non deve più concepirsi solo come risposta alla crisi, ma come sostegno, guida strategica all’innovazione tecnologica, che dipende non tanto e non solo da singole iniziative imprenditoriali, ma dall’esistenza e dalla crescita di veri e propri sistemi nazionali di innovazione.
In effetti, il tipo di analisi suggerito da Ricchi per caso aiuta proprio chi guarda con nostalgia alla fase dell’intervento pubblico e delle partecipazioni statali, ad individuare le ragioni di una fine così rapida e ingloriosa. Mentre le regole del gioco non incoraggiavano le piccole imprese a crescere, assumendo forza lavoro qualificata e contribuendo all’innovazione tecnologica, le stesse grandi imprese pubbliche non hanno forse potuto beneficiare di un adeguato sistema di formazione di classe dirigente economica, che desse fiato e prospettiva alle organizzazioni (IRI, Cassa del Mezzogiorno) su cui il Miracolo era stato costruito. Se si adotta la prospettiva di Ricchi per caso, i decenni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale emergono in tutta la loro eccezionalità, ben più dell’epoca giolittiana, cui pure gli storici economici italiani son molto affezionati. Al tempo stesso, viene forse meno l’aura ‘miracolosa’ con cui ce li siamo sempre spiegati: l’Italia è diventata ricca per davvero, compiendo la decisiva trasformazione da Paese agricolo a moderna economia industriale, e una delle più prospere al mondo, proprio quando, anziché affidarsi al caso e alle sole forze di mercato e globalizzazione, ha fatto “i compiti a casa”. Il grande balzo della ricchezza e del benessere degli italiani si è compiuto quando, come ricostruisce Cappelli, con molte criticità si sono compiuti gli sforzi più convinti per riformare la scuola, e hanno visto la luce i pochi tentativi, perlopiù falliti, di riformarla secondo una visione complessiva; in quei decenni in cui, come mostrano Nuvolari e Vasta, gli iscritti all’università, la ricerca accademica, e l’innovazione tecnologica prodotta nel Paese (misurata attraverso i brevetti) subivano decisive accelerazioni, grazie soprattutto a investimenti pubblici, e allo stesso tempo, i salari si avvicinavano finalmente ai livelli di quei paesi avanzati cui diventavamo finalmente parte. In quegli stessi decenni, come mostrato da Colli e Rinaldi, la quota di aziende con meno di 10 addetti calava, e per qualche decennio, più di metà della forza lavoro era impiegata in imprese con almeno 50 addetti – percentuale oggi scesa a poco più del 40%, in virtù di un crollo di oltre 10 punti di quelle con oltre 500 dipendenti. Casi come quello di Natta, in cui la collaborazione tra ricerca pubblica d’eccellenza (l’Istituto di chimica Industriale del Politecnico di Milano) e grande impresa (Montecatini) portò a successi commerciali e scientifici, erano dunque eccezionali, ma forse non casuali. Collaborazioni simili, in fondo, venivano istaurate da enti di ricerca come Svimez con affermati economisti stranieri e italiani, il cui pensiero informava la programmazione economica. Certamente, ci spiegano gli autori di Ricchi per caso, si poteva fare meglio, e le gravi distorsioni istituzionali, ereditate dalla vecchia Italia o generate in quegli stessi anni, si sarebbero poi fatte sentire, come è naturale, solo alla distanza. Non di meno, il miracolo emerge come un cambio radicale rispetto al sostanziale laissez-faire d’epoca giolittiana, o a quelle pratiche opache che già caratterizzavano l’epoca liberale, e che esplosero a cavallo della Grande Guerra; e anche rispetto al fascismo, in cui pure personaggi di tradizione liberale, come Beneduce, trovarono modo di impiantare l’intervento pubblico, ben distante dalle politiche “manchesteriane” del primo Mussolini e di De’ Stefani. Il risultato, anche alla luce del declino degli ultimi decenni, di aver tenuto il passo con un’economia dinamica come quella statunitense, o della Germania, non è forse così disprezzabile, alla luce delle condizioni di partenza, delle dotazioni di fattori, e delle inevitabili economie di scala e path-dependency, che spesso smentiscono l’idea degli economisti che gli ultimi saranno i più veloci. Eppure, se questo successo è oggi gravemente a rischio, è anche perché quelle organizzazioni di successo, e le collaborazioni positive che misero in atto con l’università, non sono sopravvissute alla vita professionale di molti individui eccezionali; il loro successo non è stato messo a sistema, e non si è tramutato in istituzioni durature, vere e proprie palestre di classe dirigente economica, “riserve della Repubblica” cui accingere nel bisogno, ma ancor più, da cui trarre progettualità e visione prima della tempesta. In questo senso, oltre a suggerire condivisibili e radicali cambi di prospettiva nella politica economica, Ricchi per caso spinge le nuove generazioni di studiosi italiani a indagare ancora, e con lenti nuove, l’ascesa e il declino dello stato imprenditore italiano, di come fu possibile buttare assieme all’acqua sporca tutto il patrimonio di conoscenze che l’esperienza delle partecipazioni statali lasciava in eredità al Paese. Soprattutto, lo fa spronando, in modo quanto mai condivisibile, a fare di questa ricerca la base, per immaginare e progettare nuovi futuri per l’Italia, fuori dal declino.
Paolo di Martino e Michelangelo Vasta (a cura di), Ricchi per caso. La parabola dello sviluppo economico italiano, il Mulino, Bologna 2017, pp. 320 pp., 19 euro (leggi qui la scheda libro)