A diciotto mesi trascorsi dall’entrata in vigore della legge sul RdC (30 marzo 2019) è necessario capire il perché di un flop: la sua doppia anima, assistenziale e lavoristica, e la paralisi dei servizi per le politiche attive del lavoro. Da Menabò.
1. Sono passati appena diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge che ha definito la versione italiana del Reddito Minimo Garantito (RMG) – impropriamente definito Reddito di Cittadinanza (RdC) – e si fa presto a parlare di fallimento.
Secondo i critici sarebbero almeno due le ragioni del presunto flop.
La prima è legata alle numerose indebite percezioni del sussidio. Nell’immaginario critico il beneficiario del RdC è per lo più un disonesto, autore di false dichiarazioni finalizzate all’ottenimento (o al mantenimento) del RdC, che percepisce il sussidio approfittando del malfunzionamento del sistema.
E in effetti, occorre riconoscere che neppure la robusta dotazione di sanzioni che la legge aveva predisposto, attirando a sé critiche di eccessiva severità, è valsa ad impedire che nuclei familiari proprietari di beni di lusso o con componenti adusi a delinquere – come le famiglie degli uccisori di Willy Monteiro Duarte – rientrassero nella schiera dei beneficiari del sussidio. Né ad evitare che tanti lavoratori in nero cominciassero a percepire il Rdc rimanendo in nero per scelta, proprio per non compromettere il diritto al sussidio.
Ma occorre anche rammentare che i comportamenti opportunistici di fronte alle provvidenze del welfare non sono una novità e non possono motivare decisioni di drastica demolizione dei sussidi per abbandonare gli abusi. Lo si è scritto bene qualche settimana fa: prima del RdC, una certa politica e professionisti compiacenti si inventavano la concessione di pensioni di invalidità a chi invalido non era; o i sussidi di disoccupazione agricola a chi nei campi non aveva mai messo piede (F. Riccardi, Correggere sì, cancellare no, L’Avvenire, 1 ottobre 2020).
La seconda ragione del presunto fallimento risiederebbe nell’”anima lavoristica” del sussidio.
Accanto al “contrasto alla povertà”, la “garanzia del diritto al lavoro” era una delle finalità del sussidio dichiarate sin dal primo articolo della legge.
Il sussidio era stato giustamente pensato come base virtuosa per la realizzazione del diritto al lavoro e per l’adempimento del dovere di lavorare, secondo i nobili dettami della nostra Costituzione (art. 4), ma anche nella prospettiva del “welfare attivo” (o del welfare to work).
La legge istitutiva prevede, infatti, che i beneficiari del RdC debbano “attivarsi”, aderendo ad «un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale». E che debbano sottoscrivere un “patto” – per il lavoro o per l’inclusione – da cui discendono, nel primo caso, obblighi di ricerca attiva di lavoro e di sua accettazione (qualora l’offerta di lavoro sia “congrua”, pena la perdita del sussidio dopo il rifiuto di tre offerte); e, nel secondo caso, obblighi di partecipazione a progetti utili alla collettività, da svolgere presso il comune di residenza.
Proprio sulla doppia anima – assistenziale e lavoristica – dell’istituto, già sottolineata da Pascucci sul Menabò, si appuntano, oggi, molte delle critiche.