L’inflazione è un conflitto sulla redistribuzione del reddito, non cade dal cielo. Per la precisione, scrive Mario Pianta in “L’inflazione in Italia: cause, conseguenze e politiche” (Carocci), è un conflitto di classe tra chi intende garantire i profitti e chi cerca di difendere i diritti e aumentare il potere di acquisto dei salari.
L’inflazione è un conflitto sulla redistribuzione del reddito, non una sfortuna che cade dal cielo. Per la precisione, scrive Mario Pianta nell’introduzione a L’inflazione in Italia: cause, conseguenze e politiche (Carocci, pp. 150, euro 18), è un conflitto di classe tra chi intende garantire i profitti e chi cerca di difendere i diritti e aumentare il potere di acquisto dei salari.
Questa idea, ispirata al grande economista Michal Kalecki, è preziosa in un momento in cui l’inflazione – spinta dall’aumento dei prezzi delle materie prime dalle nuove guerre e dalle distorsioni dell’offerta durante il post-pandemia – è stata interpretata come un fenomeno puramente monetario. Una simile ricostruzione è basata su un’analogia storicamente decontestualizzata con un’altra stagione inflattiva, quella degli anni Settanta. Quest’ultima ingenerò una spirale tra l’aumento dei prezzi e quello dei salari, al punto che pur aumentando questi ultimi, non bastavano a recuperare il potere di acquisto perduto. Per interrompere questo meccanismo, la banca centrale americana (Fed), in coincidenza con la svolta neoliberale della politica globale, inaugurò una politica monetarista che represse i salari e mise le ali al potere oligopolistico delle corporations al centro dell’attuale capitalismo finanziario.
Quarant’anni dopo, una simile giustificazione delle attuali politiche anti-inflattive non solo è scorretta, ma risponde a un preciso progetto politico per di più basato su un curioso ragionamento ispirato alla logica delle aspettative. Dato che oggi c’è l’inflazione, e i lavoratori chiederanno l’aumento dei salari, allora si introducono misure che frenano la possibilità di chiedere tali aumenti. In pratica, per evitare che i salari salgano domani, bisogna punire oggi i lavoratori e i consumatori.
Alla tesi propagata dalle banche centrali e dai governi, il libro ne contrappone un’altra per cui l’inflazione sia stata generata dai super-profitti e che le politiche adottate per domarla servano a consolidare i profitti dell’impresa e a piegare la resistenza della forza lavoro. Le conseguenze di questo rovesciamento aprono nuove prospettive sull’attuale conflitto distributivo. I saggi di Leopoldo Nascia, Mario Pianta, Giuseppe Simone; Valeria Cirillo, Rinaldo Evangelista, Matteo Lucchese; Vincenzo Maccarrone; Guilherme Spinato Morlin, Marco Stamegna e Simone D’Alessandro, Claudio Gnesutta analizzano in questa prospettiva molti aspetti della vita politico-economica in Italia, in particolare durante i governi Draghi e Meloni.
Dalla loro inchiesta collettiva emerge il fatto che la politica dei bonus sulla quale è costruita anche la prossima legge di bilancio, e quella delle misure compensative a sostegno dei salari, sono estremamente costose ma hanno effetti contenuti sulle diseguaglianze esistenti. E, in aggiunta, premiano di più i ceti medio-alti.
Per contrastare gli effetti dell’«inflazione da profitti» – detta anche «inflazione del venditore» – servirebbe invece un salario minimo indicizzato; rinnovare i contratti e vincolare l’accesso alle risorse pubbliche alle imprese che producono buona occupazione; limitare la speculazione finanziaria; tassare i super-profitti; fissare al 4% l’obiettivo dell’inflazione (e non al 2% come pensa di fare la Bce); una politica fiscale progressiva ed espansiva, coordinata a quella monetaria, le cui misure restrittive andrebbero allentate.
Queste soluzioni, in fondo ragionevoli, stentano ad essere adottate a causa degli sfavorevoli rapporti di forza in vigore. Le ragioni sono spiegate nell’ultimo capitolo che, a partire dal caso italiano, allarga lo sguardo al mondo. Claudio Gnesutta analizza lo scenario di una stagflazione persistente in cui sarà accentuato uno sviluppo diseguale e autoritario in un contesto internazionale sempre più conflittuale. La politica economica resta limitata alla ripartizione dei costi derivanti dai mutamenti del quadro internazionale. In mancanza di un forte contrasto alle politiche in corso il loro potere di acquisto dei salari rischia di non essere recuperato, anche quando l’inflazione tornerà ai valori prestabiliti.
In questa prospettiva l’inflazione «da profitti» resta un conflitto interno al capitale, tra detentori dei profitti e quelli delle rendite, mentre il conflitto con il lavoro non sembra essere destinato a una contrapposizione organica. La situazione è aggravata dalla mancanza di istituzioni politiche capaci di negoziare, e regolamentare, il conflitto in cui si resta subalterni. È difficile tornare al passato quando esisteva un’idea di «politica dei redditi», contrattata da imprese e sindacati. Quella idea di sviluppo produttivo e di crescita sociale è stata scardinata da un modello di capitalismo autoritario che cresce in una società frammentata. Ciò però non elimina la necessità di trovare altre soluzioni, una volta compresi i limiti di quelle precedenti.