Fondo cassa/La revisione della spesa pubblica colpisce soprattutto la sanità e i trasporti pubblici locali. E sancisce la fine del federalismo
Con la spending review i famigerati tagli lineari alla Tremonti, messi in soffitta dal governo Monti, tornano camuffati, scendendo solo nel dettaglio rispetto allo stile tremontiano per ritagliare linearmente i singoli capitoli di spesa.
Lo stesso impianto della spending review non convince sul piano metodologico né si capisce come vengono stimati i risparmi effettivi, né si comprende quali siano gli strumenti poiché il suo vero fine è individuare i bersagli da mettere sotto il tiro della politica dei tagli alla spesa stabilita da Bruxelles ed eseguita dal governo Renzi con la legge di stabilità.
L’approccio generale non cerca la spesa inefficiente ma quella indesiderabile da un punto di vista politico, colpendo indiscriminatamente tutti gli ambiti del pubblico fino ad ipotizzare 34 miliardi di risparmi nel 2018 al lordo degli effetti sulle entrate. Proprio il termine lordo è quello che manca nel lavoro di revisione della spesa pubblica perché non specifica spesso cosa accade a seguito di una riduzione di budget per un ente locale, per un ministero o per qualsiasi altro soggetto pubblico.
La spending review diventa lo strumento per colpire proprio i servizi pubblici tradizionalmente utilizzati da lavoratori e pensionati, come il trasporto pubblico locale e la sanità pubblica, si chiedono sforzi alle pensioni, mentre la legge di stabilità insiste nei premi fiscali a imprese come l’Irap. Manca totalmente una quantificazione degli oneri delle politiche dei grandi eventi, da ultima l’Expo di Milano, alle quali acriticamente ogni governo dona ingenti risorse dei contribuenti.
Invece le pensioni, citate spesso nel lavoro di Cottarelli, debbono contribuire ai tagli di spesa con misure di facciata senza mai pensare a norme di carattere generale come il divieto di cumulo con altri redditi da attività lavorativa o d’impresa, almeno per le pensioni più corpose con un maggior beneficio per i giovani che potrebbero disporre di maggiore lavoro. Si pensi al privilegio per alcuni pensionati che riescono a cumulare anche la fiscalità di contribuente minimo Iva, 5 per cento di imposta e rendita fondiaria tassata al 20 per cento.
Quasi a sorpresa il settore difesa, passato pressoché indenne tra i tagli delle ultime finanziarie, questa volta si trova in prima fila per sostenere una riduzione di circa 2 miliardi di budget nel 2016, ma poi sia la legge di stabilità sia la rigorosa spending review dimenticano lo spreco di denaro per gli F35, rilanciano investimenti per la difesa, senza imporre un controllo trasparente e severo, come avviene in altri paesi, al pari del trattamento riservato ad altri settori.
Ad esempio, il trasporto pubblico locale mostra il vero volto della spending review: meno contributi per i servizi pubblici compensati da un aumento delle tariffe. Il cambiamento consiste nell’erogare servizi pubblici a un prezzo calmierato bensì a prezzi pieni: pendolari e studenti dovranno pagare treni e gli autobus con biglietti più cari perché la fiscalità generale non deve contribuire più al diritto alla mobilità. Chi dispone di maggior reddito viene premiato, o lo dovrebbe essere, con minori imposte, mentre chi è meno abbiente, forse in cambio di un piccolo sconto sull’Irpef, disporrà di un minore accesso ai servizi pubblici. I servizi pubblici locali sono forse le vere ‘vittime’, non tanto per i sacrifici delle amministrazioni locali, spesso accusate di cattiva amministrazione ma per quelli richiesti velatamente ai cittadini che si trovano a sostenere il carico dei tagli.
Alla crisi delle acciaierie di Terni, che pesano per il 20 percento del Pil dell’Umbria, la risposta del governo diventa una cura a base di tagli (4,2 miliardi annui per le regioni a statuto ordinario e 548 milioni per quelle a statuto speciale) e manganelli e non un certo un contributo al rilancio dell’economia locale, con la speranza che i tanti disperati dalla chiusura degli stabilimenti diventino capitani d’industria.
Il commissariamento delle regioni, preannunciato nella spending review e inserito nella legge di stabilità, dovrebbe far riflettere invece sulla retorica federalista in cui la politica ha navigato da oltre vent’anni, rivedendo le competenze locali e il ruolo dello stato nazionale. Invece di ipotizzare costi standard, spesso fantasiosi, potrebbe costare assai meno e potrebbe essere molto più proficuo dal punto di vista dell’equità ripensare alcuni servizi pubblici locali in chiave nazionale, lasciando meno deleghe alle autonomie locali man con maggiore autonomia effettiva.
Infine, mancano tante analisi ancora nella spending review: politiche dei grandi eventi, costi effettivi delle grandi opere e una valutazione dei vantaggi presunti delle esternalizzazioni che stanno svuotando il settore pubblico della capacità di agire, a vantaggio di un approccio ideologico che vede nel privato la medicina, adeguata solo nei manuali di economia, ma non ancora provata in termini contabili.