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Quale futuro per l’Unione Europea

1. Le politiche macroeconomiche e le alternative alla stagnazione Le previsioni di ripresa economica nel 2014 in Europa non si sono avverate e la UE si trova a fronteggiare prospettive di un lungo periodo di crescita bassa, alta disoccupazione e, nel migliore dei casi, minimi aumenti dei redditi reali. Anche se la produzione ha smesso […]

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1. Le politiche macroeconomiche e le alternative alla stagnazione

Le previsioni di ripresa economica nel 2014 in Europa non si sono avverate e la UE si trova a fronteggiare prospettive di un lungo periodo di crescita bassa, alta disoccupazione e, nel migliore dei casi, minimi aumenti dei redditi reali. Anche se la produzione ha smesso di calare nella maggior parte dei paesi, negli stati membri meridionali e in molti di quelli orientali rimane molto al di sotto del livello raggiunto nel 2008. Nonostante la richiesta di maggiore flessibilità di bilancio da parte di alcuni governi, le autorità europee insistono nel perseguire rigidamente politiche fortemente restrittive. Invece dell’ossessione per il raggiungimento del pareggio di bilancio, servirebbe una espansione fiscale coordinata, focalizzata sull’aumento dell’occupazione mediante la promozione di investimenti ecocompatibili e la fine dell’attacco alla spesa sociale.
La moneta unica dovrebbe essere integrata da un’incisiva politica fiscale federale, in grado di ammortizzare gli effetti dei periodi di contrazione dell’attività economica a livello federale, nazionale e regionale e di permettere trasferimenti significativi dalle regioni più ricche a quelle più povere. Questa politica fiscale federale si dovrebbe basare su un sistema di tassazione progressivo, integrato dallo sviluppo di un sistema europeo di assicurazione contro la disoccupazione. Si dovrebbe introdurre una tassa su tutte le transazioni finanziarie, insieme a una tassazione uniforme sulle imprese, che ponga fine alla gara al ribasso delle aliquote da parte degli stati, che competono per attirare investimenti esteri. Allo stesso tempo, si dovrebbero rigorosamente proibire i centri finanziari off-shore, per evitare l’evasione fiscale a livello internazionale.
La diminuzione dei disavanzi delle partite correnti è stata ottenuta attraverso politiche deflazionistiche, che hanno ridotto le importazioni dei paesi in deficit. In futuro, la responsabilità di eliminare tali disavanzi dovrà essere condivisa tra i paesi in surplus, che dovranno espandere la loro domanda, e quelli in deficit, che dovranno investire nei settori di esportazione. Le politiche europee regionali e strutturali dovrebbero essere rafforzate e allargate, in particolare attraverso un forte programma di investimenti pubblici e privati, finanziato dalla Banca Europea per gli Investimenti, concentrato specificatamente sui paesi in deficit e, più in generale, sugli stati con reddito più basso.

2. La finanza e la crisi dell’euro
Secondo il Banking Structures Report della BCE, le attività del settore finanziario europeo sono quasi raddoppiate nello scorso decennio, arrivando nel 2013 a raggiungere 57mila miliardi di euro, quasi sei volte il Pil dell’area euro. In più, l’espansione del sistema bancario ombra – una rete di intermediari del credito che coinvolge soggetti e attività al di fuori del sistema bancario regolare, interagendo tra diverse giurisdizioni – ha superato quello del resto del settore finanziario. Nonostante le riforme del sistema finanziario europeo perseguite a partire dal 2009, esso non è stato trasformato radicalmente. Rimane, infatti, caratterizzato da grandi soggetti, troppo grandi per fallire, e basato su banche generaliste, che svolgono attività di banca d’investimento e di banca commerciale sotto lo stesso tetto. Tali banche e tali soggetti finanziari sono caratterizzate da una leva finanziaria molto alta, mentre il sistema bancario ombra gioca un ruolo sempre più importante nel processo di intermediazione.
Il settore bancario dovrebbe essere trasformato radicalmente, creando soggetti di minore dimensione che si specializzino su specifiche aree dei servizi finanziari, sulla base di una regolamentazione chiara e di applicazione generale. Allo stesso tempo, una decisa azione politica è necessaria per affrontare la questione del sistema bancario ombra e la sua dimensione offshore. Finché i centri off-shore saranno in grado di offrire un porto sicuro in cui le istituzioni finanziarie possono aggirare regolamentazione e imposte, persisterà una dimensione di mercato duale. Per superare il circolo vizioso tra perdite bancarie e crescita del debito sovrano, c’è bisogno di un meccanismo di risoluzione del problema del debito nell’area euro. A tal fine si dovrebbe convocare una Conferenza tra gli stati UE. La combinazione di una moneta unica mal congegnata, della deregolamentazione finanziaria e di una inefficace riforma della politica finanziaria, ha generato l’attuale groviglio di problemi, il cui costo è pagato da gran parte della popolazione europea.

3. La politica industriale e l’evoluzione dell’economia
L’Europa post-crisi non può tornare alle forme di produzione del passato, molte delle quali, in ogni caso, sono andate perse durante i prolungati anni di stagnazione. È necessario un nuovo percorso di sviluppo, socialmente ed ecologicamente inclusivo, e le politiche pubbliche giocheranno un ruolo cruciale nel modellarlo. La nuova politica industriale europea dovrebbe incentrarsi su ambiente ed energia; sulla conoscenza e sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC); sul welfare e sulla salute. Queste aree, caratterizzate da processi di produzione ad alta intensità di lavoro e dalla richiesta di qualificazioni medio-alte, possono fornire opportunità di buoni lavori. Tali attività dovrebbero essere sviluppate attraverso un’espansione del ruolo del settore pubblico – includendo attività pubbliche di ricerca e sviluppo e la protezione ambientale – e attraverso nuove attività private indirizzate dalla domanda pubblica all’interno di un quadro normativo che supporti lo sviluppo di nuovi mercati dinamici. Le politiche dovrebbero focalizzarsi sullo sviluppo sostenibile di economie locali e, in tal senso, stimolare il ruolo di attività non-profit e cooperative di tipo pubblico.
Mentre i Fondi Strutturali Europei e la Banca Europea per gli Investimenti possono rivestire un ruolo importante nel finanziare questi sforzi, la realizzazione di una politica industriale europea necessita di una nuova Banca Europea per gli Investimenti Pubblici o di una Agenzia Industriale Europea, raccordate a specifiche Agenzie nazionali in ogni paese. Tale organizzazione dovrebbe rendere conto al Parlamento Europeo e avere un budget adeguato, a valere su risorse europee. Il finanziamento dovrebbe essere nell’ordine del 2% del Pil UE per un periodo di 10 anni, pari a circa 260 miliardi di euro annui. Esso potrebbe essere finanziato in diversi modi, compresa l’emissione di Eurobond; altrimenti, si potrebbe anche considerare l’ipotesi di una Banca Europea per gli Investimenti Pubblici che possa finanziarsi direttamente dalla Banca Centrale Europea; inoltre, la BCE potrebbe anche fornire finanziamenti diretti per la politica industriale alle Agenzie di spesa interessate. Queste misure potrebbero rappresentare un forte contributo per porre fine della stagnazione in Europa e, allo stesso tempo, permetterebbero di riorientare l’investimento – sia pubblico che privato – verso un nuovo modello di sviluppo sostenibile.

4. La politica sociale e la lotta alle disuguaglianze
I dati prodotti dalla stessa Commissione Europea forniscono la prova incontrovertibile del disagio sociale causato dalle politiche di austerità. A causa loro molti milioni di cittadini europei in più sono in condizione di povertà, mentre i giovani sono stati abbandonati alla disoccupazione di massa. Dato che l’ampliamento delle disuguaglianze sta diventando una fondamentale questione politica, il capitolo sulla politica sociale del memorandum di quest’anno si concentra sulla disuguaglianza. I dati del Luxemburg Income Survey (LIS) mostrano chiaramente una crescita della disuguaglianza a lungo termine in tutta la UE. Questa dinamica si può ricondurre in primo luogo alla tendenza decrescente della quota del Pil destinata al lavoro, in secondo luogo all’aumento della disuguaglianza nei redditi reali. È necessario considerare anche le disparità tra gli stati membri, drasticamente aggravate dalle politiche di austerità e dalla concentrazione degli investimenti in Germania e in alcuni dei suoi stati vicini. Anche la disuguaglianza di genere è stata aggravata dalle politiche di austerità. Nonostante il fatto che all’inizio della recessione i lavoratori di sesso maschile siano stati i più colpiti dall’aumento della disoccupazione, i successivi tagli ai servizi pubblici hanno avuto un impatto particolarmente pesante sull’occupazione femminile e sulle condizioni lavorative delle donne. Inoltre, la riduzione o la revoca dei servizi e sussidi pubblici – compresi quelli legati all’assistenza all’infanzia e alla cura degli anziani – ha avuto un effetto sproporzionato sulle donne. Sia le conseguenze estremamente avverse delle politiche di austerità, che la forte tendenza verso l’allargamento delle disuguaglianze necessitano di un forte programma di investimenti sociali. Tuttavia, un programma efficace richiederà risorse di bilancio di gran lunga maggiori di quelle attuali e dovrà essere contestualizzato in una strategia di sviluppo sostenibile che ricomprenda le dimensioni ambientali, economiche, sociali, e culturali.

5. Le politiche sul commercio e gli investimenti internazionali – il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (TTIP)
In anni recenti, la UE ha stipulato numerosi accordi commerciali bilaterali. Questa tendenza è culminata nell’annuncio, all’inizio del 2013, che UE e Stati Uniti avevano accettato di avviare negoziati per la realizzazione di un accordo commerciale bilaterale, denominato Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (TTIP). L’accordo proposto non è primariamente inteso a ridurre le poche rimanenti tariffe doganali tra i due blocchi commerciali più grandi dell’economia mondiale; l’obiettivo centrale è, piuttosto, quello di smontare e/o armonizzare la regolamentazione nei settori dell’agricoltura, della sicurezza alimentare, degli standard tecnici e di prodotto, nei servizi finanziari, nella protezione dei diritti di proprietà intellettuale, negli appalti pubblici. Anche la liberalizzazione degli investimenti e la tutela dei diritti degli investitori saranno argomenti centrali. Perfino i protagonisti dell’atlantismo indicano il TTIP come una nuova NATO economica, attraverso la quale le potenze occidentali saranno in grado di limitare l’ascesa di potenze emergenti quali la Cina o la Russia.
La Commissione europea, sulla base di studi commissionati, afferma che l’accordo genererà crescita e occupazione nell’UE. Tuttavia, la ragione economica per il TTIP è insignificante. I guadagni salariali sono stimati allo 0,5% del Pil della UE e saranno distribuiti su un periodo di transizione di almeno un decennio. Vengono sminuiti, o del tutto trascurati, effetti quali l’aumento della disoccupazione e i costi di aggiustamento necessari alla liberalizzazione del commercio. La deregolamentazione derivante dall’accordo commerciale sarà una minaccia per la salute pubblica, per i diritti del lavoro e per la protezione dei consumatori. Il meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitori e stati proposto nel trattato privilegerà i diritti degli investitori sull’autonomia della politica pubblica.
Il TTIP non è nient’altro che un attacco frontale al processo decisionale democratico europeo. Al momento, è molto incerto se l’accordo commerciale creerà un qualche beneficio economico e sociale netto ai cittadini europei. L’approccio dominante alla definizione delle politiche commerciali dovrebbe essere abbandonato e dovrebbe essere inserito in agenda un ripensamento fondamentale della politica commerciale europea. Questo dovrebbe includere anche altri accordi commerciali bilaterali, quali l’accordo CETA fra Canada ed EU, che nell’attuale versione non dovrebbe essere ratificato dal parlamento europeo.

6. Le politiche di vicinato dell’Unione Europea
Le politiche di vicinato europee verso i paesi limitrofi nell’Est europeo e nel Mediterraneo hanno contribuito, nel 2013 e nel 2014, al conflitto in Ucraina. Il Partenariato Orientale si è esplicitato nella negoziazione di accordi di associazione alla UE dei paesi dell’area ex sovietica, a eccezione della Russia. Questi accordi hanno una componente di libero scambio e un orientamento geopolitico; strumentale a entrambi i fini è il trasferimento parziale del corpus normativo comunitario ai paesi post-sovietici. Gli accordi di associazione, diretti a contrastare i forti legami economici tra la Russia e i suoi vicini, si contrappongo all’iniziativa russa di costruzione di una Unione Economica Eurasiatica. In Ucraina, la popolazione si è profondamente divisa sulla decisione se stringere relazioni più strette con la UE o con la Russia. Quando il governo ucraino ha deciso di non firmare l’accordo di associazione alla UE, sia a causa della disastrosa situazione economica, che a causa della pressione russa, è sorta una forte ondata di proteste nelle parti centrali e occidentali del paese, che ha portato alla caduta del governo ucraino. Ne è seguita la secessione della Crimea, sostenuta dalla Russia, e la creazione di un movimento separatista militare-politico nella regione del Donbas, avente collegamenti economici e culturali particolarmente forti con la Russia.
Né gli accordi di associazione con i paesi post-sovietici, né gli accordi di libero scambio con i paesi del Mediterraneo tengono conto degli squilibri nello stato di sviluppo fra la UE e il paese sottoscrittore. La liberalizzazione del commercio rischia di portare alla deindustrializzazione dei paesi post-sovietici e mediterranei, mentre l’imposizione, pur incompleta, a questi paesi dell’acquis comunitario ne riduce drasticamente lo spazio di manovra per le politiche industriali.
Le asimmetrie tra UE e regioni limitrofe sono quindi destinate ad aumentare e una diversa politica è dunque necessaria. In primo luogo, gli accordi di libero scambio globali e approfonditi (DCFTA) promossi dalla UE dovrebbero essere sostituiti da accordi di cooperazione mutualmente vantaggiosi, che preservino spazi per le politiche economiche degli altri paesi. In secondo luogo, la rilevanza fondamentale per la UE delle questioni energetiche emerge chiaramente sia nel Partenariato Orientale che nelle politiche UE rivolte ai paesi del Mediterraneo; la Ue dovrebbe cercare di ridurre la propria dipendenza dalle importazioni energetiche, riducendo la propria intensità energetica e promuovendo le energie rinnovabili. Infine, le politiche estere europee si stanno militarizzando e il conflitto in Ucraina ha portato a una più stretta interazione tra le strutture europee e NATO. Questa tendenza dovrebbe essere invertita e si dovrebbe invece rafforzare la capacità di risoluzione pacifica dei conflitti.

Il Rapporto è scaricabile gratis qui: