Per rifondare l’Europa su basi più democratiche sono necessarie rotture decisive. L’introduzione all’ultimo libro degli Economistes Atterrés, “Cambiare l’Europa”
Cosa rimane dell’ideale europeo? Cosa sono diventate le speranze dei popoli europei? L’Europa sta morendo, l’Europa è morta!
A metà 2013 la situazione economica dell’Europa è più che preoccupante: crescita zero nel 2012 e nel 2013, tasso di disoccupazione superiore al 12%.
L’Europa non è in grado di mettere in moto né una strategia di breve termine per uscire dalla depressione né una strategia di lungo termine per definire un nuovo sentiero di crescita che possa avviare le necessarie transizioni economiche, ambientali e sociali.
L’Euro, il più bel successo europeo secondo i suoi promotori, è fragile, minacciato dalle disparità della zona, dalla speculazione finanziaria, dall’assenza di solidarietà tra Paesi membri e di una via di uscita coerente dalla crisi.
La crisi attuale è stata in primo luogo una crisi bancaria e finanziaria, causata da innovazioni rischiose in una situazione di liberalizzazione e di globalizzazione finanziaria senza controllo. I mercati finanziari si sono manifestati rapaci, ciechi e instabili. La globalizzazione finanziaria aveva permesso la crescita di squilibri che sono scoppiati. La crisi è causata anche da strategie macroeconomiche insostenibili messe in atto dai paesi neo-mercantilisti che fondano la crescita sull’accumulo di surplus commerciali “esterni” dovuti all’esportazione e non al consumo interno (Cina, Giappone, Germania e paesi del Nord-Europa) ma anche da paesi (anglosassoni) dove le politiche monetarie hanno lasciato aumentare l’indebitamento privato o le bolle finanziarie e immobiliari. Si tratta di una crisi profonda della globalizzazione liberista e finanziaria. Ma è anche una crisi ambientale che manifesta la fine di un modello di crescita fondato sul consumo intenso di risorse naturali. Infine è una crisi sociale: distruzione di occupazione, crescita della disoccupazione, esplosione delle disuguaglianze, aumento della povertà e della precarietà, indebolimento del welfare e dei servizi pubblici.
Questa crisi generale multidimensionale avrebbe richiesto una risposta forte da parte dei governi per ridurre lo spazio della finanza e la dipendenza all’indebitamento privato o pubblico, per ri-orientare l’apparato produttivo e per avviare con decisione la “transizione ecologica”, per elaborare una strategia macroeconomica che avesse come obiettivo primario il pieno impiego. Tale strategia avrebbe dovuto mirare a un aumento delle domande interne attraverso l’aumento degli stipendi e delle prestazioni del welfare. Insomma un riequilibrio tra i redditi da capitale e quelli da lavoro nella direzione di una riduzione delle disuguaglianze sociali.
Ma le autorità europee hanno rifiutato qualsiasi ripensamento della loro strategia. Una strategia che si articola attorno a 4 componenti: ridurre le competenze degli Stati per concentrarle nelle mani di poteri europei non eletti; bloccare ogni autonomia dei budget nazionali; ridurre le spese pubbliche e in particolare quelle sociali; cercare la crescita attraverso riforme strutturali di stampo liberista contrassegnate da una crescente precarietà del mercato del lavoro. Come prevedibile questa strategia è stata un fallimento: l’Ue non è uscita dalla depressione, la crescita rimane negativa nel 2012-2013 e i tassi di debito pubblico di molti Paesi membri sono aumentati soprattutto nei Paesi che maggiormente hanno promosso le politiche di austerity (Grecia, Portogallo, Spagna).
Per la zona Euro, la situazione è preoccupante. Questa crisi è il primo choc importante che affronta. È un test della sua organizzazione. I risultati sono negativi. Prima della crisi finanziaria del 2008, già le istituzioni europee si erano manifestate incapaci di attuare una strategia macroeconomica coerente: infatti una politica monetaria unica applicata a Paesi dalla situazione economica diversa aveva accentuato la disparità tra paesi settentrionali (dalla crescita debole ma con surplus commerciali esteri crescenti) e i paesi meridionali, la cui crescita gonfiava i deficit esteri. La mancata garanzia dei debiti pubblici dei Paesi membri da parte della Bce, cosi come è formalmente scritta nei trattati europei, e la mancata solidarietà finanziaria tra i Paesi della zona si sono rivelati insostenibili con la crisi. Secondo i trattati infatti la Banca Centrale Europea (Bce) non può finanziare direttamente gli Stati e dunque la solidarietà finanziaria tra Stati membri è vietata. Così ogni Stato membro deve prendere a prestito sui mercati finanziari e non può far ricorso a una banca centrale “prestatrice in ultima istanza”. I Paesi della zona Euro non controllano più i loro tassi di interesse e sono sottomessi ai mercati finanziari. Quattro Paesi membri (Grecia, Irlanda, Portogallo e Cipro) sono sotto tutela. Altri due (Italia e Spagna) subiscono tassi d’interessi eccessivi. La crisi finanziaria si è allora estesa in una crisi dei debiti pubblici della zona euro, che ha legittimato drastiche politiche di austerity che hanno fatto precipitare l’intera Europa nel circolo vizioso delle politiche recessive.
Oggi si confrontano due visioni dell’Europa:
Una visione che intende promuovere un modello specifico di società, un modello sociale europeo, poggiato su un livello di protezione sociale elevato, di redistribuzione, di regolazione economica, modello da indirizzare verso la transizione ecologica.
Una visione, portata dalle classi dirigenti, nella quale l’Europa deve portare i Paesi europei verso il modello liberista, l’unico adeguato alla globalizzazione al prezzo di una riduzione della spesa pubblica, di “riforme strutturali” drastiche e della riduzione del “costo del lavoro”. Tina, there is not alternative, è oggi il motto dell’offensiva liberista.
Purtroppo è questa seconda versione che predomina oggi. L’obiettivo delle istanze europee è limitare i poteri degli Stati nazionali e concentrare quei poteri in istanze (europee o nazionali) indipendenti dai poteri democraticamente eletti. Cosi la Bce e la Commissione europea sono in grado di dirigere l’Europa anche in modo coatto verso il modello liberista. Così i programmi delle riforme strutturali mirano a liberalizzare i mercati dei beni e servizi, a indebolire il diritto del lavoro e a ridurre la spesa pubblica e sociale. La Commissione esercita una pressione sui Paesi membri per introdurre quelle riforme impopolari, permettendo ai governi di evocare quella pressione per imporle. Il rispetto dei principi della concorrenza ovvero delle “quattro libertà” avanzate dall’Atto Unico del 1986 (libertà di circolazione delle merci e dei servizi, dei capitali, delle persone, libertà di insediamento delle aziende e dei lavoratori) viene usato per costringere gli Stati a “liberalizzare” il mercato dei beni e servizi e quello del lavoro, cosi come a ridurre la fiscalità sui capitali e sulle aziende.
I ceti dirigenti europei usano cosi la crisi per promuovere la loro visione dell’Europa. L’obiettivo è trasferire tutti i poteri a istanze tecnocratiche europee indipendenti dai poteri eletti, a scapito del livello nazionale sottomesso al voto democratico, e usare questi poteri per erodere il modello sociale europeo. Così hanno imposto politiche di competitività e di riduzione dei deficit pubblici, passando attraverso tagli alla spesa pubblica e sociale che sta aggravando la recessione in Europa. Si sono rifiutati di garantire i debiti pubblici, attuando una solidarietà limitata a strette condizioni. Hanno inserito le politiche nazionali in vincoli paralizzanti con la pretesa che le riforme liberiste avrebbero sostenuto la crescita e compensato le politiche di austerity. Di fatto queste politiche hanno generato una crescita globalmente negativa in Europa: a causa delle crescenti disparità, certi paesi (Grecia, Portogallo e Spagna) affondano nella depressione economica e nella miseria.
Abbiamo concepito questo libro come un insieme di proposte alternative a quelle impostazioni dannose, proposte in grado di uscire dalla crisi verso l’alto. La maggior parte delle politiche finora prevalenti ci hanno portato in una strada senza uscita e vanno rimosse. Cosi molti dei pilastri istituzionali sui quali è stata costruita l’Ue e la zona Euro vanno rifondati. (…)
È la ragione per la quale il libro si apre sulla prospettiva di nuove politiche. S’impone particolarmente una politica diretta alla “transizione ecologica”: questa scelta coinvolge tra l’altro la rinascita in Europa di una “politica industriale” di tipo nuovo. La politica industriale, assente da decenni, va ormai mirata alla riconversione di attività per renderle sostenibili, campo in cui l’Europa potrebbe avere un ruolo di indirizzo. Per ciò che riguarda l’occupazione, l’uscita dalla depressione esige insieme l’uscita dall’austerity, una politica industriale audace, la lotta alla precarietà occupazionale, uno sforzo di formazione per rispondere ai bisogni di qualità, una rivalorizzazione dello status dei dipendenti nelle aziende e una strategia di riduzione del tempo lavorativo. L’Europa deve imporre misure decise a favore dell’uguaglianza tra donne e uomini in termini di occupazione, di carriera e di stipendi.
Negli anni recenti, l’assenza di un coordinamento fiscale ha permesso alle grandi aziende e alle classi dominanti di imporre agli Stati di lanciarsi in una costosa concorrenza fiscale. Anche lì è necessaria un cambio di rotta: l’Europa deve permettere a ogni paese di tassare i suoi residenti e le sue aziende, dunque bisogna invertire la contro-rivoluzione liberista ed instaurare ovunque almeno tassi minimi di tassazione sui redditi e sui patrimoni alti, cancellare i “paradisi fiscali” e i meccanismi di ottimizzazione fiscale facendo al contempo salire la fiscalità ecologica.
La crisi ha di nuovo messo in luce la legittimità economica e sociale della spesa pubblica e del Welfare. Lo Stato sociale rimane vivo in Europa: il 25% dell’occupazione è pubblica, il Welfare distribuisce il 30 % del reddito delle famiglie. La costruzione europea va inserita in una strategia di assestamento e sviluppo del modello sociale europeo. L’Europa non deve più imporre ai popoli la concorrenza tra di loro attraverso l’abbassamento della spesa sociale. L’Europa deve rispettare le peculiarità nazionali, ma anche darsi obiettivi precisi in termini di tasso di povertà e di disoccupazione, di reddito minimo, di livello delle pensioni e dei sussidi di disoccupazione. Va anche affermato l’universalismo dell’assistenza sanitaria.
La Bce, è vero, ha evitato l’esplosione dell’Euro, ma prima della crisi non ha saputo nè prevedere nè allertare sui rischi della bolla finanziaria, e nemmeno ha saputo impedire la speculazione contro i paesi meridionali della zona Euro; la Bce invece va oltre il suo ruolo condizionando l’aiuto a quei Paesi in difficoltà a patto che s’impegnino in riforme liberiste. Insomma la Bce deve rivedere il suo ruolo e deve essere democratizzata. Il suo consiglio deve integrare rappresentanti dell’economia reale, in particolare il mondo sindacale. Vanno garantite i debiti pubblici. La missione va estesa al sostegno alla crescita e all’occupazione. Deve avere l’obiettivo di ridurre il peso della finanza e della speculazione nell’economia. Secondo il progetto dell’unione bancaria, tutte le banche europee dovrebbero passare sotto il controllo della Bce. Ma non è assicurato che l’Europa attuerebbe la tassa (“Tobin”) sulle transazioni finanziarie e la separazione delle banche di deposito da quelle di affari. Secondo noi, le banche devono essere di dimensione limitata e orientate verso la distribuzione di credito alle famiglie, alle aziende e agli enti locali. Non dovrebbero poter speculare né prestare a speculatori. Cosi sarebbe garantita la solidità finanziaria.
Le trasformazioni auspicabili delle politiche pubbliche, qualsiasi sia la loro importanza, potranno verificarsi solo se gli attuali trattati saranno oggetto di rotture istituzionali. Non è un compito impossibile. La costituzione dell’Europa è già stata modificata parecchie volte. Dal Trattato di Roma (1958), diversi cambiamenti importanti sono stati attuati: l’Atto Unico (1986), i Trattati di Maastricht (1992) e di Amsterdam (1997), quello di Lisbona (2005) e per finire il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance (TSCG, 2012), che in pochi articoli ha scombussolato i compromessi stabiliti fino ad allora imponendo il principio dell’equilibrio di bilancio.
Riforme dei Trattati sono dunque possibili. Sono anche necessarie: si tratta di tornare alle disposizioni che costituiscono l’attuale impianto liberista (statuto della Bce, regola di equilibrio di bilancio, assenza di coordinamento macroeconomico) per stabilire principi virtuosi e durevoli: una banca centrale con un altro ruolo, principi di solidarietà in particolare nel campo dei budget pubblici, un coordinamento macroeconomico orientato al sostegno dell’attività e dell’impiego, una politica di lotta al dumping fiscale e sociale, una strategia industriale ed ecologica.
Scrivendo questo libro, non abbiamo voluto mettere insieme un insieme di soluzioni “pronte all’uso”. Al contrario, fedeli al nostro metodo, abbiamo rispettato le divergenze fra di noi. Su due punti importanti, il dibattito prosegue tra di noi come tra i cittadini europei.
Da una parte, si tratta dell’evoluzione istituzionale dell’Europa: bisogna andare verso una Europa federale? Rispondere alla domanda “Cosa fare dell’Europa?” ci impegna ad affrontare di petto questa domanda importante. L’ultimo capitolo dedicato a questa domanda conduce a una risposta che, anche se non condivisa da tutti gli autori del libro, è netta. Quel capitolo propone infatti di passare da un “federalismo tutelare” rinforzato con la crisi a un “federalismo democratico”. Il primo federalismo oggi mira a trasferire più poteri a istituzioni europee indipendenti dai voti democratici e convertite al liberismo. Il secondo federalismo mirerà al contrario a un trasferimento di sovranità al livello europeo che rispetti la natura democratica dell’Europa con un governo europeo proveniente dal suffragio universale. Questo “federalismo democratico” permetterebbe una “pianificazione federale” con un budget europeo rinforzato ed attuando politiche industriali e sociali attive.
Se alcuni degli autori del libro condividono l’idea che stiamo andando verso un “federalismo tutelare”, molti di loro dubitano invece che la soluzione sia un maggior federalismo pur “democratico”. Ne dubitano perché i rapporti di forza attuali non lasciano intravedere una tale svolta. Questi “Atterrés” pensano dunque che bisogna opporsi ad ogni potenziamento del federalismo, almeno temporaneamente; ridare poteri e margini di manovra agli Stati nazionali e ai popoli. Per loro, questa impostazione di resistenza sarebbe in grado di preparare meglio la costruzione futura di una Europa democratica, sociale, solidale e ecologica. Insomma nessun rafforzamento dell’integrazione istituzionale andrebbe proposto, prima che il progetto europeo sia rifondato compiendo una rottura netta col liberismo e tornando popolare in quanto portatore di sviluppo, di progresso sociale e di solidarietà.
Dall’altra parte, l’Euro è un altro tema di divergenze. Tutti gli autori del libro pensano che l’Euro sia stato costruito su basi istituzionali fragili, dato che la Bce non può garantire i debiti pubblici, mentre il controllo del loro finanziamento viene affidato ai mercati finanziari e alla speculazione. Solo a causa di queste carenze istituzionali la crisi del debito pubblico ha potuto manifestarsi in un modo catastrofico come in Europa. Inoltre tutti gli autori del libro vedono le misure di austerity imposte dall’Un one ai Paesi membri come controproducenti. Non solo perché impongono sacrifici immensi ai popoli ma anche perché questi sacrifici sono inutili: le politiche di austerità generano un circolo vizioso tra recessione economica e austerità e non consentono il ritorno agli equilibri promessi, contribuendo a scavare, al contrario, squilibri futuri. Cosa fare allora dell’Euro? Alcuni sostengono che le disfunzioni dell’Euro e gli squilibri accumulati impongono di pensare a una dissoluzione dell’Euro o almeno a una uscita di certi Paesi o gruppi di Paesi. La permanenza dell’Euro nella sua versione attuale sarebbe un mezzo sicuro per distruggere il modello sociale e portare l’Europa verso il declino. L’uscita potrebbe essere controllata e contribuire a una nuova organizzazione monetaria (ritorno a valute nazionali con margini di fluttuazione, convivenza di valute nazionali e di un “Euro esterno”). L’uscita dell’Euro andrebbe accompagnata da un controllo stretto della finanza e dei movimenti di capitali per bloccare l’inevitabile speculazione. Altri “Atterrés” affermano invece che nonostante il giogo dell’appartenenza alla zona Euro una riforma del funzionamento sia ancora oggi la soluzione migliore. Ai rischi finanziari di una esplosione si aggiungerebbe un fallimento simbolico grave della costruzione europea. I Paesi europei sarebbero ancora più sottomessi alla minaccia dei mercati finanziari e condannati a farsi una maggior concorrenza con il rischio di riduzioni salariali. Perderebbero ogni capacità di influenzare l’evoluzione economica mondiale e di promuovere il loro modello sociale. Dunque per questi “Atterrés” i Paesi della zona Euro sono condannati alla moneta unica.
Siamo uniti nella convinzione che, per rifondare l’Europa, sono necessarie rotture decisive. Ma non abbiamo nascosto le nostre divergenze nell’analisi e nelle proposte. Vogliamo proporre al lettore un insieme di pareri su temi essenziali per il futuro dell’Europa, mettendo in luce le condizioni di attuazione e gli effetti attesi delle politiche proposte. (…)
Il testo pubblicato costituisce l’introduzione del libro “Cambiare l’Europa” dagli Economistes Atterrés, 2013
(Traduzione di Jean-Olivier Mallet)