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Politiche per la casa, luogo di lockdown

L’Italia che vogliamo/La crisi abitativa, fenomeno mondiale, in Italia problema negato e mai affrontato, con 140 mila sfratti pendenti nel 2018, ora rimbalza nella sua gravità con l’emergenza Covid-19. Una proposta a partire dal raffronto con quanto già realizzato nel dopoguerra.

 

Conosciamo noi stessi solo fin dove/siamo stati messi alla prova.

                                                                                Maria Wisława Anna Szymborska 

“Io resto a casa, andrà tutto bene”, è lo slogan che più è rimbalzato in questi mesi di lockdown su ogni mezzo di comunicazione fino a raggiungere persino le finestre delle nostre città. La casa è entrata così di prepotenza nel discorso pubblico: nido protettivo in cui rinchiudersi e stare bene. Ma è davvero così? Quante sono in Italia le persone senza casa o costrette a vivere in condizioni inadeguate? Quanti, in questi giorni, si stanno chiedendo “riuscirò a pagare l’affitto o la rata del mutuo?”. La crisi abitativa è fenomeno mondiale, in Italia problema negato e mai affrontato. Qual è lo stato della questione abitativa del nostro Paese e come la crisi in corso aggraverà questo problema? Quali politiche può avviare l’istituzione pubblica per garantire ai cittadini una casa dove vivere bene? È urgente aprire un confronto su questi temi per costruire insieme nuove risposte a un diritto fondamentale. Una proposta potrebbe essere elaborata a partire dal raffronto con quanto già realizzato nel dopoguerra, momento storico completamente differente, ma con cui il presente condivide la necessità di una nuova ricostruzione economica, sociale, di convivenza del paese.

  1. Il Piano Ina-Casa: un’altra politica per il diritto alla casa è stata possibile

Nel tempo di un ampio dibattito culturale e politico, quando le condizioni abitative delle classi popolari erano indagate e raccontate – nella memoria collettiva è ancora presente la scena dello sbarco di Rocco e i suoi fratelli (1960) alla stazione centrale di Milano – tra il 1949 e il 1963, viene realizzato in Italia il più importante intervento pubblico in materia di diritto alla casa, il piano Ina-Casa. L’iniziativa fu promossa da Amilcare Fanfani, all’epoca ministro del Lavoro e della Previdenza sociale, con il triplice obiettivo di incrementare i livelli occupazionali del paese, costruire case per operai e impiegati, intervenire sulla progettazione e sullo sviluppo della nuova città post-bellica. Grazie a una struttura di gestione complessa e centralizzata ma agile, basata sul coinvolgimento di professionisti illustri e competenti, e sostenuta da un consistente finanziamento pubblico, in meno di 15 anni vennero realizzati oltre 350mila alloggi, organizzati in quartieri pubblici ben pianificati e vivibili, che migliorarono le condizione abitative delle tante famiglie che si spostavano nelle grandi città per lavorare.
L’intervento pubblico non superò però mai il 25% delle costruzioni realizzate e contradditorio fu il reperimento delle aree di edificazione: l’aumento dell’incidenza del costo delle aree sull’investimento complessivo delle case determinò la scelta, anche nell’ambito del Piano, di costruire in molti casi in zone periferiche, lontane dalla città, nel più generale contesto di incontrollato sviluppo urbano. La libertà lasciata all’iniziativa privata, giustificata dall’ideologia del diritto alla casa in proprietà sostenuta dalla Democrazia Cristiana, il mancato impiego di strumenti di controllo e gestione dei territori agevolarono processi di speculazione edilizia e di abusivismo con un conseguente drammatico stravolgimento del paesaggio rurale e urbano. L’impostazione data nel dopoguerra allo sviluppo economico e sociale dell’Italia favorì così l’arricchimento e la crescita della rendita immobiliare, che lungo tutto il ’900 fino ad oggi, grazie anche alla vischiosa alleanza con il capitale finanziario, ha potuto incrementare e consolidare il proprio potere.

  1. Il dispiegamento ideologico dei dati: l’Italia è un paese di proprietari, dove tutto va bene. Ma per chi?

Se nel dopoguerra l’intervento delle istituzioni pubbliche nasceva in connessione con un dibattito culturale e politico ricco, attraversato da forti scontri e alleanze di interessi, la situazione attuale è all’opposto. Il dibattito è azzerato, la realtà poco indagata e conosciuta, il racconto è astratto, sovradeterminato da interessi di parte, articolato in modo da marginalizzare discorsi differenti. È facile riscontrare come i mezzi di informazione tendano ad approcciare il problema abitativo esclusivamente con articoli e notizie sull’andamento dei mercati immobiliari, forti del pregiudizio secondo cui l’Italia è un paese di proprietari e intrisi dell’ideologia per cui la casa è un investimento sicuro. Il tema è prevalentemente affrontato a partire dai comunicati stampa di prestigiosi istituti di ricerca, quali Nomisma o Scenari Immobiliari, i quali ogni anno promuovono analisi e ricerche molto costose, rivolte agli investitori immobiliari, portatori di interessi e posizioni evidentemente di parte. Deboli sono invece le analisi sul tema divulgate dai centri studi delle istituzioni pubbliche: i dati sono spesso parziali e gli obiettivi non chiari, segno di quanto le strutture dello Stato abbiano una conoscenza superficiale e carente della realtà. In primo luogo i dati del Rapporto sugli immobili in Italia, curato da MEF e Agenzia delle Entrate, riguardano solamente quanto è dichiarato al fisco dalle persone fisiche. Gli estensori del rapporto non sono stati in grado di recuperare le informazioni relative all’utilizzo di 4,5 milioni di immobili presenti nelle dichiarazione dei redditi di Società, enti, associazioni. Imprecisa è anche la conoscenza della consistenza del patrimonio immobiliare presente su tutto il territorio, assente la descrizione della sua qualità. L’unica certezza è che l’Italia contiene più immobili che persone.
Secondo i dati dell’ultimo censimento Istat, relativo al 2011, risulterebbero oltre 7 milioni di abitazioni non occupate, sparse su tutto il territorio italiano. Nel 2018 le famiglie che risiedono in una casa di proprietà sono 19 milioni, ossia il 70% del numero totale. Paga un mutuo il 19,2% delle famiglie in proprietà, dato in costante crescita (nel 2008 la percentuale rilevata era pari al 13%). L’indagine è però relativa solamente ai nuclei residenti. Rimangono escluse le centinaia di migliaia di immigrati che vivono e lavorano stabilmente in Italia ma senza un permesso di soggiorno e tutte le persone che non riescono più a soddisfare i criteri imposti dal 2014 dalla Legge 80 per ottenere la residenza. La norma ha infatti subordinato l’iscrizione anagrafica alla dimostrazione del titolo di godimento dell’abitazione in cui si dichiara di vivere, escludendo da diritti fondamentali tantissime persone, senza casa, sfrattati, inquilini in nero, occupanti abusivi. Il dato non tiene conto inoltre della condizione dei figli che, pur avendo costituito un proprio nucleo, continuano a vivere nella casa dei genitori, a causa di redditi troppo bassi. Poco approfonditi risultano anche i dati relativi al valore della ricchezza patrimoniale posseduta dagli italiani. Il dato è costruito sui valori medi delle abitazioni stabiliti dal mercato immobiliare ed è spesso utilizzato per rappresentare lo stato di benessere della popolazione: non vengono però proposti dati e riflessioni rispetto alla concentrazione delle proprietà, all’utilizzo e alla diffusione sul territorio del patrimonio, né è mai problematizzata la ricaduta reale di questi calcoli sulla vita delle famiglie. Secondo il Rapporto curato da Osservatorio mercato immobiliare, Agenzia delle Entrate in collaborazione con l’Associazione delle banche italiane, il mercato delle compravendite immobiliari è in costante crescita in termini di volume e fatturato complessivo (quest’ultimo dato è però presentato come una stima di massima), in particolare nel nord Italia e nelle grandi città, dove vengono vendute e acquistate le abitazioni con i valori maggiori. La metà delle compravendite di abitazioni tra persone fisiche è stata sostenuta da mutui ipotecari, fenomeno presentato come positivo e in espansione. I diversi rapporti, su cui a cascata si costruiscono le analisi degli esperti fino alla divulgazione proposta dai mezzi di informazione, poco però ci dicono su come questa espansione avvenga e a quali costi sociali.
Nel 2018 risulterebbero 140 mila le esecuzioni di abitazioni pendenti, secondo le cifre diffuse dalle società che si occupano proprio di questa specifica tipologia di compravendita: migliaia di famiglie che si ritrovano senza una casa dove vivere e contemporaneamente ancora debitrici nei confronti della banca della differenza tra mutuo residuo e quanto l’ente creditore ha recuperato dalla vendita all’asta. Un segmento del mercato molto articolato e agguerrito, visto che in pochi anni le Istituzioni pubbliche sono intervenute direttamente per velocizzare i tempi di liberazione degli immobili e agevolare le vendite, sostituendo l’imposta di registro del 9% con una tassa fissa di 200 euro per le imprese che rivendono l’immobile entro 5 anni. Mancano inoltre dati e riflessioni sulle risorse pubbliche dirette investite per il sostegno all’acquisto, come per esempio il Fondo di garanzia Prima casa, gestito da Consap, con condizioni molto favorevoli per gli istituti bancari. 

  1. L’Istituzione pubblica al servizio del mercato: il diritto alla casa negato causa o conseguenza della povertà? 

La presentazione di un mercato autosufficiente, indebolito dalla crisi del 2007, ma in costante ripresa ed espansione, va però a infrangersi contro le stime della diffusione della povertà e delle disuguaglianze nel nostro paese. In Italia il 20% delle famiglie è a rischio povertà e tra queste quasi 2milioni non riescono a soddisfare bisogni essenziali. L’impoverimento, anche quello più grave, è diffuso tra la popolazione occupata e in crescita nei territori più ricchi. L’Istat rileva come la metà delle famiglie in povertà assoluta viva in affitto e come il costo medio del canone di locazione arrivi a pesare sul bilancio famigliare per oltre il 35%. Dal 1998, a seguito dell’abolizione dell’equo canone, gli affitti sono sempre più alti, soprattutto nelle grandi città. Nella bellissima inchiesta, Sfrattati, premio Pulitzer 2017, Matthew Desmond, professore di sociologia dellUniversità di Princeton, mostra come la precarietà abitativa e lo sfratto non siano conseguenze della povertà ma ne siano la causa principale. Se l’Istituzione pubblica intervenisse per garantire un’abitazione dignitosa a un costo proporzionato, il problema della povertà si ridurrebbe drasticamente, garantendo alle persone un punto fermo da cui poter riprogettare la propria vita: in questo modo le persone non sarebbero costrette ad accettare soluzioni abitative malsane, precarie e inadeguate; non sarebbero costrette ad accettare lavori equiparabili allo sfruttamento o a inserirsi nei piani di assistenza sociale, né sarebbero obbligate, pur di onorare l’affitto, a ridurre qualunque altra spesa, dall’alimentazione, alla salute, all’istruzione. Chi ha condizioni lavorative precarie non ha inoltre la possibilità di accedere agli alloggi disponibili sul mercato con prezzi più contenuti e in buone condizioni manutentive, per i quali i proprietari richiedono garanzie simili a quelle imposte dagli istituti di credito. I poveri sono così i primi sostenitori della rendita immobiliare in quanto, non solo pagano affitti gonfiati dal rapporto di forza a loro sfavore, ma danno valore a immobili in pessime condizioni manutentive e in zone periferiche, che altrimenti rimarrebbero vuoti, senza alcuna utilità.
In Italia nel 2018 sono state avviate 56 mila nuove procedure di sfratto, quasi tutte per morosità, e oltre 30 mila famiglie sono state messe fuori dalla propria casa con l’intervento della forza pubblica. A queste si aggiungono le famiglie che hanno lasciato volontariamente la propria casa, trovandone in affitto un’altra a un prezzo inferiore (più in periferia, con una metratura inferiore, in condizioni manutentive peggiori) o, nella maggioranza dei casi, andando in subaffitto o in situazioni di nero. A questi drammatici numeri, si aggiungono 50 mila persone che vivono nei dormitori pubblici o per strada. L’Istituzione Pubblica ha non solo ignorato ma causato precarietà abitativa, povertà, immobilismo sociale, senza preoccuparsi dei conseguenti costi sociali, promuovendo politiche finalizzate al sostegno del mercato, abbracciando l’ideologia secondo cui ampliando la ricchezza a cascata ne avrebbero beneficiato tutti, anche le classi più deboli. Ha inoltre contrastato il confronto con le organizzazioni sindacali degli inquilini, i comitati degli abitanti, i movimenti per la casa, che dal basso svolgono una fondamentale azione di tutela, solidarietà, ed elaborazione di proposte. Solo il 2% del patrimonio residenziale italiano è costituito da edilizia pubblica; in gran parte venduto, oggi non se ne costruisce più. I caseggiati rimasti sono in condizioni manutentive spesso disastrose, con percentuali di sfitto altissime, quartieri diventati in troppi casi ghetti, mentre le richieste di assegnazione di un alloggio pubblico continuano ad essere oltre 650 mila.
Agli inizi degli anni Duemila la mancanza di una linea di finanziamento diretta per le politiche abitative (nel 1998 è stata abolita la trattenuta ex Gescal, in carico a lavoratori dipendenti e aziende) e le scelte di contenimento della spesa pubblica hanno giustificato la necessità di coinvolgere anche soggetti finanziari. Nel 2009 viene istituito il Fondo Investimenti per l’Abitare, gestito da Cassa e Depositi Prestiti Investimenti: un fondo immobiliare di oltre 2miliardi costituito da risorse pubbliche e, in minor parte, private con il compito di costruire nei vari territori, attraverso l’attivazione di fondi locali, 20mila alloggi di edilizia sociale (a canone sociale, concordato, in patto a futura vendita), garantendo una redditività, contenuta ma certa, ai contraenti. L’incapacità dell’Istituzione Pubblica nel mantenere la regia dell’intervento è stata così palese che dopo dieci anni non esiste una ricerca dei risultati raggiunti che renda conto di costi, criteri e raggiungimento degli obiettivi. Gli ultimi dati forniti dal ministero risalgono al 2015 e parlano di 8 mila alloggi in programma, di cui circa 3mila assegnati. Le uniche scarne informazioni arrivano dagli stessi soggetti attuatori, ben divulgate e sostenute da convegni e studi specifici, realizzati in collaborazione con ambiti di ricerca accademica e privata in un dispositivo in cui la sovrapposizione dei due mondi, dell’Housing Sociale e della ricerca, rende difficile discernere ruoli, interessi, posizionamenti. 

  1. Il marketing della città come strategia per dissimulare e distogliere l’attenzione da disuguaglianze e conflitti: l’esempio del Modello Milano

 L’Housing Sociale ha assunto una importanza retorica e comunicativa importante a tal punto da essere stato promosso nell’ultima variante del Piano di Governo del Territorio della città di Milano a politica cardine nel dare una casa a chi non può accedere al mercato privato, in sostituzione dell’edilizia a canone sociale, non solo marginalizzata e azzerata, ma oggetto di ulteriori piani di valorizzazione. Una scelta politica raccontata come capace di riequilibrare il sostegno fornito ai progetti di sviluppo immobiliare più esclusivi, ma che andrà ad aggravare i meccanismi di espulsione dei lavoratori fino al ceto medio e che renderà ancora più aspra e drammatica l’emergenza abitativa degli strati sociali più deboli e precari, alla base di molte attività produttive della città, quali la ristorazione, la logistica, il turismo, la cura. Per mantenere la redditività degli interventi l’Housing Sociale propone affitti di poco inferiori a quanto offerto dal mercato libero, pertanto non il linea con le reali capacità economiche di tanti milanesi.
L’obiettivo del Modello Milano non sembra quindi essere quello di costruire una città in cui possano continuare a vivere anche coloro che partecipano in basso alla produzione della ricchezza della città, ma piuttosto solamente quello di dare un’immagine di inclusività all’esterno. Danilo Montaldi, in Milano, Corea, raccontava come alla fine degli anni cinquanta 4 mila persone consumassero i loro pasti alle mense pubbliche. L’inchiesta, condotta insieme con Franco Alasia e incoraggiata da Danilo Dolci, indagava le drammatiche condizioni abitative e di vita degli immigrati nel milanese, in piena espansione industriale, attraverso la raccolta di biografie di uomini e donne di diverse età e provenienze. Oggi, in piena emergenza sanitaria, il Comune di Milano dichiara di «servire 10 mila cittadini con pacchi alimentari costruiti in base alle esigenze della famiglia», adulti e bambini, cioè, che non hanno nulla da mangiare. Contemporaneamente 35 mila persone, in meno di due settimane, hanno fatto richiesta on line dei buoni spesa finanziati dal governo. Numeri incredibili, sufficienti a mostrare su quanta povertà e disuguaglianza sia fondata la città più ricca di Italia, ma riassorbiti nel discorso pubblico solo come esempio positivo della solidarietà ambrosiana. 

  1. La pandemia Covid-19 e l’accelerazione della crisi: il problema della questione abitativa non si potrà più mascherare. Rimettere al centro l’edilizia pubblica

Si può rintracciare il medesimo meccanismo anche nella distanza tra il profluvio di commenti, analisi, dissertazioni dello slogan “io resto a casa” e come il problema abitativo sia stato affrontato dal Governo. L’unico provvedimento veramente rilevante introdotto nei decreti approvati sono stati il blocco di sfratti ed esecuzioni immobiliari fino a settembre e la sospensione delle rate dei mutui. Solo a seguito delle pressioni dei Sindacati Inquilini sono state sbloccate risorse per il fondo sostegno affitto e ne sono state promesse di aggiuntive. Misure necessarie per tamponare i primi mesi di lockdown, ma insufficienti se non verranno poste nuove regole al meccanismo degli sfratti e se non verrà avviata una politica abitativa di rottura rispetto al passato. Lo shock causato dalla crisi sull’economia reale inizia ora a dispiegare la sua potenza. Le previsioni diffuse dall’OIL sulla diminuzione dei posti di lavoro nel mondo sono terrorizzanti, così come la reattività dei capitali industriali, finanziari e immobiliari nel premere sulle Istituzioni affinché le inevitabili perdite non riguardino i loro bilanci. L’allentamento del patto di stabilità e l’inevitabile compito che lo Stato deve avere nell’avvio e nella gestione della ripartenza, nel contesto dello scenario europeo in definizione, investono la politica di un ruolo cruciale: decidere quale ricostruzione. Se riconfermare il modello attuale o intraprendere una nuova strada per un’Italia, giusta, in salute e sostenibile, come sostenuto dall’appello di Sbilanciamoci!.
Le politiche abitative riguardano come viviamo e vorremmo vivere, secondo quali forme di convivenza e comunità, in relazione all’ambiente, alla tutela del paesaggio, al rapporto tra grandi città e resto del paese. Dovremmo insieme, sindacati inquilini, comitati di abitanti, gruppi che ogni giorno nei differenti territori resistono contro esclusione, sfratti e promuovono dal basso forme di tutela e di mutuo aiuto, riuscire a superare i nostri contesti e confini identitari per riportare le condizioni di vita reali delle persone al centro del dibattito politico di questo paese. È necessaria prima di tutto una presa di coscienza collettiva di quanto il diritto a una casa a un costo accessibile sia oggi negato a causa di scelte politiche che favoriscono solo il mercato e di quanto sia menzognero il racconto che tanto gli italiani una casa ce l’hanno.
Oggi, settant’anni dopo, è perciò ancora attuale la proposta di un nuovo Piano Casa, a regia pubblica, che abbandoni le logiche estemporanee dei bandi fin qui mal utilizzati, ma si basi su un modello che riavvicini politiche urbane e abitative, in un ricontrattato rapporto tra Stato, Regioni, enti locali. La realizzazione di alloggi di alta qualità costruttiva ed energetica, a ridotto impatto ambientale, permetterebbe di 1) creare nuovi posti di lavoro, anche altamente specializzati; 2) dare una casa a un costo accessibile a tante famiglie, a partire da quelle più povere, liberando così parte delle risorse oggi bloccate in affitti e mutui sproporzionati; 3) creare quartieri vivibili e sostenibili. Permetterebbe inoltre di ridare finalità sociali alle aree dismesse delle città, sottraendole in questo modo a logiche di solo profitto e speculazione.
La pandemia ha svelato l’aleatorietà di uno sviluppo urbano incentrato su investimenti immobiliari destinati a turismo, lusso ed eventi: le grandi città saranno quindi costrette a riadattare in qualche modo questo modello. Quanto la costruzione di edilizia pubblica possa contribuire a innescare processi economici, sociali e urbani virtuosi è una lezione che ci arriva dalle esperienze del passato, ma che può riguardare ancora il futuro. Oggi negli Stati Uniti, il dibattito politico ed elettorale non può più eludere la gravissima crisi abitativa che coinvolge milioni di americani. Nei programmi del variegato mondo democratico l’edilizia pubblica sta acquisendo maggior valore e centralità, fino alle posizioni di Alexandra Casio-Cortez che, con il Green New Deal for Public Housing Act, ha fatto convergere questione abitativa e lotta al cambiamento climatico.