Sotto sotto/Dalle piazze all’exploit nelle urne. Come l’assemblearismo radicale e l’utopia anti-istituzionale si è trasformata in una forza organizzata che scardina l’alternanza socialisti-popolari. Diventando il fenomeno politico del momento
È il fenomeno politico del momento. Motivo di speranza per molti, e di paura per molti altri. In Spagna e non solo. Nato come lista elettorale in occasione delle europee, Podemos è diventato da una settimana un partito politico a tutti gli effetti: in pochi mesi, l’exploit nelle urne (7,98%) si è tradotto nella nascita di una forza organizzata, con gruppi dirigenti e leadership formalizzata. E il primo dato interessante è proprio questo: rispetto a una certa immaturità fatta di assemblearismo esasperato, utopismo anti-istituzionale e anarchismo romantico propria di certi settori del movimento degli indignados, i promotori di Podemos hanno saputo procedere con determinazione verso una «messa in forma» genuinamente politica dei sentimenti, talvolta confusi e ingenui, di ribellione e impegno espressi dalle moltitudini di Puerta del Sol e delle altre centinaia di acampadas della primavera spagnola del 2011. Un’opera portata a compimento, non a caso, da un gruppo di studiosi di scienze politiche, evidentemente anche educati alla sana scuola del realismo politico: chi contesta il potere deve anche pensare a come prenderlo.
Opportunamente, in una recente intervista al quotidiano madrileno El País, il filosofo argentino Ricardo Foster insiste sulla «politicizzazione della società» quale arma principale con cui Podemos intende fare fronte all’attuale gestione della crisi economica. Tutt’altro che «anti-politica», dunque. Eppure, si tratta di una «politicizzazione della società» effettuata attraverso l’utilizzo di categorie etichettabili, in prima istanza, come tipicamente «anti-politiche»: l’opposizione alla casta e il rifiuto di utilizzare i concetti di destra e sinistra. È l’interessante paradosso di Podemos, che sta mettendo in oggettiva difficoltà Izquierda unida , in fase calante nei sondaggi dopo il buon risultato dello scorso 25 maggio (10%). Ma è anche l’intuizione sulla quale Iglesias e compagni stanno indiscutibilmente fondando la loro ascesa: anche in Spagna la categoria «sinistra» è di difficile utilizzo dopo le discutibili performance dell’ultimo Zapatero, obbediente ai diktat dell’austerità impartiti da Bruxelles, Francoforte e Berlino. Come ha efficacemente scritto Boaventura Santos su Carta maior, per Podemos «essere di sinistra è un punto di arrivo, non un punto di partenza»: conta solo ciò che si fa, non ciò che si dice di essere.
Sia Foster che Santos sono d’accordo nel segnalare che le radici politico-intellettuali del nuovo partito spagnolo sono da ricercarsi nell’America del Sud: nella peculiare interpretazione del populismo inteso non come demagogia qualunquistica (e generalmente destrorsa), ma come azione di «costruzione del popolo», come strategia per ampliare le basi sociali della democrazia, secondo la lezione di Ernesto Laclau, in un conflitto con le élite economico-politiche. Lo scenario europeo, dunque, andrebbe interpretato alla luce della recente esperienza storica sudamericana: in un contrasto «da America latina anni ’90» fra oligarchia neoliberista al potere e masse popolari, in cui le diseguaglianze s’ingigantiscono, l’emersione e il successo di Kirchner, Chávez, Lula, Evo Morales e Correa è dunque il modello (al netto delle non poche differenze fra di loro) a cui Podemos ispira la propria iniziativa. Facendolo, però, con tutte le cautele del caso, dal momento il socialismo bolivariano non gode affatto di buona stampa in Spagna, e spaventa larghi settori della società a cui Iglesias e compagni si rivolgono.
Le elezioni politiche nel Paese iberico saranno, salvo sorprese, esattamente tra un anno. Un’eternità. Durante la quale tutto può succedere, e sicuramente molte insidie renderanno difficile il cammino del nuovo partito-movimento che, adesso, sembra trionfale. Il proposito di uscire dalla Nato potrebbe, ad esempio, esporre il fianco ad accuse di avventurismo, facilmente manipolabili in una fase di risorgente allarme terrorismo e di conflitti nel Mediterraneo. Analogamente, sul tema dell’assetto territoriale del Paese, l’acuirsi del conflitto fra stato centrale e governo della Catalogna potrebbe condurre a una polarizzazione nella quale il ragionevole discorso di Podemos («meglio uniti, ma i catalani possano votare su ciò che desiderano») finisca schiacciato. Senza dimenticare, naturalmente, le tipiche dinamiche elettorali: in Spagna si vota con un sistema che premia i partiti maggiori e non c’è stata finora, dalla caduta del franchismo, nessuna esperienza di governo di coalizione. In assenza di propositi espliciti di alleanze, quindi, una parte di elettorato progressista attualmente tentato dal voto a Podemos potrebbe scegliere in extremis il Psoe – in crisi, ma in lieve crescita rispetto al 23% delle europee – per sbarrare la strada al Partido popular di Mariano Rajoy.