2 su 100: tanti sono i romani che prendono il taxi. Perché invece è diventata questione nazionale, e il grande assente di tutta la discussione: un altro modo di trasportarsi
I tassisti italiani, messi tutti insieme, non arrivano a 20.000. Il problema-taxi riguarda in tutt’Italia tre città: Roma, Milano e Firenze. Sono queste le città con meno taxi per abitanti, e prezzo più alto delle licenze per guidarli. Nella capitale, dove ci sono 8.000 taxi, solo il 2% degli abitanti ha l’abitudine di usare le auto bianche. Non scomodiamo neanche i grossi numeri della crisi, per un paragone: i numeri della disoccupazione, della inattività forzata, della cassa integrazione. Il confronto è grottesco, prima ancora che inutile. E non è che le cose cambiano molto se aggiungiamo ai tassisti le altre categorie che il governo vuole liberalizzare: da notai ai farmacisti, dagli avvocati ai giornalisti (dei quali però si parla pochissimo sui giornali, forse perché li scrivono i diretti interessati). Si è tentati dunque di addebitare a una delle tante follie italiane il fatto che siamo finiti a parlare ossessivamente, in questo inizio di 2012, di tassisti e dintorni. Però sarebbe sbagliato liquidare la questione come irrilevante, poiché mostra alcuni limiti profondi del nostro modo di vedere l’economia e la vita sociale: e questo, sia da parte degli aspiranti liberalizzatori che sovrastimano gli effetti delle loro ricette, che da parte delle categorie schierate in difesa dello statu quo, che si aggrappano a un esistente sempre più misero. Mentre si dimentica quell’aggettivo – “pubbliche” – che le auto dei tassisti hanno, e nel cui aggiornamento forse potrebbe esserci la chiave per uscire dallo stallo in cui ci siamo cacciati.
Sappiamo infatti molto, dopo gli ampi servizi su stampa e tv, dei tassisti, del modo in cui funziona o non funziona il loro mercato, dei loro profitti, dei loro debiti e delle loro dichiarazioni dei redditi. Ma sappiamo poco dei limiti e delle potenzialità del servizio che rendono. Sul primo punto, è difficile negare che quello dei tassisti sia un mestiere a numero chiuso: per entrare, devi avere una licenza nuova, e queste sono distribuite con il contagocce dai comuni (che le contrattano con i tassisti già in servizio); in alternativa, puoi comprare una licenza da un tassista che va in pensione. Per i tassisti in servizio, la licenza è come un’assicurazione sulla vita, il tfr, la liquidazione: l’hanno pagata cara quando hanno iniziato a lavorare, sperano di rivenderla a buon prezzo quando smetteranno. Per questo temono la crescita del numero di licenze in circolazione: se aumenta la merce sul mercato, si abbassa il valore della propria. La proposta del governo è invece: mettiamo più licenze sul mercato, indennizzando in qualche modo i tassisti che hanno in mano le vecchie licenze. Un metodo, molto semplice, è quello proposto dall’antitrust, che propone di regalare direttamente le licenze nuove ai vecchi tassisti, una per ciascuno, cosicché il nuovo valore che hanno in mano (e che potranno usare vendendola, dandola al figlio oppure assumendo un dipendente) compenserà la perdita di valore della “vecchia” licenza. Sembra una proposta sensata – anche se assai poco “liberalizzatrice”, costituendo di fatto un incentivo a tramandare il mestiere di tassista in famiglia, o tra parenti. In questi tempi di scarsa occupazione, si può immaginare che gran parte dei “vecchi” tassisti passerà direttamente il regalo del governo al figlio o alla moglie, per aumentare il reddito familiare. In ogni caso, la proposta è stata rispedita al mittente dai tassisti in rivolta, secondo i quali l’indennizzo non sarà sufficiente a coprire la perdita di valore delle licenze. I tassisti temono che quando la quantità delle auto in circolazione aumenterà questo farà scendere il lavoro per tutti, quindi ci saranno meno corse, meno clienti, meno reddito. Se tu mi proponi di spartire la stessa torta tra più gente – è il ragionamento – dovremo fare delle fettine più piccole. Il governo (con l’antitrust) la chiama redistribuzione della rendita, i tassisti la vedono come l’apertura di una guerra tra poveri, per spartirsi gli scarsi clienti.
Chi ha ragione? Difficile vedere come ricchissimi rentiers i lavoratori alla guida dei taxi. Che però sono vittime dello stesso meccanismo che difendono: devono lavorare per anni per ripagare quella maledetta licenza, per cominciare; e spesso non possono farlo se non con una certa disinvoltura negli obblighi fiscali. I tassisti hanno ragione nel dire che, se la torta resta com’è, la liberalizzazione è solo un modo per ritagliare loro fettine più piccole, ma forse esagerano (soprattutto a Roma) nel minimizzare la grandezza della torta e delle relative fette che attualmente si dividono. Ma in ogni caso vien da chiedersi: perché la torta deve restare quella che è? Perché non pensare che, con una visione che comprenda insieme gli interessi dei tassisti e quelli dei cittadini, la torta del trasporto pubblico in taxi, come quella di tutto il trasporto collettivo, non possa crescere, a scapito del vero grande nemico delle nostre città, che è il trasporto individuale su gomma? Perché a Roma, città dal trasporto impossibile, dal traffico caotico e l’inquinamento che minaccia la salute pubblica, solo due cittadini su cento possono o vogliono usare il taxi?
“Tutti in taxi”, si intitolava un bel libro scritto qualche anno fa da Guido Viale, dedicato alle forme di mobilità sostenibile. Lo stesso Viale spiega bene cosa c’entri questo concetto con la guerriglia in corso, sul manifesto del 18 gennaio, scrivendo a proposito dei taxi: “Certo che ci vogliono tariffe più basse, percorsi veloci su strade più sgombre, e più mezzi in circolazione. Ma non per lasciarli in attesa ai posteggi in coda nel traffico di città congestionate, bensì per coprire, insieme alle altre soluzioni della mobilità sostenibile, il progressivo esautoramento della mobilità fondata sull’auto privata”. La condivisione delle forme di trasporto, dal taxi collettivo al car sharing a tante altre possibilità aperte dal formidabile strumento di incontro tra domande e offerta che la rete internet permette, è considerata da più parti come la nuova frontiera non solo della mobilità, ma dell’economia stessa: se ne parla ampiamente in un libro che è un piccolo fenomeno negli Stati uniti, dedicato alla crescita del consumo collaborativo, e intitolato “What’s mine is yours” (quel che è mio è tuo). Rachel Botsman e Roo Rogers, i due autori del libro, spiegano che il cambiamento degli stili di vita non è solo auspicabile per salvare il futuro ambientale del pianeta: quel cambiamento è già in atto, dicono, a opera di una generazione “collaborativa” che ha capito come sfruttare l’enorme potere di internet. Uno dei casi da loro raccontato è quello di un sito che permette l’incontro tra domanda e offerta di passaggi in auto per andare e tornare dal lavoro: sembra una piccola novità un po’ naif, invece è l’embrione di un nuovo modo di vivere in città. Perché i tassisti, soldati di prima linea sul fronte del traffico cittadino, non possono essere tra gli attori e i promotori di questo cambiamento? Perché non mettere le loro auto, la loro rete e le loro professionalità anche al servizio di una mobilità condivisa e più sostenibile? Perché non pensare che, nella Roma bloccata dal traffico, con l’inquinamento a livelli talmente alti che non lo misurano più, prima o poi diventerà inevitabile disincentivare l’uso dell’auto privata, e si apriranno nuove opportunità e sviluppi anche per i taxi, facendoli uscire dal giro stretto dei clienti di quella stessa élite che poi li massacra sui giornali?
(una versione più lunga di quest’articolo sarà pubblicata sul quindicinale “La rocca di Assisi”)