La sentenza del 1975 è l’unica verità giudiziale sulla morte di Pinelli. Ma analizzando gli atti e le testimonianze, emerge una lunga serie di arbitri e insabbiamenti.
Una risposta ufficiale agli interrogativi sugli ultimi momenti di vita di Giuseppe Pinelli è contenuta nella sentenza 27 ottobre 1975 dal giudice istruttore del tribunale di Milano, a conclusione dell’istruttoria formale, condotta a seguito della denuncia presentata il 24 giugno 1971 da Rognini Licia, vedova di Giuseppe Pinelli, contro agenti e funzionari di polizia
La decisione istruttoria, non essendo stata impugnata, ha acquistato forza di giudicato, con efficacia preclusiva di altro giudizio per i medesimi fatti e contro le medesime persone, in quanto non sono sopravvenute nuove prove che abbiano legittimato la riapertura dell’istruttoria. La sentenza quindi contiene sulla causa della morte di Giuseppe Pinelli, una verità ufficiale e formalmente immodificabile, pronunciata dal competente organo dello Stato, “in nome del Popolo Italiano”.
Il giudice istruttore ha dichiarato non doversi procedere per il delitto di omicidio doloso, a carico del commissario Calabresi e di altri poliziotti perché il fatto non sussiste; per il delitto di fermo illegale a carico del commissario Allegra, per amnistia; per il delitto di omicidio colposo a carico del Calabresi, per omesso impedimento del suicidio di Pinelli: il giudice ha escluso che Pinelli si fosse sentito incastrato da gravi indizi per la strage di piazza Fontana e che, grazie a un’imprudente libertà di movimenti, con scatto fulmineo, si fosse buttato dalla “finestra a balcone” del quarto piano della questura.
All’origine dell’ipotesi del suicidio nella fase conclusiva degli interrogatori vi era la compatta versione dei fatti diffusa da agenti e funzionari di polizia sulla conclusione di ripetuti interrogatori a cui era stato sottoposto “l’anarchico Pinelli”. Secondo il giudice istruttore, l’errata ipotesi sulla volontarietà della morte dell’inquisito, da intendersi come implicita confessione di responsabilità, fu sostenuta sia per «considerazioni più o meno consce della conseguenze negative personali che da quell’episodio potevano loro derivare», sia per «la consapevole certezza che la versione del suicidio era gradita ai superiori, che l’avevano, senza esitazione alcuna, utilizzata come strumento per avvalorare la tesi della colpevolezza degli anarchici».
D’altro canto, la tesi del suicidio autoaccusatorio costituiva un capitolo del disegno del ministero dell’Interno e del mondo politico da questo rappresentato di collegare tutti gli attentati dinamitardi del 1969 alla responsabilità dei gruppi di estrema sinistra.
Questa sentenza di proscioglimento ha incontrato e incontra tutt’oggi un diffuso dissenso, che può derivare dalla non rispondenza delle sue conclusioni alle aspettative create dalle sconvolgenti notizie diffuse o fatte filtrare dalla questura sulla vita e sulla tragica morte di un cittadino nonché sulle ineccepibili condotte degli operanti. Queste notizie riguardavano un evento del tutto eccezionale: la caduta e la morte di chi era stato sottoposto per tre giorni, negli uffici della polizia di Stato, a una serie di pressanti interrogatori, svolti in assenza di formali garanzie di difesa che non erano previste dalla normativa allora vigente. La confusione di testimonianze, il velo di imbarazzo, la foga accusatoria e diffamatoria degli uomini dell’ordine pubblico contro chi era morto sotto i loro occhi fecero nascere la convinzione che era stato commesso un delitto dentro le istituzioni, incommensurabilmente più grave e allarmante di qualsiasi delitto consumato fuori.
La tesi di dirette violenze sul corpo o sulla psiche dell’anarchico Pinelli, commesse nel corso della forzata permanenza in questura, è stata ritenuta infondata dal giudice istruttore. In questa sede ci soffermeremo sulle omissioni nella ricostruzione dell’illegalità di questa limitazione della sua libertà personale e nell’identificazione dei responsabili.
Innanzitutto è stato trascurato il duplice livello di questa illegalità: nella sentenza si parla di “illegale fermo giudiziario”, previsto dal codice abrogato, senza tener conto che la prima fase della coercizione imposta al Pinelli è assolutamente al di fuori delle norme allora vigenti per il fermo cautelare previsto dall’art. 238 del codice di rito, risalente al Guardasigilli Rocco (Codice Rocco). La polizia giudiziaria, nell’applicare questo provvedimento a un indagato, doveva rispettare i seguenti presupposti e adempimenti: gravi indizi su un delitto punito con l’ergastolo; pericolo della sua fuga; immediata notizia al Pm (pubblico ministero) del giorno e dell’ora del provvedimento; immediato interrogatorio e immediato trasferimento nel carcere giudiziario; comunicazione, entro 48 ore, al Pm dei motivi del fermo e dell’esito delle indagini. Il Pm, entro 48 ore da questa comunicazione, doveva convalidare o prorogare su richiesta della polizia, il provvedimento limitativo della libertà.
E’ pacificamente riconosciuto che a) la limitazione della libertà di Pinelli avvenne con l’informale invito di Calabresi, alle 18,30 del 12 dicembre, di recarsi in questura per un controllo, senza alcun cenno di indizi; b) nessun pericolo di fuga era ravvisabile in chi seguì fino in questura, con il proprio ciclomotore, l’auto blu dei poliziotti; c) nessuna registrazione del fermo fu annotata in quel giorno; d) nessuna immediata notifica fu fatta al magistrato; non fu immediato il primo interrogatorio che fu effettuato alle 3 del 13 dicembre; non fu immediato il trasferimento nel carcere giudiziario, sostituito dall’ingresso in camera di sicurezza della questura. L’ufficializzazione delle restrizione della libertà personale avvenne alle ore 10 del 14 dicembre, quando fu redatto il verbale di fermo e ne fu data comunicazione al Pm.
La non casuale e non estemporanea violazione della legalità da parte della questura milanese nella iniziale limitazione della libertà di Pinelli giustificava una specifica indagine sulla iniziale intenzione degli operanti di escludere l’autorità giudiziaria dalla conoscenza della coercizione e della sottoposizione al doveroso controllo previsto dal codice.
Secondo la sentenza del giudice istruttore, questa intenzione ha sempre animato il comportamento del commissario Allegra: «..ove questa intenzione mancasse si verterebbe nell’ipotesi ben più grave di sequestro di persona aggravata dalla qualità di Pubblico Ufficiale e dall’abuso in tal modo dei poteri inerenti alle proprie funzioni».
Sono di notevole rilevanza i dati legittimanti questa specifica indagine: l’omessa notifica al Pm del giorno e dell’ora dell’inizio della limitazione della libertà di Pinelli; la permanenza in questura dopo il primo interrogatorio del 13 dicembre e dopo il successivo, avvenuto nella notte successiva tra il 14 e il 15 dicembre, in violazione del doveroso trasferimento nel carcere giudiziario di San Vittore; la mancata comunicazione del fermo ai familiari, fonti di prevedibili doglianze con la magistratura: alla moglie Licia fu dato il compito di mantenere le indagini al riparo da indiscrezioni giudiziarie, quando sabato mattina, 13 dicembre, il “fermato” le chiese per telefono di avvertire il suo ufficio alle Ferrovie dello Stato di essere impossibilitato a prendere servizio per motivi di salute: «Gli avevano consigliato di dire che era ammalato». Ancora la moglie Licia, rassicurata e dissuasa dall’ufficiale, protesta alla magistratura, quando chiede al commissario Calabresi: «Ma mio marito non è a San Vittore? No, mi ha risposto. E’ qui da noi, dove sta molto meglio» (L.Pinelli – P. Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia, Universale Economica Feltrinelli, 2009, 36) .
Tanta anomala riservatezza lasciava intendere la necessità di meglio verificare, alla luce dei dati sopra indicati, se questa prima parte di presenza coatta di Pinelli in questura sia stata una restrizione di libertà, prevista dal codice di rito (art. 238 c.p.p.), realizzata con violazione di alcuni requisiti tanto da costituire reato di fermo illegittimo, ex art. 606 c.p. (coperto dall’amnistia ex D.P.R. 22.5.1970 n. 283), oppure se sia il risultato di un’illecita retata – fuori legge e fuori Costituzione- di soggetti politicamente sospetti, da tenere sotto l’arbitrario dominio della polizia e da non sottoporre a controllo giudiziario. In questo secondo caso si verte, secondo la giurisprudenza, nella più grave ipotesi di sequestro di persona (non rientrante nella previsione del citato decreto di clemenza).
Escluso il suicidio dell’anarchico Pinelli e affermata la sua morte per “malore attivo” (estraneo alla comune esperienza degli ordinari esseri umani), risulta comunque accertato che la morte è stata causata da un “delitto” commesso da uno o più pubblici ufficiali, sia esso fermo illegale (anche se estinto per prescrizione) o sequestro di persona aggravata.
Vediamo come sono descritti nella sentenza gli ultimi momenti della vita di Giuseppe Pinelli.
«Alle ore 19 del 15 dicembre, senza che avesse potuto beneficiare di un sonno ristoratore in un letto, fu chiamato di nuovo per l’interrogatorio. “Valpreda ha confessato” esordì il commissario Calabresi. Era vero o era il solito saltafosso della polizia? Il dubbio dovette quanto meno sfiorargli la mente, se è vero che disse al Valitutti: “Se è stato un compagno, lo uccido con le mie mani”. Ma non poteva concedersi il lusso di pensarci sopra: l’interrogatorio proseguiva e doveva prestare la massima attenzione alle domande che gli venivano rivolte; doveva ben meditare le risposte che andava dando per evitare di cadere in contraddizione e prestare così il fianco al gioco degli inquirenti. La mancanza di sonno, di un’alimentazione adeguata (non aveva cenato e i pasti da quando era in questura erano costituiti da panini ripieni), le numerosissime sigarette fumate dettero il loro contributo allo stato di stanchezza che ne derivò».
Le indebolite condizioni fisiche dell’uomo sottoposto a così tormentoso e snervante trattamento non sfuggirono a coloro che ne furono direttamente autori e furono riferite nelle udienze dinanzi alla prima sezione del tribunale nel processo per diffamazione a carico di Pio Baldelli: nell’udienza 14.10.1970, il commissario Calabresi ha rievocato il rifacimento del verbale per tre o quattro volte a causa delle amnesie dell’interpellato; amnesie e verbali rifatti sono ricordati dal tenente Lograno e dal brigadiere Caracuta, tanto da dover prolungare l’ultimo interrogatorio a poco prima delle 24 del 15 dicembre.
«Ciò posto, è opportuno precisare che nel termine malore ricomprendiamo non solo il collasso che, come è noto, si manifesta con la lipotimia, risoluzione del tono muscolare e piegamento degli arti inferiori, ma anche l’alterazione del “centro di equilibrio”, cui non segue perdita del tono muscolare e a cui spesso si accompagnano movimenti attivi e scoordinati (c.d. atti di difesa)».
E’ opportuno precisare pure che in medicina è pacifico che alterazioni del centro di equilibrio possono essere provocati da intossicazioni da fumo (e Pinelli aveva fumato moltissimo), da stati ansiosi e stressanti (e Pinelli aveva passato tre giorni di seguito in stato di stress), da surmenage (e Pinelli non si era pressoché riposato per tre giorni e si era mal nutrito).
L’interrogatorio è terminato e nulla è emerso contro Pinelli, ma lo stato di tensione per lui non si allenta.Il commissario Calabresi si è allontanato senza dire una parola.
Cosa deciderà di lui il dott. Allegra? Finirà a San Vittore con l’infamante marchio di complice di uno dei più efferati delitti della storia d’Italia o ritornerà finalmente libero a casa?
«Pinelli accende la sigaretta che gli offre Mainardi. L’aria della stanza è greve, insopportabile. Apre il balcone, si avvicina alla ringhiera per respirare una boccata d’aria fresca, una improvvisa vertigine, un atto di difesa in direzione sbagliata , il corpo urta sulla ringhiera e precipita nel vuoto».
E’ di tutta evidenza che a monte del malore attivo e comunque dello stato di malessere che hanno causato il salto nel vuoto di Pinelli, vi è stato, secondo la stessa ricostruzione del giudice, un trattamento incompatibile con la stessa Costituzione, specificamente con il quarto comma dell’art. 13, che vieta a tutti gli organi dello Stato «ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni della libertà». Anche ammettendo – contro il senso comune e a dispetto della corrente esperienza degli ordinari esseri umani – che il sopraggiunto malore attivo e la sopraggiunta precipitazione nel vuoto siano le cause naturali della sua morte, non può considerarsi giuridicamente corretta la conclusione del giudice istruttore.
Coloro che hanno direttamente e consapevolmente tenuto i comportamenti che hanno portato Pinelli ai letali “movimenti attivi e scoordinati (c.d. atti di difesa)” non avrebbero dovuto trovare protezione e impunità in ordinamento giuridico basato – dopo la caduta del regime tirannico e totalitario – su elementari principi di umanità e civiltà, tra cui quello prevista dal citato art. 13 della Costituzione. Leggendo il codice penale dell’epoca, si ha inoltre immediata conferma di questo principio, attraverso il divieto di sottoporre a illegittime misure di rigore persone sottoposte dallo Stato a restrizioni della libertà (art. 608 c.p.), nonché attraverso la esplicita e inequivoca previsione di sanzione per chi, commettendo un delitto, causi involontariamente la morte o le lesioni di una persona (art. 586 c.p.).
Ribadito che la morte non voluta di Pinelli è comunque effetto di un comportamento qualificabile come “delitto doloso” ( sia esso fermo illegale o sequestro aggravato di persona), commesso da pubblici ufficiali, questi avrebbero dovuto risponderne a norma dell’art. 586 c.p. : Quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o le lesioni di una persona, si applicano le disposizioni dell’art. 83, ma le pene stabilite negli artt. 589 e 590 sono aumentate.
Nella sentenza si pone in evidenza il rapporto di causalità tra tale condotta e il malore attivo e il precipitare nel vuoto di Pinelli.
Nel caso in esame, in base all’orientamento prevalente in giurisprudenza, non necessitava la dimostrazione che l’illecita e prolungata reclusione, il digiuno, l’insonnia, gli stratagemmi fossero stati disposti e realizzati in base ad errato calcolo delle forza di resistenza dell’anarchico estremista e tanto meno in base all’incredibile errore di calcolo dei termini previsti per il fermo.
Secondo un successivo orientamento, la responsabilità per l’evento non voluto può essere dichiarata solo se esso sia provocato da imprudenza o negligenza o anche da inosservanza di legge, dovendosi intendere che la responsabilità, in quest’ultima ipotesi, sia derivata non già dalla violazione delle norme sul reato base, ma dall’inosservanza di norme di prevenzione poste a tutela della vita o dell’incolumità fisica.
La responsabilità oggettiva, posta a base della precedente giurisprudenza, è ritenuta non coerente con il principio di responsabilità espresso dall’art. 27 della Costituzione. E’ necessario quindi, per un livello minimo di congruità costituzionale della responsabilità penale, che la morte o le lesioni siano imputabili all’autore del delitto doloso, in presenza, oltre che del nesso di causalità materiale, della colpa per violazione di una regola precauzionale. Questa ipotesi è stata fatta propria dalle Sezioni Unite con la sentenza n.22676 del 22.1.2009, Rv 243381( in Cass. pen. 2009, 4564), che, pur risolvendo una questione interpretativa in una fattispecie ben diversa e oggi ampiamente diffusa (la responsabilità del venditore di sostanze stupefacenti in ordine alle non volute morte o alle lesioni dell’assuntore) pone generale principio ermeneutico: la responsabilità per l’evento non voluto deve essere colposa.
Nel campo dell’illecito esaminato dalle Sezioni Unite, “ben può dirsi è vietato spacciare sostanze stupefacenti, ma se spacci devi farlo con cautela” (A. Carmona). Nel tema qui trattato, se ne potrebbe ricavare il seguente criterio ermeneutico: è vietato all’agente di polizia limitare la libertà personale al di fuori dei canoni di legge, ma, se infliggi reclusione illecita, devi farlo con cautela.
Di questo confronto di opinioni non vi è naturalmente traccia nella sentenza emessa il 27 ottobre 1975 dal giudice istruttore del tribunale di Milano, e non tanto perché la giurisprudenza non avesse avuto l’evoluzione che è poi sfociata nel giudizio di legittimità, quanto perché non ha compiutamente affrontato l’interrogativo su possibili responsabilità per una morte che non ha nulla di naturale, nulla di patologico, ma ha evidenti radici in individuali responsabilità penali.
La sentenza formalmente definitiva, che lascia inalterati gli interrogativi sulla morte di Giuseppe Pinelli e non conclude l’identificazione dei reati e la censura di chi l’ha cagionata, non acquisisce la vincolante forza della res iudicata, cioè la funzione di strumento affidabile e intangibile di collegamento tra certezza del giudice, verità ufficiale dello Stato, informazione e convinzione sul passato, avviso e ammonimento per il futuro.
Sotto la toga, niente certezza, ma lo scetticismo pirandelliano, che si estende al popolo spettatore.
La verità che propone l’unica sentenza che approfondisce l’esame del caso Pinelli, non è figlia della nostra storia, non è testimone del nostro passato, ma, nel silenzio delle istituzioni eternamente competenti, è allarmante notizia del presente, è cupo avvertimento per l’avvenire.