I numeri dell’ultimo decennio: calo dei redditi da lavoro, aumento dell’indebitamento delle famiglie, mancato rilancio produttivo. Come uscirne?
L’Istat, mediante un’indagine provvisoria sui Conti regionali, nei mesi scorsi ha comunicato che da ottobre 2008 a settembre 2009 è calato il potere d’acquisto delle famiglie, definito come reddito disponibile familiare. Le stime regionali del reddito delle famiglie sono elaborate in piena coerenza con le analoghe stime nazionali, presentate nei Conti Nazionali per settore istituzionale.
La fonte principale del reddito disponibile familiare è data dai redditi da lavoro dipendente (59,8% nel 2006), in misura minore dai redditi misti (imprese non costituite in società – 22%nel 2006) e da quelli da capitale netti (20,5% nel 2006). In questo quadro, la crisi del reddito disponibile familiare italiano è strettamente legata alla dinamica dei salari.Dall’analisi delle buste paga ogni singolo lavoratore dipendente, nel periodo 1993 – 2008, ha trasferito al fisco circa 6.700 euro cumulati in termini di potere d’acquisto (Megale A., D’Aloia G., Birindelli L., Salari in crisi, Roma, 2009 – IV rapporto IRES-CGIL 2007 – 2008). Questo è dovuto alle retribuzioni nette cresciute di 3,5 punti percentuali in meno delle retribuzioni lorde. L’ammontare di cui lo Stato ha beneficiato, sia in termini di maggiore pressione fiscale che come drenaggio fiscale, è stato di 112 miliardi di euro. Il problema sta nella dinamica della crescita dei salari netti che in 15 anni è pari a zero contro un inflazione cresciuta del 41,6 per cento. Il fisco dunque ha assorbito i pochi guadagni di produttività del lavoro ottenuti nel tempo e ciò è alla base della riduzione della domanda interna che, negli ultimi anni, è andata sempre più fondandosi sull’indebitamento delle famiglie. Il rapporto tra debito (mutui, credito al consumo, etc.) e reddito medio lordo delle famiglie italiane ha raggiunto, nel 2008, il 50 per cento (circa 17 punti percentuali in più dal 2001 al 2008). A corroborare questo quadro, rileva come nel periodo 2002 – 2008 le retribuzioni di fatto (inclusive di elementi come ad esempio gli straordinari) abbiano accumulato una perdita del potere d’acquisto pari a circa 2.500 euro di cui circa 1.200 euro di mancata restituzione del fiscal drag, portando 3,6 miliardi in più nelle casse dello Stato soltanto nel 2008. Nel confronto internazionale le retribuzioni lorde reali italiane nel periodo 1993 – 2007 sono cresciute solo del 4 per cento (appena 750 euro), rispetto alla crescita reale del 10 per cento delle retribuzioni lorde dei lavoratori spagnoli (1.700 euro) e dei lavoratori tedeschi (4.000 euro), a quella del 13 percento degli americani(3.400 euro), del 23 percento dei francesi (4.000 euro) e del 28 per cento degli inglesi (8.300 euro). La produttività di questi paesi, d’altronde, è nettamente più alta di quella italiana, ad eccezione delle medie imprese in cui, ad esclusione del Regno Unito, siamo i primi tra i paesi industrializzati europei. Nello specifico, i ricercatori dell’IRES-CGIL, su dati Eurostat, hanno rilevato nell’industria manifatturiera italiana una produttività delle imprese con numero di dipendenti compreso nell’intervallo 50 – 249 più alta rispetto a quella di Germania, Spagna, Francia e Svezia. Tuttavia, se si escludono le piccole imprese dai raffronti sulla produttività, i differenziali con gli altri paesi si riducono radicalmente. Se avessimo la stessa dimensione media d’impresa della Germania, i differenziali di produttività si ridurrebbero dall’attuale 32,2 al 4,5 per cento e, analogamente, gli stessi cadrebbero dall’attuale 26,5 al 7,5 per cento, se avessimo quella della Francia. Secondo i dati elaborati sulle dichiarazioni dei redditi presso i CAAF CGIL, nell’anno 2006 circa 13,6 milioni di lavoratori hanno guadagnato meno di 1.300 euro netti al mese, circa 6,9 milioni – v – ne hanno guadagnati meno di 1.000. Oltre 7,5 milioni dei lavoratori in pensione guadagna meno di 1000 euro netti mensili. Nell’anno 2006 il reddito medio lordo di un lavoratore dipendente si è attestato attorno circa ai 23.117 euro ed il reddito netto a 18.364. La mediana della distribuzione indica un reddito pari a 20.693 euro, che si traduce in 17.002 euro netti. Nel periodo 1993 – 2006 i mutamenti orizzontali tra gruppi differenti di percettori di reddito definiti in base a caratteristiche socio demografiche, hanno riscontrato un aumento medio del reddito disponibile equivalente reale – deflazionato con i consumi delle famiglie – dell’1,2 per cento all’anno nel caso dei nuclei familiari con lavoratore autonomo come principale percettore, del 2,6 per cento per quelli dei dirigenti pubblici, dell’1,5 per cento per quelli dei dirigenti privati e dell’1,6 per cento per quelle dei pensionati. Per le famiglie degli operai l’aumento è stato dello 0,6 per cento, mentre per gli impiegati direttivi e gli insegnanti è stato appena dello 0,3 per cento (Indagine conoscitiva sul livello dei redditi di lavoro nonché sulla redistribuzione della ricchezza in Italia nel periodo 1993 – 2008, Servizio Studi di struttura economica, Banca d’Italia, 21 aprile 2009). L’Istat rileva come nel periodo 2005 – 2007, rispetto ai nuclei familiari la cui fonte principale di reddito proviene da lavoro autonomo, quelli con lavoratori dipendenti riscontrano obiettive maggiori difficoltà ad arrivare a fine mese, nonché a sostenere le spese impreviste e le spese mediche (Indagine campionaria ISTAT “Reddito e condizioni economiche in Italia”, anni 2005 2006 2007 – anni 2005 e 2006 Tavola 9, anno 2007 Tavola 11). Di fronte a questo scenario è opportuno sottolineare che le linee guida siglate nell’ottobre 2008 tra Confindustria, CISL e UIL e l’accordo Quadro tra Associazioni Datoriali, Governo, CISL e UIL del 22 gennaio 2009 hanno introdotto alcuni nuovi apprezzabili istituti, come quello del tasso di inflazione atteso in sostituzione del tasso di inflazione programmato – causa del mancato allineamento dei salari all’inflazione effettiva a partire dal protocollo del 1993 – e quello dell’elemento di garanzia retributiva per i dipendenti non coperti dalla contrattazione decentrata. Esso tuttavia non contempla meccanismi di copertura contro i rischi di erosione del salario reale. Il problema è determinato da una serie di clausole quali l’esclusione dell’indice dei prezzi dei beni energetici importati dal paniere dell’inflazione, il non automatico recupero del gap tra inflazione attesa ed inflazione effettiva, la poca chiarezza sul modo con cui il salario contrattato a livello decentrato possa essere messo al riparo dall’inflazione ed infine la condizione secondo cui l’elemento di garanzia retributiva non scatterebbe in presenza di incentivi erogati unilateralmente dalle imprese, condizione che scoraggerebbe la diffusione della contrattazione decentrata, già di per sé poco presente in Italia. Continuare nella direzione di accordi finalizzati ad un generico sostegno della produttività porta a risultati poco efficaci, soprattutto se le nostre imprese continueranno sulla strada della precarizzazione del lavoro come unica via per reggere la competitività internazionale. Una linea d’intervento sostenibile sarebbe quella di un “Patto sociale per la produttività e la crescita” che consideri una triangolazione tra maggiori investimenti in ICT, nell’organizzazione e nello sviluppo delle competenze cognitive e relazionali, oltre che tecniche, dei dipendenti, in cambio di una moderata crescita del salario reale.Misure immediate di politica economica, opportune ai fini di una concreta risposta al disagio economico e sociale che le famiglie italiane lamentano da ormai più di un decennio, dovrebbero prevedere interventi fiscali più equi, mirati alla riduzione dell’imposizione sui redditi da lavoro, tenendo conto che la modifica delle aliquote, degli scaglioni e delle detrazioni da lavoro dipendente sono strumenti previsti dalla legge per la restituzione del drenaggio fiscale. Resta la necessità di una seria lotta all’evasione ed all’elusione fiscale che rendono i contribuenti assai troppo diversi di fronte al fisco. Infine, ci parrebbe essenziale azzerare il dumping di costo tra le numerose fattispecie contrattuali generali, causa dello spostamento tra flessibilità e precarietà del lavoro. Il fattore lavoro necessita di processi di formazione permanente per essere adeguato all’insieme delle conoscenze e delle procedure operative correnti (paradigma tecnologico), cosa non facile da attuare sino a che, in Italia, il lavoro precario costerà meno di quello stabile.