Occorre un nuovo quadro istituzionale per garantire investimenti e sostenibilità del debito in Europa. È necessario riformare il Patto di Stabilità per arrivare all’implementazione di un Piano di investimenti comune, sostenuto da un Fondo e un’Agenzia del Debito, capace di rilanciare la domanda interna.
L’Unione europea si trova all’ennesimo bivio della sua storia; un bivio che, per usare le parole di Mario Draghi, pone al vecchio continente una sfida esistenziale. In primo luogo, i dirigenti europei sembrano non aver preso le misure della nuova fase geopolitica che si è aperta non con Trump, come molti sembrano ingenuamente credere, ma con la Crisi Finanziaria Globale del 2007 e con la parallela ascesa della Cina al rango di grande potenza economica.
L’Unione europea, come gli Stati Uniti, aveva prosperato sotto la globalizzazione a guida americana, incarnata dal sistema di regole gestite dalle istituzioni internazionali come l’Organizzazione Mondiale del Commercio. E oggi sembra priva di bussola in questo nuovo mondo in cui Cina e Stati Uniti si battono per l’egemonia e in cui non esistono più alleati ma solo concorrenti o avversari, con i quali instaurare relazioni basate su rapporti di forza (o di mutua convenienza) e non su regole condivise.
Questa profonda ricomposizione del quadro geopolitico si aggiunge alla non più rinviabile transizione ecologica[1], che non può avvenire senza un profondo mutamento strutturale dell’economia. E anche in questo caso, l’Europa sembra impreparata. Mentre la Cina e in parte gli Stati Uniti (almeno fino alle recenti decisioni dell’Amministrazione Trump) hanno capito che, al pari delle grandi innovazioni del passato (elettricità, ferrovia, motore a scoppio), la rivoluzione tecnologica legata alla transizione green ha il potenziale di rilanciare la crescita e la produttività, il dibattito pubblico europeo è ancora avvitato sulla percezione che la transizione sia un costo: un costo forse necessario, ma che non può essere pagato che con minore crescita (un ministro parlò qualche tempo fa di un “bagno di sangue”).
Il risultato è che i nostri concorrenti si sono lanciati per tempo (la Cina addirittura dai primi anni Duemila) nello sviluppo delle tecnologie green, mentre in Europa molti decisori politici e attori economici cercano di ritardare quanto più possibile la transizione, sperando di raschiare il fondo del barile delle rendite legate alle vecchie tecnologie. Quello che avviene nel settore automotive è paradigmatico dell’attitudine generale del vecchio continente.
Questi recenti ritardi, nell’adattarsi al nuovo quadro geopolitico e nell’appropriarsi della transizione ecologica per trasformarla in un motore di crescita e sostenibilità, vengono a innestarsi sulle difficoltà di lungo periodo dell’economia europea, evidenziate con brutale efficacia dal Rapporto Draghi. L’Europa cresce da decenni meno degli Stati Uniti, ed è oggi minacciata da vicino anche dalla Cina. Draghi si aggiunge ai molti economisti che da anni si sgolano nel ripetere che il deficit di crescita europeo è un deficit di produttività e che, tra le molte determinanti della scarsa produttività europea, un ruolo di primo piano lo ha la cronica mancanza di investimenti, pubblici e privati[2].
Cinque anni fa la reazione di governi e istituzioni europee alla pandemia sorprese i molti che per anni in precedenza ne avevano fustigato l’incapacità di governare gli eventi. In particolare, mi colpì il fatto che mentre si cercava di far fronte alle conseguenze economiche dei lockdown, i tecnici della Commissione erano stati capaci di alzare lo sguardo dalla contingenza e proiettarsi, con Next Generation EU, nel medio e lungo periodo. Per la prima volta dall’inizio della crisi greca, insomma, si aveva la sensazione che i policy makers europei non si limitassero a reagire agli eventi.
Quel momento alto della politica europea, purtroppo un episodio isolato, riviene in mente ora, con l’Europa inerte di fronte all’instabilità economica e geopolitica. Eppure, oggi ancora più che nel 2020, avremmo bisogno di qualcuno che a Bruxelles fosse capace di guardare oltre al caos attuale per porre le basi dell’Europa del futuro.
A cosa dovrebbe assomigliare il “momento NGEU” del 2025? A cosa vorremmo che lavorassero in questo momento i tecnici della Commissione? Il punto di partenza, gli ultimi mesi lo hanno reso evidente, è il bisogno di mobilitare ingenti risorse per attuare politiche industriali e di bilancio. Il rapporto Draghi parlava di 800 miliardi di euro annui, cui si aggiungono oggi le spese per la difesa e per la riorganizzazione degli apparati produttivi necessaria per far fronte alle guerre commerciali e alla segmentazione dei mercati.
Anche considerando che più della metà di questa cifra dovrebbe essere investimento privato, parliamo di spesa pubblica addizionale, in capitale tangibile e intangibile (sanità, istruzione, eccetera), per diverse centinaia di miliardi all’anno: si pensi che il NGEU, visto all’epoca come una rivoluzione copernicana, mobilitava 750 miliardi una tantum e spalmati su quattro anni.
L’utopia di un ministero europeo dell’economia
Queste risorse dovrebbero andare principalmente a finanziare grandi progetti infrastrutturali che per loro natura hanno una dimensione europea. È quindi evidente che, in termini di efficacia e di costi, la soluzione ideale sarebbe di avanzare spediti verso la creazione di una sorta di “ministero delle attività produttive” europeo, capace di finanziarsi sui mercati, di raccogliere tributi e di decidere di politiche industriali su scala continentale.
Una soluzione ideale, certo, ma oggi completamente utopica. Intanto per lo scarso appeal che ha in quasi tutti i paesi europei (anche tra i partiti più europeisti). Poi, perché sarebbe impossibile dotare in tempi ragionevolmente brevi le istituzioni europee della capacità tecnica e amministrativa necessaria. Esistono strumenti per gli investimenti transnazionali nell’energia, come i Progetti europei di interesse comune[3], che andrebbero sviluppati e generalizzati ad altri ambiti. Ma è difficile oggi immaginare che si possa fare molto di più in termini di capacità di investimento centralizzata.
Quindi, per quanto non sia ottimale, la capacità di attuare le politiche industriali dovrà essere creata al livello dei Paesi Membri. A questo punto sorgono due problemi. Il primo è che il Patto di Stabilità impedisce, anche ai paesi più virtuosi, piani di investimento delle dimensioni necessarie. Il secondo è che l’elevato debito pubblico, nelle condizioni attuali, rischia di limitare i margini di manovra.
Riformare il Patto di Stabilità
I due problemi vanno affrontati contemporaneamente, riflettendo su un quadro istituzionale coerente. Un quadro che a mio parere si fonda su tre pilastri. Il primo, ne abbiamo parlato molte volte, è quello di una nuova revisione del Patto di Stabilità che riesca veramente a proteggere l’investimento pubblico. La soluzione meno contorta (e già provata in passato in molti paesi) è una “regola d’oro[4]” che escluda le spese di investimento (anche in capitale sociale, come l’istruzione e la sanità) dal limite del 3% di disavanzo. Si tratterebbe di fatto di istituzionalizzare e rendere democratico quello che la Commissione ha proposto di recente sulle spese per la difesa.
Ovviamente, consentire di prendere a prestito per finanziare le spese di investimento porterebbe ad un aumento del debito. È opportuno a questo proposito ricordare che, nonostante i livelli elevati di debito, oggi a livello globale la sostenibilità non è un problema, perché ci sono ancora in circolazione centinaia di migliaia di miliardi di risparmi in cerca di una collocazione. Si aggiunga a questo il fatto che le politiche di Trump rischiano di provocare una fuga dal dollaro e dal debito americano, e si può concludere che anche un significativo aumento del debito europeo plausibilmente sarà assorbito senza problemi.
Un Fondo europeo per l’autonomia strategica
Certo, l’abbondanza di risparmi e bassi tassi d’interesse a livello aggregato garantiscono la sostenibilità globale del debito, ma non escludono che, nell’attuale contesto di frammentazione, un singolo paese non si trovi ad avere difficoltà di finanziamento o addirittura ad affrontare una crisi finanziaria. Ma fintanto che il debito è sostenibile a livello europeo, affrontare i problemi di finanza pubblica di un singolo paese diventa un problema prettamente tecnico. Ed è a questo che servono il secondo e il terzo pilastro.
Nel breve periodo, si potrebbe creare un Fondo sul modello dello SURE[5] (il Fondo creato nel 2020 per finanziare cassa integrazione e altre spese legate al mercato del lavoro nel contrasto alla pandemia). Questo Fondo, forte della garanzia europea, si indebiterebbe a tassi vantaggiosi e presterebbe poi ai paesi membri consentendo, soprattutto a quelli più fragili, di finanziarsi ad un costo più basso di quello che otterrebbero sui mercati. Un uso accorto delle condizionalità potrebbe garantire il coordinamento delle politiche nazionali verso obiettivi comuni: i paesi potrebbero ricorrere ai prestiti del Fondo solo per le spese che congiuntamente si decidesse di scomputare dal Patto di Stabilità.
Un diaframma tra paesi membri e mercati
Questo Fondo potrebbe operare nel breve periodo fin tanto che il terzo pilastro, un’Agenzia del Debito[6], non costruisse un diaframma tra i paesi membri e i mercati. Il meccanismo è tutto sommato elementare: l’Agenzia emetterebbe Eurobond, che servirebbero a finanziare il debito in scadenza dei paesi membri con prestiti perpetui. Le rate (pagamenti degli interessi) sarebbero variabili e legate al rispetto del Patto di Stabilità (nella sua versione della Regola d’Oro), evitando così sia la mutualizzazione del debito sia l’incentivo per i paesi membri a comportarsi in modo irresponsabile.
Progressivamente, quindi, tutto il debito dei paesi europei sarebbe trasformato in prestiti dell’Agenzia, e sui mercati rimarrebbero solo gli Eurobond. Attacchi speculativi a un paese diventerebbero a quel punto impossibili. Infine, ma non da ultimo, L’Agenzia consentirebbe la creazione di un attivo sicuro europeo mettendo fine alla frammentazione dei mercati finanziari europei e offrendo un rifugio agli investitori in fuga dal dollaro.
Insomma, la sfida è quella di costruire un sistema istituzionale che consenta ai paesi membri di attuare politiche di trasformazione strutturale coordinandole verso obiettivi comuni ed evitando che la frammentazione dei mercati finanziari europei li esponga a pressioni che ne limitino l’azione. La revisione del Patto di Stabilità e la creazione di un’Agenzia del Debito, coadiuvate nel breve periodo da un nuovo Fondo SURE, consentirebbero di ottenere entrambi gli obiettivi e aiuterebbero a rimettere il vecchio continente in carreggiata.
Note
[1] Cerniglia F., e Saraceno F. (2025). More with more: investing in the energy transition. 2025 European Public Investment Outlook, Open Book Publishers. https://www.openbookpublishers.com/books/10.11647/obp.0499
[2] Saraceno F. (2025). “Rapporto Draghi: un anno dopo, UE in affanno”, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), 12/12/2025. https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/rapporto-draghi-un-anno-dopo-ue-in-affanno-222789
[3] https://energy.ec.europa.eu/topics/infrastructure/projects-common-interest-and-projects-mutual-interest_en?prefLang=it&etrans=it
[4] Dervis K., and Saraceno F. (2014). “An investment New Deal for Europe”, Brookings, 03/09/2014. https://www.brookings.edu/articles/an-investment-new-deal-for-europe/
[5] Saraceno F. (2020). “Perché la Spagna non vuole il MES (ma solo SURE)”, Domani, 24/10/2020. https://www.editorialedomani.it/idee/commenti/perch-la-spagna-non-vuole-il-mes-ma-solo-sure-jyhmv568
[6] Amato M., Favero C. e Saraceno F. (2022). “Debito dell’Eurozona: collaborare senza mutualizzare è possibile”, Lavoce.info, 04/02/2022. https://lavoce.info/archives/92980/debito-pubblico-delleurozona-collaborare-senza-mutualizzare-e-possibile/
* Francesco Saraceno, economista, vicedirettore di Dipartimento presso OFCE-Science Po a Parigi e Professor of Practice presso il LUISS Institute for European Analysis and Policy (LEAP).
** Il testo qui riportato riprende i temi dell’intervento tenuto da Francesco Saraceno lo scorso 10 ottobre 2025 al panel “Capitalismo, Stato e Europa”, nell’ambito della seconda edizione del “Festival dell’economia critica” organizzato dalla Fondazione Feltrinelli a Milano, con Sbilanciamoci! tra i partner dell’iniziativa. Insieme a Francesco Saraceno, hanno preso parte al panel del 10 ottobre Lucio Baccaro (qui il testo del suo intervento), Vincenzo Comito (qui il testo del suo intervento) e Annamaria Simonazzi (qui il testo del suo intervento), con l’introduzione e la moderazione di Lucrezia Fanti di Sbilanciamoci!.




