La misura, in discussione nel governo, ridurrebbe l’età media della forza lavoro occupata, e aumenterebbe la produttività del lavoro e la capacità innovativa del nostro sistema produttivo
Le preoccupazioni crescenti espresse dal Ministro dell’Economia Padoan che introdurre elementi di flessibilità riguardo all’età del collocamento a riposo abbia conseguenze finanziarie sul bilancio pubblico sono evidentemente fondate: ogni anticipazione di pensionamento implica un corrispondente aumento della spesa pubblica nel breve periodo; solo successivamente si avvertirebbero i risparmi derivanti dal minor importo delle prestazioni interessate.
Tuttavia, il punto da considerare non dovrebbe essere solo e tanto quello finanziario immediato; ciò che occorrerebbe chiedersi è se introdurre elementi di flessibilità sia utile dal più generale e significativo punto di vista economico e sociale e, in prospettiva, per il miglioramento dello stesso bilancio pubblico.
La flessibilità e la sua fruizione per anticipare il pensionamento avrebbero diversi effetti positivi sociali ed economici. In primo luogo, si restituirebbe ad una larga fascia di persone prevalentemente sopra ai sessant’anni la possibilità di attuare i loro programmi di vita improvvisamente bloccati dalla legge Fornero, consentendo dunque di lasciare il lavoro a persone che certamente non sono più molto motivate. Corrispondentemente, si creerebbero posti di lavoro aggiuntivi per i giovani i quali, invece, vivono con grande e comprensibile frustrazione le difficoltà d’iniziare la loro vita lavorativa. Nell’insieme si ridurrebbe l’età media della forza lavoro occupata, con effetti positivi anche sulla produttività (che aumenterebbe) e sul costo del lavoro complessivo (che diminuirebbe). La disponibilità di lavoratori più giovani, motivati e istruiti avrebbe effetti positivi pure sulla capacità innovativa del nostro sistema produttivo che rappresenta la sua principale carenza. Infine, ma non per importanza, la flessibilità dell’età di pensionamento attenuerebbe alla radice anche il problema degli esodati, una delle più incredibili e penose conseguenze della legge Fornero.
Gli stessi effetti finanziari di breve periodo sul bilancio pubblico andrebbero poi valutati anche in rapporto a due circostanze. La prima, di carattere economico, è che l’incremento nell’immediato della spesa pensionistica (compensato da un calo negli anni successivi) e l’aumento dell’occupazione giovanile, darebbero uno sostegno positivo alla domanda che è quanto più necessita attualmente al nostro sistema economico. La seconda, di carattere etico e distributivo, è che, fin dal 1996 – cioè subito dopo le riforme Amato del 1992 e Dini del 1995 – il saldo tra le entrate contributive e le uscite pensionistiche previdenziali al netto delle ritenute fiscali sono consistentemente positive; nel 2013 – l’ultimo anno di cui si hanno i dati – è stato di 21 miliardi di euro (l’equivalente di una legge finanziaria!). Continuare ad attingere al sistema pensionistico per sostenere il bilancio pubblico implica una scelta economica, sociale e politica con effetti controproducenti a tutti e tre i livelli. Pur in presenza di una consolidata tendenza all’invecchiamento demografico che fa aumentare l’indice di dipendenza degli anziani, cioè il rapporto tra anziani e popolazione attiva, l’andamento previsto del rapporto tra spesa pensionistica e Pil non fa registrare nessuna “gobba”, ma – invece – una sua costante diminuzione. La combinazione di queste due tendenze genera un fenomeno cui occorre fare molta attenzione: La pensione media, commisurata sia al salario medio sia al Pil pro capite è in netto calo relativo per il prossimo ventennio. In particolare, il rapporto tra la pensione media e il salario medio che oggi è del 45%, scenderà progressivamente fino a raggiungere il 33% tra vent’anni. Si sta dunque creando un divario crescente tra la partecipazione al Pil degli attivi e quella dei pensionati.
Il problema strutturale dell’attuale assetto del sistema pensionistico è che sta creando una vera e propria bomba sociale implicita nella convinzione sempre più confortata dai numeri e percepita nell’opinione pubblica che in pochi anni la maggioranza dei pensionati sarà costituita da poveri.
La questione più generale e di lungo periodo che andrebbe valutata anche rispetto alla scelta se reintrodurre o meno elementi di flessibilità nel sistema pensionistico è il modo in cui, nel nostro paese, i responsabili delle scelte economiche e politiche stanno affrontando una crisi iniziata già un quarto di secolo prima di quella globale. Il loro approccio conformistico e controproducente continua ad accentuare le carenze strutturali del nostro sistema produttivo, cioè essi concentrano l’attenzione sugli equilibri finanziari di breve periodo, sulla riduzione del costo del lavoro e sulla competitività di prezzo, trascurando invece di stimolare l’innovazione e una crescita più duratura e sostenibile. Per quanto riguarda le politiche sociali e previdenziali, i nostri policy makers, probabilmente senza rendersene conto, stanno anche intaccando la tenuta del patto sociale tra le generazioni i cui effetti potrebbero riflettersi in un peggioramento organico delle condizioni di convivenza sociale e della collaborazione tra le generazioni, a discapito non solo degli equilibri economici ma anche di quelli sociali e civili.
L’impressione è che queste problematiche non siano al centro dell’attenzione degli opinion makers e dei politici, i quali sembrano pensare ad altro rispetto ai problemi della transizione storica aperta dalla “Grande recessione”, senza percepire, come avvertiva Keynes, che “sono di solito schiavi di qualche economista defunto”