Continente Grecia/Per la prima volta da decenni, in Europa un partito svela la natura di classe del conflitto tra creditori e debitori. E offre una risposta non nazionalista
La posta in gioco è, innanzitutto, la rianimazione della democrazia sostanziale dopo una lunga fase di ibernazione, dovuta a cause culturali e politiche prima che economiche. Sul piano culturale, viene sfidato in termini competitivi, speriamo vincenti, il pensiero unico di matrice liberista. Per la prima volta da decenni, in Europa, il partito in testa nelle rilevazioni di voto esprime un paradigma autonomo dal neo-liberismo, versione hard (destre) o soft (sinistre delle “Terze Vie”), e propone una ricetta alternativa e realistica alla svalutazione del lavoro: taglio del debito; innalzamento della domanda aggregata, welfare universale, investimenti, regole meno squilibrate per i licenziamenti, redistribuzione del reddito a cominciare da un livello di dignità del salario minimo. Per la prima volta da decenni, in Europa, il partito in testa nelle rilevazioni di voto svela, oltre al conflitto economico tra Stati, la natura di classe del conflitto tra creditori e debitori, dove l’aristocrazia della finanza e dell’economia internazionale e interna, assistita dalle tecnocrazie presunte super-partes, afferma i propri interessi, in modo miope e feroce, contro le classi medie e il popolo del lavoro subordinato, dipendente, precario o autonomo. Per la prima volta da decenni, in Europa, l’alternativa possibile al neo-liberismo è popolare senza essere populista e assume caratteri progressivi e non i segni nazionalisti e xenofobi.
Di fronte alla possibile vittoria di Syriza, la reazione isterica dei cosiddetti mercati, in realtà vertici di enorme concentrazione di potere finanziario, mediatico e politico non è dovuta alle possibili perdite economiche delle istituzioni multilaterali e di alcuni Paesi europei (i grandi creditori privati sono stati già largamente saldati). Sono ridicole le quantità in gioco nella comunque inevitabile ristrutturazione del debito pubblico greco. L’establishment transnazionale è preoccupato per la relativizzazione e il riconoscimento degli interessi forti dietro l’ideologia finora presentata come pensiero unico. Dopo decenni di marginalità della politica democratica, preoccupa il ritorno attivo dei cittadini sul terreno dell’economia: luogo reso inaccessibile al demos in quanto imposto come a-politico e determinato da logiche oggettive e astratte dai valori e dagli interessi materiali. Quindi, spazio da affidare a autorità “indipendenti” per la politica monetaria, a algoritmi “neutri” per la finanza pubblica, all’autoregolazione per la finanza e alla deregolazione per i movimenti di capitali e gli scambi di merci e servizi.
Insomma, la Grecia può incominciare l’arduo cammino di restituire senso alla democrazia. Tre anni fa, il Primo Ministro Papandreu fu rimosso quando tentò la strada del referendum sul programma dettato per conto terzi dalla Troika e sostituito, come in Italia, con un “governo tecnico”. Qualche giorno fa, da Berlino, Francoforte e Bruxelles sono tornati alla carica: “Ogni governo deve rispettare gli obblighi contrattuali del precedente governo”. Ma qui è il punto politico: l’ambito e la portata degli accordi iniqui e fallimentari finora attuati è tale da annullare ogni spazio di scelta democratica. E allora, perché fare le elezioni? Chi cerca disperatamente un’altra strada per uscire dall’inferno della disoccupazione, del lavoro senza dignità, dell’impoverimento e della povertà perché dovrebbe votare quando nulla è da decidere? E, ancor di più, perché dovrebbe votare per una sinistra che, come in Italia, si è distinta e distingue dalla destra soltanto per il maggior “senso di responsabilità nazionale” nell’attuazione dell’unica agenda ritenuta possibile? Qui sta la radice della cosiddetta “anti-politica” passiva (astensione dal voto) e attiva (voto anti-sistema): una reazione razionale dato che i parlamenti nazionali sono sostanzialmente svuotati di funzioni. Non è un caso che tutti i partiti del variegato Pse, subalterni da tre decenni al pensiero unico liberista, sono in grande difficoltà e finiscono “naturalmente” nelle grandi coalizioni rappresentative di una minoranza sempre più ristretta di elettori. Non è un caso che le speranze di vittoria della sinistra siano riposte su formazioni neo-nate fuori dall’alveo del socialismo europeo (oltre a Syriza in Grecia, Podemos in Spagna). Il collasso del Pasok rischia di anticipare un destino comune per il club dei socialisti e democratici europei: la marginalità o la scomparsa dove vi sono destre di sistema o la sopravvivenza come involucro del partito dell’establishment dove non vi sono, come in Italia.
Speriamo che dalla Grecia arrivi un messaggio controcorrente per la democrazia, per la dignità del lavoro, per l’euro-zona e per la sinistra. Je suis grec.