Contro il razzismo, non bastano slogan e indignazione: servono processi di apprendimento e alfabetizzazione
In una mail che ho ricevuto nei giorni scorsi da un amico (“immigrato”, “africano“; vive in Italia da molti anni) c’era questa frase: “Vediamo tutti che le cose peggiorano… le nostre indignazioni non bastano più”. Siamo società di “razzismi”, di discriminazioni (e di “populismi”: un dato, questo, che segna un numero crescente di contesti europei). Abbiamo studi e documenti di denuncia: sull’Unità, da alcuni anni ormai, la Rassegna stampa quotidiana sull’immigrazione; due testi molto recenti sono L’Italia è razzista? Dove porta la politica della paura (Almanacco Guanda), e Cronache di ordinario razzismo: secondo libro bianco sul razzismo in Italia (Edizioni dell’Asino 2011). Raccolgono segnali di vario tipo, appunto, su discriminazioni e “razzismi”. E in questi giorni il tema è stato al centro di analisi e dibattiti sui media. Gli eventi particolarmente dolorosi della scorsa settimana li abbiamo ben presenti: l’incendio al campo rom a Torino, con il rischio che morissero o rimanessero ustionate persone che ci vivevano “normalmente”; e a Firenze l’uccisione di alcuni uomini della comunità senegalese: anche qui, persone che svolgevano attività “normali”, passavano una giornata come le altre. Sofferenze, lutti. Abbiamo visto tante persone delle comunità senegalesi, in diverse città, attivarsi per testimoniare cordoglio e preoccupazione e per portare l’attenzione sulla gravità della situazione. “Loro”, ancora una volta, hanno preso la parola. È importante.
E anche “noi” abbiamo espresso solidarietà e indignazione: dunque “Dire no al razzismo”, “Basta razzismo”, “L’Italia antirazzista”. Ma ritorno alla frase che ho messo all’inizio di questa riflessione: “… vediamo tutti che le cose peggiorano… le nostre indignazioni non bastano più”. Penso che questa debba essere un’occasione per riflettere. Interroghiamoci su come lo affrontiamo, questo problema. Così come non accettiamo che si banalizzino i dati della crisi da cui siamo investiti, e si è capito (così almeno mi pare) che abbiamo davanti un percorso difficile e lungo, affrontiamolo in modo esplicito questo dato: in tanti siamo “contro il razzismo”; da anni molti dichiarano con forza di essere “antirazzisti”, e si attivano. Non basta. Dichiarare la nostra indignazione, semplificando la complessità dei dati del nostro presente e del nostro futuro, non aiuta a risolvere (forse, aggrava) i problemi. Per trovare soluzioni, per provare a capirla, questa fase, per reagire ai problemi della nostra società razzializzata, davvero serve raccogliere e pubblicare, denunciandole, le espressioni e le iniziative dei “razzisti”; e definirsi (con forza, con enfasi, spesso) “antirazzisti”: dunque quelli che sono contro, che dicono “no”. Davvero crediamo che in questo modo si possa contribuire a risolvere un pesantissimo dato (le gerarchie, le violenze, l’odio) che, in forme diverse, riguarda “noi umani” da sempre? Che la politica e i media abbiano oggi un ruolo centrale lo sappiamo: le parole, le immagini, i modi di presentare le notizie: emergenza; pericolosità sociale; tolleranza zero; insicurezza. E le “categorie”: rom, zingari, negri, marocchini… L’elenco potrebbe essere lungo. Affrontare questo dato: viviamo in una società razzializzata. Pesano strutture e pratiche radicate, diffuse; nella vita quotidiana ostilità, paure. È a questo complesso scenario che dobbiamo guardare. E diciamolo, che abbiamo davanti anche contraddizioni, silenzi, arretramenti. E tutti siamo in gioco. Utilizzo un termine inglese, racial profiling che mette in luce qualcosa di più rispetto a “pregiudizi”, “stereotipi”. Il profiling – processo mentale, meccanismo emotivo e simbolico – è “normale”, tutti lo pratichiamo nella nostra vita quotidiana. I “profili” servono a situare le tante persone con le quali veniamo a contatto nel nostro vivere di ogni giorno; e ci comportiamo di conseguenza. Li costruiamo, i profili: siamo attivi in questo meccanismo mentale, e nelle relazioni e nei comportamenti che ne derivano. Appunto, ci siamo tutti. Forse la sola cosa da fare è questa: riconoscere i molti aspetti della questione (a medio, e anche a più lungo termine). Cercare di capire dove e come interagire (non soltanto, come in genere avviene, in situazioni dove è scontata una posizione condivisa, la posizione di quelli che sono “già convertiti”). Interrogarci su come si possa davvero in qualche modo incidere.
Io lo dico così. Abbiamo bisogno, su queste come su altre questioni, di occasioni di apprendimento: forse, meglio, di alfabetizzazione. Capire che tutti noi dobbiamo impegnarci a portare l’attenzione sui processi di una società in cambiamento (e in crisi) a livello “globale”; sulle diversità con cui confrontarci in ogni aspetto della quotidianità; e sulle nostre resistenze. Certo, le forme estreme di intolleranza e odio è necessario conoscerle, contrastarle: ma fermarci a questo non basta. Letture complesse, forme di “insegnamento” (non i contributi “accademici”, a costruire scenari futuri, pure necessari: intendo per il vivere di tutti i giorni, per imparare a viverci, in questo contesto) non ce ne sono. E però è qualcosa che ci riguarda tutti. E si tratta di una storia pesante, e lunga. Dunque porre in essere occasioni di apprendimento, di alfabetizzazione: sono parole forti, ma forse si tratta proprio di rendere visibile un passaggio – davvero impegnativo – da affrontare. Collocandoci, è ovvio, nella prospettiva di un’Europa che vorremmo – evitando enfasi e retorica – decente; e degli anni che abbiamo davanti.