L’immagine che emerge dal rapporto annuale dell’Istat mostra un paese che non riesce ad affrontare i nodi che ne hanno determinato la debolezza già da prima dell’inizio della crisi mondiale e che ora ne frenano la ripresa
L’immagine che emerge dal rapporto annuale dell’Istat mostra un paese che non riesce ad affrontare i nodi che ne hanno determinato la debolezza già da prima dell’inizio della crisi mondiale e che ora ne frenano la ripresa
Un paese che non riesce a riprendersi, in cui solo il 30 per cento delle imprese crea domanda di lavoro. Un paese che ha investito e investe poco in cultura, istruzione, ricerca, innovazione, a livello sia individuale sia sociale, sia privato sia pubblico, con il risultato che riesce contemporaneamente ad avere troppo pochi laureati e troppi laureati sotto-utilizzati, a costringere i giovani con livelli di istruzione elevata a emigrare senza garantire ai meno qualificati possibilità di lavoro. Un paese in cui tutte le ultime riforme – da quella sull’età della pensione a quella del mercato del lavoro (inclusa l’ultima ancora in discussione) – sono state fatte in nome di un riequilibrio a favore delle generazioni più giovani, ma con il risultato che le disuguaglianze a sfavore dei giovani sono aumentate, perché sono loro a sperimentare i maggiori rischi di disoccupazione e di precarietà lavorativa, mentre la composizione per età degli occupati si è ulteriormente alzata, soprattutto a causa della riforma delle pensioni.
Un paese in cui troppi giovani non riescono a raggiungere una ragionevole autonomia economica, rimanendo a carico dei propri genitori ad una età in cui dovrebbero invece poter formare una propria famiglia e diventare a propria volta genitori. Ed infatti il tasso di fecondità è tornato a diminuire, soprattutto nel Mezzogiorno che nel giro di pochissime generazioni ha raggiunto e superato il Centro-Nord nella discesa della fecondità non già a seguito di una riduzione delle differenze territoriali, ma a causa di un loro allargamento. Nel Mezzogiorno si concentrano oggi tutti gli indicatori di una società che non investe più in nulla, tanto meno nelle future generazioni: alti tassi di disoccupazione, bassissimo tasso di occupazione femminile, insieme, tuttavia, ad un aumento delle famiglie in cui è la donna a mantenere la famiglia perché il marito è disoccupato, altissima concentrazione di Neet, di giovani che né studiano né lavorano, alta incidenza della povertà. Un paese in cui, a fronte di un aumento delle famiglie in cui nessun adulto in età da lavoro è occupato, aumentano le famiglie, anche di non soli pensionati, in cui l’unico, o principale, reddito disponibile è una pensione: in cui è un pensionato a mantenere gli altri membri della famiglia, adulti o minori. È un fenomeno tipico delle società povere, dove la pensione è il primo strumento di welfare ad essere introdotto e che in Italia era un tempo presente soprattutto nel Mezzogiorno, ma che negli ultimi anni si sta diffondendo anche in altre aree del paese, a motivo del persistere della crisi occupazionale ed anche della mancanza di ammortizzatori sociali universalistici, a partire da una misura di sostegno al reddito dei poveri. D’altra parte, nonostante l’esiguità di molte pensioni, il reddito pensionistico è l’unico ad aver tenuto negli anni della crisi e i pensionati gli unici ad aver mantenuto una capacità di consumo vicina a quella dell’epoca precedente la crisi. Anche se può capitare che nel loro carrello della spesa compaiano pannolini per i bambini, latte in polvere, nutella e biscotti, ovvero prodotti per i loro nipoti che i genitori non possono permettersi di acquistare.
L’immagine che emerge dal rapporto annuale dell’Istat mostra un paese che non riesce ad affrontare i nodi che ne hanno determinato la debolezza già da prima dell’inizio della crisi mondiale e che ora ne frenano la ripresa. Anche perché le politiche fin qui messe in campo li hanno ulteriormente irrigiditi. Non basta il ritorno di fiducia dei consumatori, pure documentato nel rapporto. Anche perché sembra, al momento, rimanere più a livello di un mutamento nel giudizio sulla situazione del paese (testimoniato anche dal risultato delle elezioni) che non di comportamento. Anzi, il comportamento di consumo sembra diventato ancora più cauto di prima, visto il perdurare delle difficoltà. Per la prima volta, infatti, dall’inizio della crisi nel 2013 la contrazione dei consumi finali delle famiglie, che ormai coinvolge anche le spese per le cure mediche, è stata a superiore a quella del reddito disponibile. In altri termini, per quanta fiducia teorica abbiano nelle possibilità della ripresa, l’esperienza concreta induce a contenere ulteriormente i consumi per risparmiare in vista di ulteriori peggioramenti o comunque non miglioramenti.
Il timore del ministro Padoan che gli 80 euro di rimborso fiscale ai lavoratori a basso salario vadano in risparmi anziché in consumi, quindi non abbiano un effetto di volano per l’economia, è empiricamente fondato. Fino a che non si sarà ricostituito un orizzonte di ragionevole sicurezza sulla tenuta dei bilanci famigliari, soprattutto chi ha redditi modesti ed è l’unico percettore di reddito tenderà a costruire per sé e la propria famiglia una rete di protezione privata tramite il risparmio. Come dar loro torto?