Top menu

Non è nonviolenza se non cambia il contesto

Costruire la pace in Ucraina richiede una trasformazione delle prospettive e degli attori coinvolti, iniziative che estendano la democrazia in Europa, moltiplicando le opzioni per la soluzione del conflitto.

L’11 luglio 2022 a Kiev la delegazione del Movimento Europeo di Azione Nonviolenta (MEAN) ha incontrato autorità e società civile ucraina (vedi http://www.vita.it/it/article/2022/07/13/cosa-resta-della-nostra-missione-a-kiev/163548/). Il successo di questa iniziativa, oltre che per gli interventi del sindaco e vicesindaca, del nunzio apostolico e di esponenti autentici della società civile, è misurabile dal fatto che nessuno, ma proprio nessuno, ne è uscito uguale a come vi è entrato. Quando una cosa del genere succede, c’è una commozione che la rende palpabile e che tutti noi, nonostante le differenze di posizione anche al nostro interno, abbiamo toccato  con mano. Il messaggio fondativo di MEAN è stato: “Veniamo come esponenti della società civile europea per stabilire una alleanza con la società civile ucraina, basata sull’ascolto reciproco e la definizione congiunta di un futuro desiderabile”. 

La piccola delegazione di MEAN, di cui ho fatto parte, era già stata in precedenza un paio di volte in Ucraina, a Leopoli e dintorni, con la scopo di creare le condizioni di un vero dialogo e co-protagonismo su questo terreno. Le reazioni iniziali degli interlocutori ucraini sono state: “Non abbiamo tempo per queste cose! Adesso abbiamo bisogno di armi, di sanzioni e aiuti umanitari”. “Al futuro desiderabile penseremo dopo aver sconfitto le truppe russe.” Anche da parte italiana ci sono piovute addosso critiche analoghe “Non abbiamo tempo per iniziative come la vostra, l’urgenza vera sono gli aiuti umanitari e convincere gli ucraini a deporre le armi”, “Non siete abbastanza puri, pacifisti, e ancor meno nonviolenti” e così via. Quello che è successo è che invece la fusione trasformativa è avvenuta, con nostra enorme sorpresa e gioia, rilevata e sottolineata in particolare negli interventi del Nunzio apostolico, che vi invito a trovare nel link riportato qui sopra. Ed è importante capire cosa e come è successo. 

Anche io, come tutti gli altri, ho sentito il bisogno, una volta tornati, di tracciare una mappatura del dibattito complessivo alla luce di queste esperienze e discussioni intensissime. Nel farlo metterò al centro della mappa le possibilità di gestione creativa dei conflitti, un tema di cui mi occupo da più di 40 anni e che è diventato uno dei pilastri dell’approccio del MEAN.   

Il criterio di fondo per verificare se nel nostro agire, o nell’agire di cui ci occupiamo, è presente una gestione creativa dei conflitti, è dato dalla risposta a questa domanda: “Sta aumentando concretamente, per davvero, il repertorio di risposte a disposizione dei singoli e delle organizzazioni?” E’ chiaro che se una disputa riguarda unicamente le opzioni A e B, saranno possibili certi esiti;  se nel corso dell’interazione le scelte si moltiplicano e diventano  da A a F, la possibilità di trovare soluzioni di reciproco gradimento aumentano. Questo criterio vale per le singole persone che devono prendere una difficile decisione, ma vale anche per le organizzazioni, i governi e i processi partecipativi.

Questo approccio discende da quella che è stata chiamata “La prima legge della cibernetica” o “Legge di Ashby” dallo studioso che per primo l’ha formulata, e l’ampliamento delle opzioni che prescrive non è tanto quello fra le alternative presenti all’interno di un certo contesto, quanto quello che consegue al cambiamento del contesto stesso. Per evitare la perpetuazione del conflitto o la sua escalation è necessario il passaggio dal problem solving al problem setting, una “uscita” dal modo dominante di intendere il problema per vederlo sotto una nuova luce.

Ci sono dunque due livelli ai quali possiamo impostare la discussione. Uno è: stante l’attuale quadro geopolitico, quali sono le alternative per i vari attori in causa? L’altro è: possiamo cambiare questo quadro in modo da ampliare le opzioni di ogni attore e rendere possibili soluzioni finora inedite, ma di comune gradimento? Cambiare il quadro implica pensare out of the box, mettere in gioco attori e variabili che prima venivano assunte come date e/o lasciate sullo sfondo.   

Se siamo consapevoli di non sapere, l’atteggiamento giusto non è quello giudicante: giusto/sbagliato, vero/falso, amico/nemico, ma quello esplorativo. Si tratta di andare a cercare esperienze illuminanti che aiutano una dislocazione dello sguardo e da cui trarre qualche inaspettato insegnamento. La gestione creativa dei conflitti tipicamente opera attraverso lo studio sistematico dei casi di conflitto risolti positivamente e di quelli in cui il conflitto si è perpetuato. E invita a riflettere su quali dinamiche sono state messe in atto qui e non là.

 Accenno qui a due casi, entrambi molto utili per impostare in modo inedito e più fruttuoso il nostro rapporto con la lotta della popolazione ucraina e per definire una prospettiva politica in grado di aiutare le popolazioni coinvolte in situazioni di tensione ad assumersi in prima persona, con l’aiuto dei governi, il ruolo di costruttori di pace. Sono due casi di approccio nonviolento molto affini a quello di Alex Langer, utili per interpretare la situazione ucraina con maggiore creatività.

Il primo caso  è l’esperienza del movimento dei diritti civili all’inizio deli anni ’60 negli Stati Uniti, quello di Martin Luther King. Frequentavo nel 1961 l’ultimo anno della High School a Minneapolis, e ho avuto la fortuna di incontrare nella locale università un professore di sociologia e i suoi allievi che erano attivisti del movimento dei diritti civili e andavano nel sud degli Usa a persuadere i neri a iscriversi nelle liste per avere accesso al voto. Era una missione pericolosa, come poi alcuni film hanno documentato, ed io ero piena di ammirazione per il loro coraggio e i loro valori. Ascoltandoli ho incominciato a capire in cosa consisteva l’uscita dai paradigmi dati che stavano attuando, come andavano sviluppando la loro rivoluzione della dignità, denominazione che è stata fatta propria dal movimento di piazza Maidan, ma che è ugualmente pertinente per ogni movimento che abbia la nonviolenza come cifra dominante.

Negli Stati Uniti la discussione sulla questione del razzismo fino a quel momento era bloccata su due leitmotif che coprivano quasi tutto il campo semantico relativo. Quello più frequente, era del tipo “Non sono razzista, ma … bisogna per onestà riconoscere che … i negri puzzano” (o rubano, sono pigri, sono meno intelligenti di noi, etc.), accompagnata da: “I torti non stanno mai da una parte sola”. L’altro filone era la richiesta di mettere fuori legge i razzisti del Ku Klux Klan, di processarne i membri e metterli in prigione. 

L’ancora attuale libro An American Dilemma dell’economista e sociologo svedese Gunnar Myrdal, uscito in prima edizione nel 1944, illustra il circolo vizioso e gli effetti di profezia che si auto-adempie di cui queste posizioni sono prigioniere. Moltiplicazione delle opzioni: zero.

Il movimento dei diritti civili mette in moto una prospettiva completamente altra. Lo slogan è: smettiamola di essere complici dei nostri aguzzini! Assumiamoci le nostre responsabilità. I neri sono cittadini americani che fino a quel momento – succubi della ideologia dominante – non hanno saputo lottare per realizzare i principi e le promesse della democrazia americana. Col movimento dei diritti civili, i neri non solo proclamano di avere diritto ad entrare nei ristoranti, bagni pubblici e scuole, viaggiare sui mezzi pubblici come tutti gli altri, ma si organizzano per esercitarlo questo diritto, in modo da rendere ben chiaro a tutta la opinione pubblica chi è il violento e chi l’aggredito. Ai corsi di azione nonviolenta partecipano centinaia di giovani donne ed uomini. Sono approcci importati direttamente dall’India e di solito questi corsi sono tenuti all’interno di chiese battiste. Questa liberazione è accompagnata da un enorme senso di fierezza collettiva, in una atmosfera di festa e di allegria. L’obiettivo non è più il razzismo, è la democrazia.  Ovvero: se lotto per la democrazia, riesco a sconfiggere anche il razzismo, se mi limito a denunciare il razzismo, la mancanza di democrazia mi azzoppa. L’alleanza con i bianchi (“we shall overcome“) avviene su questo terreno: i bianchi  non sarebbero in grado di rivitalizzare la democrazia americana senza l’aiuto del ceto sociale che più di tutti ne dimostra l’assenza. Proprio per questo il sottotitolo del libro di Myrdal è: The Negro Problem and Modern Democracy. 

Applichiamo quest’approccio alle reazioni che la guerra in Ucraina suscita fra noi. Parlando a Leopoli e a Kiev con i nostri interlocutori ucraini, ascoltando le loro esperienze di quel che è successo nel loro paese e quel che sta succedendo, mi ha molto colpito che noi vediamo la loro difesa armata come una risposta all’aggressione russa, mentre loro la vedono  come una lotta in difesa della libertà contro un tentativo arrogante e feroce di sottomissione. Ed è  per questo che ogni suggerimento di deporre le armi li ferisce, li fa stare veramente male. Li offende. 

E allora si aprono tre scenari. 

Il primo è la posizione di chi riconosce che questo non è un popolo che sta chiedendo col cappello in mano di poter fare il suo ingresso nella casa dei padroni della democrazia europea dalla porta di servizio. E’ il popolo sulla cui pelle si è consumato l’assenza e il fallimento della democrazia europea. E’ il popolo che con la sua resistenza ci sta offrendo l’opportunità di riprendere un cammino colpevolmente abbandonato: quello di costruire i presupposti per un’Europa più forte, autonoma e autorevole in un mondo globalizzato. Un’Europa non più dei singoli stati, ma dei cittadini, un’Europa in grado di svolgere il ruolo di costruttrice di pace sia al proprio interno che nelle relazioni internazionali, nei rapporti con gli altri continenti. E’ a Kiev e non a Bruxelles che si sta scrivendo un nuovo capitolo nella storia della costruzione della democrazia europea. Il titolo potrebbe essere: “The Ukranian Problem and Contemporary Democracy.” 

Il secondo scenario è la posizione di coloro che sono contro l’aggressione russa, ma … “per amore della verità bisogna ammettere che gli ucraini puzzano”. Ci sono gli oligarchi, c’è il battaglione Azov, c’è la messa fuorilegge dei partiti filorussi, la persecuzione degli obiettori di coscienza che non si limitano a rifiutarsi di entrare nell’esercito, ma lavorano per la diserzione nelle file dell’aggredito. Insomma: saranno anche aggrediti, ma sono anche aggressori. Il torto non sta mai da una parte sola. Moltiplicazione delle opzioni: zero. Qui abbiamo posizioni puramente moralistiche che astraggono da qualsiasi contingenza storìca. E qualche lettura di Gandhi sulla distinzione dei casi in cui non reagire è nonviolenza e quelli in cui è viltà, aiuterebbe se non altro a capire le reazioni degli ucraini agli inviti a deporre le armi.  

Il terzo scenario è quello dei politici realisti, intendendo per “realisti” coloro che si rivolgono all’Europa e all’Onu come se esistessero davvero, quando hanno ampiamente dimostrato di non esistere. Sia l’attuale dibattito a livello diplomatico/politico nelle alte sfere (ad esempio, The Munk debate, Toronto 12 maggio 2022) che i temi e slogan di Europe for Peace con la loro recente mobilitazione in molte città italiane, si collocano dentro i parametri dati. “La guerra va fermata subito e va trovata una soluzione negoziale” con una “conferenza internazionale di pace per ricostruire le condizioni di una sicurezza comune e condivisa in Europa.” Sono affermazioni che assumono che la soluzione ci sarebbe, manca la volontà, mancano i rapporti di forza per imporla. Mentre in realtà mancano i soggetti, vanno costruiti gli attori. E’ vero che bisogna far tacere le armi, ma non è vero che “non c’è nessuna guerra da vincere”.

Moltiplicazione delle opzioni: prima o poi questo tipo di mobilitazione può portare a negoziati e accordi del tipo di Dayton. Ovvero a un cessate il fuoco che perpetua il contesto che la guerra l’ha provocata.

L’unico scenario, in questo quadro che può prefigurare una moltiplicazione delle opzioni di tipo creativo è il primo. E’ indubbio che oggi come oggi avere il coraggio di prefigurare una diversa scacchiera che apre a nuove mosse appare un compito impossibile. Ma è anche vero che nel disastro delle emergenze climatiche, sanitarie, del divario economico crescente e le migrazioni di massa, etc, sono esattamente le soluzioni impossibili che possono infine apparire le più logiche e passibili di improvvise accelerazioni.  E’ così che avvengono i cambi di paradigma.

Il primo passo è quello che ci ha indicato il Nunzio apostolico Visvaldas Kulbokas nel suo intervento a Kiev: “Qui tocchiamo il culmine del nostro incontro: come costruire la pace? Come costruirla, quando vediamo che sembrano non aver risultato né i tentativi dei leader politici del mondo, né l’esistenza del Consiglio di sicurezza Onu, né gli appelli del Papa, del Consiglio delle chiese e delle Organizzazioni religiose ucraine e mondiali? Dobbiamo dirci che, intanto, far crescere una unità di pensieri e di sentire tra le società civili è lavoro importante, essere insieme è importante. Così come è importante stare vicino al popolo e alle vittime.”

Si tratta di costruire un Movimento Europeo di Azione Nonviolenta avente come scopo quello di vincere questa guerra contro le resistenze al cambiamento, le miopie politiche, gli stili di pensiero e di governo rimasti bloccati al XIX secolo. Un movimento che si proponga di affiancarsi alla lotta del popolo ucraino per rilanciare l’opzione federalista europea, consapevole che così facendo sarà possibile lottare anche contro le oligarchie, non solo ucraine, per una democrazia inclusiva e trasparente non solo in Ucraina, e specialmente per degli assetti di potere in grado di intervenire a tempo debito nei territori in crisi grazie a strutture di potere con gli anticorpi contro la violenza e la guerra. 

Il secondo caso che vi propongo parte dal discorso all’Onu tenuto da Martin Kimani, ambasciatore del Kenya, uno degli interventi più lucidi e lungimiranti sul comportamento della Federazione Russa e sulla situazione in Ucraina che mi sia capitato di leggere. Forse non a caso opera di un non-europeo. Nel corso dell’inaugurazione di un albero dedicato ad Alex Langer nel Giardino dei Giusti a Roma, dovendo intervenire a nome della Fondazione Langer, ho deciso che  lasciare la parola a Martin Kimani era il modo migliore di rendere omaggio ad Alex  per la sintonia con la sua impostazione di costruttore di ponti e saltatore di muri, nonchè traditore ma non transfuga della compattezza etnica. E’ un intervento molto breve e lo riporto qui.

“Il Kenya, come quasi ogni altra nazione africana è un Paese nato dalla fine degli imperi. I nostri confini non sono stati tracciati da noi, ma a Londra, a Parigi, a Lisbona, senza alcun riguardo per gli insediamenti delle antiche nazioni, i cui territori sono stati divisi e sventrati. 

Oggi al di là dei confini di ogni singolo stato d’Africa vivono comunità con le quali condividiamo profondi legami storici, culturali, linguistici. Ma se al momento dell’ indipendenza avessimo scelto di creare degli stati basati sulla omogeneità etnica e razziale, avremmo innescato decenni di guerre sanguinose. Invece abbiamo deciso di tenerci i confini che ci erano stati assegnati senza consultarci e di non interpretarli come barriere, ma come una sfida per perseguire una integrazione politica, economica e sociale a livelli più ampi e più alti. 

Al posto di formare nazioni con lo sguardo rivolto al passato, sulla base di una pericolosa nostalgia, abbiamo deciso di guardare al futuro, alla ricerca di una grandezza che nessuno dei nostri popoli ha mai ancora conosciuto e nessuna delle nazioni originarie sarebbe stata in grado di sognare. Abbiamo scelto di seguire le regole dell’Organizzazione per l’Unità Africana e lo Statuto delle Nazioni Unite, non perchè i nostri confini ci soddisfano, ma perché vogliamo qualcosa di più grande, forgiato nella pace. 

Crediamo che tutti gli stati nati dagli imperi che si sono sfaldati o si sono ritirati, hanno al loro interno una molteplicità di popoli desiderosi di integrazione con i popoli circostanti. Questo è normale e comprensibile; in fin dei conti chi non vuole unirsi con i propri affini con i quali condividere e realizzare progetti e visioni comuni? Ma al tempo stesso il Kenya ha rigettato questa scorciatoia alla convivenza, specialmente la dove comporterebbe il ricorso alla violenza e alla guerra. Dobbiamo agire nel senso di una più ampia inclusività, in modo tale da non incorrere in nuove forme di dominazione e di oppressione.” 

Questo discorso è stato pronunciato all’Onu il 22 febbraio, due giorni prima dell’invasione russa in Ucraina. Se lo prendiamo sul serio dobbiamo chiederci come mai quello che stava succedendo era molto più chiaro in un paese africano che non in quelli europei. 

Dobbiamo chiederci quali sono state le nostre analisi, reazioni, risposte, di noi paesi europei, di fronte al maturare nei decenni di una strategia della Federazione Russa basata su uno sguardo sempre più “rivolto al passato sulla base di una perniciosa nostalgia”. E quali mosse (nel 1989 alla caduta del muro? nel 1991, alla fine del Patto di Varsavia?) avrebbero favorito – sia sul fronte occidentale che su quello orientale – l’aprirsi verso il futuro “alla ricerca di una grandezza che nessuno dei nostri popoli ha mai ancora conosciuto e nessuna delle nazioni originarie sarebbe stata in grado di sognare.”  

Se nel cuore dell’Europa si è potuta sviluppare una guerra con motivazioni e tratti tribali, la prima cosa da riconoscere è che questo è prima di tutto un fallimento nostro, di noi cittadini europei  e delle nostre rappresentanze politiche. Abbiamo dormito e, come nei quadri di Goya, il sonno della ragione ha prodotto mostri. 

E’ mancato un protagonista politico autorevole capace di “trasformare le differenze in risorse” e di impegnarsi, accanto alle società civili dei vari paesi europei, a riconsiderare il significato di “confini” nell’ottica di costruire qualcosa di più grande, forgiato nella pace.

Alex Langer sui temi dei confini e delle identità multiple ha sviluppato una delle sue proposte più importanti, tutta ancora da rendere operativa, che consiste nel dotare l’Europa (un’Europa vera, tutta da costruire) di un forte e numeroso dispositivo di Corpi Civili di Pace. Ho pochi dubbi che avrebbe telefonato a Martin Kimani e che prima o poi avrebbero organizzato un incontro anche in Kenya per discutere come si sviluppa quell’esperienza, se e come stanno anche loro affrontando il tema dei Corpi Civili di Pace.

Senza questo atteggiamento da esploratori di mondi possibili, non c’è la visione, non c’è la missione. Moltiplicazione delle opzioni per i popoli della terra: zero.