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Non chiamatele (soltanto) WBO

Il movimento delle imprese recuperate dai lavoratori si sta affermando in Italia, in Europa e nel mondo come un’alternativa concreta all’ordine del capitalismo neoliberale. Vi si intrecciano diverse forme e storie di conflitto, mutualismo, resistenza.

Un movimento diffuso e variegato si sta aggirando tra Europa e Sudamerica nel corso degli ultimi anni: quello delle imprese recuperate dai lavoratori.

Venerdì 12, sabato 13 e domenica 14 aprile Trezzano sul Naviglio è diventata la capitale temporanea di questo movimento. Da qualche anno a questa parte militanti e attivisti di tutta Italia hanno imparato a conoscere il nome di questa piccola località lombarda grazie alla presenza della Rimaflow. Sono i suoi stabilimenti a ospitare l’“incontro euromediterraneo dell’economia dei lavoratori”, una delle principali occasioni in cui i delegati delle imprese recuperate di tutto il mondo, sindacalisti, attivisti e militanti europei e sudamericani si danno appuntamento per scambiarsi esperienze, aggiornare il quadro della situazione nei relativi paesi e coordinare azioni. Il prossimo incontro, questa volta internazionale, avrà luogo a San Paolo il prossimo settembre.

Una (bella) storia nata lungo le rive del Naviglio

La Rimaflow è nata dall’occupazione dei capannoni dell’ex Maflow, una delle aziende del comparto automobilistico italiano fallite in seguito a speculazioni finanziarie e al tentativo – purtroppo riuscito – di delocalizzazione degli impianti produttivi in Polonia. Dopo questo trasferimento nel dicembre 2012, i lavoratori hanno dato vita alla Rimaflow nel 2015. Dopo sei anni, la Rimaflow può vantarsi di dare lavoro a 120 persone: 20 soci dell’omonima cooperativa e altri 100 che utilizzano gli spazi dello stabilimento per le loro attività artigianali e professionali. La proprietà dello stabilimento attuale è di uno dei colossi bancari italiani ed europei: l’Unicredit.

A breve la Rimaflow lascerà l’attuale stabilimento per spostarsi in un capannone vicino. I suoi soci si dicono contenti di questa novità e basta ascoltare qualche altra parola per capire subito le ragioni di questo stato d’animo: si trasferiranno in un edificio in cui non saranno più costretti a respirare fibre velenose, perché il tetto sarà colmo di pannelli solari anziché di amianto. Il trasloco è stato reso possibile dal contributo di realtà sociali, fondazioni e privati e la proprietà dello stabilimento spetterà alla cooperativa. Il punto di forza della Rimaflow è stata la capacità dei suoi soci di costruire una rete di alleanze e solidarietà con associazioni e movimenti locali e nazionali. “Siamo stati relegati all’illegalità, sulla base del principio che i profitti di una banca valessero più delle vite dei lavoratori, ma siamo sempre riusciti a resistere ai tentativi di sgombero da parte della banca il 28 novembre scorso”. Dopo quel tentativo la Prefettura si vide costretta a convocare un tavolo, durante il quale la banca non poté fare a meno di riconoscere il lavoro di Rimaflow e, dunque, il relativo valore economico: i soldi erogati oggi sono serviti all’acquisto dell’altro capannone.

È attraverso un racconto come questo che si può capire l’insistenza posta sull’aggettivo “conflittuale” che accompagna la parola d’ordine di realtà come la Rimaflow: mutualismo. Questo piccolo miracolo sociale è avvenuto senza che gli ex dipendenti rinunciassero ai relativi TFR e alla mobilità, come avvenuto in molti altri casi di recupero di aziende da parte dei lavoratori. Hanno occupato lo stabilimento già svuotato e lo hanno riconvertito. Si sono fatti pagare dalla stessa Banca che deteneva la proprietà dell’immobile, dopo aver resistito ai tentativi di sgombero. Presto la cooperativa punterà alla regolarizzazione per assicurare i diritti dei suoi soci lavoratori.

Una finestra sul mondo delle imprese recuperate

La plenaria mattutina di sabato è stata una vera e propria finestra sul mondo delle imprese recuperate. In Argentina oggi sono 388, mentre in Brasile ammontano a 50 (il fenomeno ha subito una drastica riduzione in seguito alla crisi). In Argentina le imprese recuperate un tempo unite sotto il MER (Movimiento de Empresas Recuperadas) appartengono oggi a diverse reti con obiettivi e metodi diversi. Il nuovo governo ha adottato politiche che stanno mettendo sul lastrico i lavoratori e le lavoratrici. Il giovane delegato argentino parla di “un processo accelerato di distruzione delle relazioni sociali di produzione”. Attacco al welfare, aumento drastico della disoccupazione, flessibilizzazione crescente del mercato del lavoro e rincaro dei prezzi (l’inflazione è aumentata del 200% in tre anni e le tariffe pubbliche sono aumentate del 2000%) obbligano a ripensare il potenziale politico dell’autogestione dei luoghi di lavoro. Al conflitto sociale generato da questi provvedimenti il governo sta rispondendo con la repressione: meno di una settimana fa 400 lavoratori in sciopero sono stati fronteggiati da 700 poliziotti. Ogni singolo elemento di questo mutato contesto non fa che ostacolare il processo di recupero delle imprese. Al movimento sorto dalle imprese recuperate non resta che allearsi con i nuovi attori del conflitto sociale emersi nell’ultimo periodo: in primis, il movimento femminista e, in secondo luogo, le forme diffuse di economia popolare e informale di lavoratori senza diritto costituitisi in cooperative. Negli ultimi mesi l’Argentina è diventata l’incubatore di un processo di sindacalizzazione diffuso, esteso a ogni categoria professionale, anche a quelle più informali. Non si tratta soltanto di una reazione tattica, ma di una vera e propria strategia politica volta a dare una propensione offensiva al movimento delle imprese recuperate: “il capitale di competenze accumulato in questi anni in materia di recupero collettivo di impresa ci consente di aumentare la nostra incidenza politica in questi processi di reazione politica per costruire un orizzonte politico più ampio”.

Quando ci si sposta in Europa, ci si rende conto di quanto sia ancora lungo il lavoro di valorizzazione – culturale, sociale e politica – delle imprese recuperate che resta da compiere. Nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta di imprese che ancora non hanno costruito una rete ampia e diffusa di collaborazioni – commerciali e sociali, prima ancora che politico-sindacali – fra loro all’interno dei singoli contesti nazionali. Questo ritardo sembrerebbe dare ulteriormente ragione all’intuizione che ha ispirato il lavoro di inchiesta militante del Collettivo di ricerca sociale e il progetto di una Rete italiana delle imprese recuperate (RIIR).

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Da strumento di lotta a forma di vita: l’autogestione, oggi

A presentare lo stato dell’arte delle imprese recuperate spagnole è un sindacalista, che ricorda le parole d’ordine su cui si è innestato il processo di recupero delle aziende: “unione, azione, autogestione”. Quest’ultima parola ricorre più spesso, perché non si tratta semplicemente di “un modo di organizzare il lavoro”, ma è intesa nei termini di una vera e propria “forma di vita”, che investe ogni dimensione dell’esistenza dell’individuo. Non a caso, la prospettiva intersezionalista inaugurata da una delle più promettenti strategie teorico-politiche introdotte dal femminismo è più volte chiamata in causa dai militanti di tutta Italia che hanno aderito alla rete “fuori mercato” della Rimaflow durante il workshop pomeridiano dedicato a nuove forme di sindacalismo e mutualismo conflittuale: imparare a vedere e trattare le persone nella globalità della loro vita, non soltanto come lavoratori e lavoratrici, ma tenendo anche in considerazione assi di subordinazione basati sul genere, sulla razza, sulle preferenze sessuali. Gli obiettivi ambiziosi e l’entusiasmo di molti, per fortuna, non sono usati strumentalmente per sottacere le criticità: il sindacalista spagnolo ammette senza remore che esiste una tensione fra il ruolo storico del sindacato e il fenomeno delle imprese recuperate. Una volta venuto meno il padrone, che senso ha la rappresentanza degli interessi dei lavoratori che si auto-rappresentano nelle sedi decisionali di cui è dotata l’impresa recuperata?

Alcuni soci delle cooperative che hanno aderito alla RIIR avevano già risposto a questa domanda: le imprese recuperate possono avere anche dipendenti (il che basta a giustificare la presenza del sindacato all’interno della cooperativa) e, se anche così non fosse, esistono all’interno di ogni cooperativa che produce beni o servizi una gerarchia funzionale alla continuità della produzione che dovrebbe legittimare il ruolo del sindacato. Non si può, dunque, rimandare ulteriormente una riflessione seria sui rapporti fra sindacati confederali e di base e il movimento delle imprese recuperate; occorre, afferma il sindacalista spagnolo, che il sindacato punti sull’autogestione anche quando le aziende non sono in crisi.

Anche uno dei delegati greci concepisce l’autogestione non solo come uno strumento di lotta, né – tanto meno – come un mezzo estemporaneo di resistenza, ma come un “modo per vivere dignitosamente e in libertà”. I delegati francesi dell’Association pour l’autogéstion hanno ricostruito la storia del movimento cooperativo francese e ricordato due delle esperienze di recupero più rilevanti degli ultimi anni: quella della Fralib di Marsiglia (160 lavoratori riuniti in cooperativa nel 2014) e della Sea France (800 lavoratori diventati soci nel 2015), oltre al recupero di un’azienda metallurgica, di una tessile e di una libreria.

La ricchezza del racconto di queste esperienze, inutile negarlo, in parte stride con l’assenza dei delegati francesi delle imprese citate. Oltre ai soci della Rimaflow, a intervenire nella plenaria per le esperienze italiane di recupero sono i soci della “Fattoria senza padroni” di Bagno a Ripoli. Dopo aver occupato terreni ricchi di vigne e olivi, i suoi protagonisti hanno redistribuito fra la popolazione locale la cura di questi terreni e la cogestione della fattoria. Hanno costituito un’associazione per poter ottenere il riconoscimento giuridico del lavoro di recupero e di socializzazione delle terre.

La presenza di realtà così straordinarie, però, non rende meno ingombrante l’assenza dei delegati delle altre imprese italiane rilevate dagli ex dipendenti sotto forma cooperativistica. A guidare questi incontri regionali e internazionali sono infatti realtà che si sono dotate di una narrazione molto potente, mirata a porre l’accento sulle differenze esistenti fra chi tenta di attivare circuiti fuori dal mercato e le aziende rilevate dai dipendenti che continuano a produrre ciò che immettevano nel mercato prima della crisi. Mi sembra che questo sia l’elemento di criticità maggiore: perché trasformare le differenze esistenti fra aziende riconvertite dagli ex dipendenti come la Rimaflow e le imprese recuperate dai lavoratori che continuano a produrre ciò che si produceva prima della crisi in una ragione sufficiente a derubricare queste ultime come casi di Workers Buyout che nulla avrebbero a che vedere con una forma di economia alternativa?

Paradossalmente – almeno stando alla distinzione che ho appena rilevato – la più famosa delle imprese recuperate italiane è proprio un’azienda in cui non è stata recuperata la produzione precedente, ma che ha saputo riconvertire i capannoni svuotati dalla proprietà in spazi di socializzazione, di coproduzione, autogestione e di forme di scambio basate sulla partecipazione democratica di lavoratori e consumatori. I soci della Rimaflow sono mossi da moventi politico-sociali inquadrati entro una cornice esplicitamente anticapitalistica. È stato questo orizzonte a ispirare i due strumenti di cui si è dotata la Rimaflow: in primis la coproduzione con realtà alleate di prodotti come l’amaro Partigiano, la vodka Kollontaji e il limoncello di Rosarno, nonché l’autogestione e i contenuti politici che vi sono connessi; in secondo luogo (ma non certo per importanza) si è puntato sulla costruzione della rete “fuori mercato”, ovvero su un mutuo soccorso conflittuale con realtà autogestite per “rifondare in maniera anticapitalistica le relazioni di mercato”.

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Fuori, dentro o contro il mercato?

Nessuna delle cooperative che hanno aderito alla Rete italiana imprese recuperate, invece, si è posta il problema di fuoriuscire dalla logica del mercato capitalistico, ovvero di rifornirsi di materie prime prodotte solo ed esclusivamente da altre cooperative o di vendere i prodotti e i servizi a “prezzi politici”, capaci di rispondere ai bisogni dei consumatori. Ma se il capitalismo non è riducibile semplicemente a un’economia di mercato, ma alla sua combinazione funzionale con una struttura sociale attraversata dalla divisione di classe fra chi detiene la proprietà del capitale e dei mezzi di produzione e chi vende liberamente la propria forza lavoro, allora le imprese rilevate dagli ex dipendenti che hanno mantenuto la produzione precedente rappresentano comunque una sfida alla logica dell’accumulazione illimitata e fine a se stessa del profitto che è costitutiva della forma di vita capitalistica, pur continuando a operare all’interno di un mercato capitalistico.

La rappresentazione riduttiva che vorrebbe ridurre le imprese recuperate dai lavoratori a casi di workers buyout che trasformerebbero i lavoratori in imprenditori auto-sfruttati, senza alcuna forma di conflitto e, anzi, agendo quali marionette più o meno inconsapevoli dell’astuzia della recente storia neoliberale è semplicemente falsa, prima ancora che fuorviante. Tale rappresentazione è peraltro assecondata tanto dai grandi attori istituzionali che non hanno alcun interesse a enfatizzare il “socialismo dal basso” implicito nelle imprese recuperate quanto dalle realtà socio-politiche che fanno di tutto per minimizzare la portata radicalmente alternativa di queste imprese.

Tale rappresentazione ignora le forme di conflitto – dalle occupazioni ai picchetti, passando attraverso le manifestazioni e i presidi cittadini e la lotta sindacale, fino ad arrivare alle vere e proprie sfide lanciate ai corpi intermedi che avrebbero dovuto farsi carico anziché ostacolare il processo di recupero aziendale – che hanno preceduto la rilevazione della proprietà dell’azienda o di un suo ramo produttivo (non necessariamente dello stabilimento in cui si produce).

Né questa rappresentazione riduttiva si preoccupa di prendere in considerazione le pratiche di autogestione interne alle cooperative costituite dagli ex dipendenti: a differenza di tutte quelle aziende che indossano la maschera giuridica della cooperativa per massimizzare gli utili dei (pochi) soci a discapito dei bassi stipendi erogati ai (molti) lavoratori dipendenti, le imprese recuperate sono formate in maggioranza da soci e solo in minima parte da dipendenti. In alcuni casi i pochi dipendenti diventeranno soci come gli altri, sulla base del volere espresso dall’assemblea dei soci lavoratori (come nel caso della Cooperativa Pirinoli di Roccavione in provincia di Cuneo). Né si tiene conto della costruzione dei rapporti di collaborazione e di solidarietà – non soltanto commerciale – fra queste imprese e del supporto che essa potrebbe fornire a tutti i lavoratori alle prese con il rischio del fallimento della loro azienda: sono questi i due binari principali che ci hanno indotto a costruire la Rete italiana delle imprese recuperate, da quando abbiamo capito che l’assenza di cornici ideologiche predefinite a monte del processo di recupero non intacca in alcun modo il significato politico delle cooperative gestite dai lavoratori.

Oltre a non tenere conto di tutti questi aspetti, le rappresentazioni deformanti delle imprese recuperate in termini di WBO ignora la diversità degli strumenti adottati dai lavoratori per acquisire la proprietà della loro azienda o di un ramo produttivo: il processo di recupero dell’azienda può infatti avvenire attraverso la valorizzazione economica delle competenze accumulate dai lavoratori  o grazie all’investimento comune dei loro TFR e/o della mobilità dei lavoratori per la costituzione del capitale sociale della nuova cooperativa. Il primo strumento è stato adottato da una delle esperienze di recupero più straordinarie e meno conosciute, in Italia e all’estero: la Mancoop di SS. Cosma e Damiano, che peraltro prima di fallire condivideva con la Maflow la stessa proprietà. A differenza dei soci della Rimaflow i lavoratori della Mancoop continuano a produrre nastri adesivi; diversamente da molte delle altre imprese recuperate dai lavoratori, inoltre, i soci della Mancoop hanno preferito non reinvestire le uniche forme di reddito a loro disposizione nel capitale sociale della nuova cooperativa, ma hanno deciso di puntare sulle loro competenze professionali: hanno quindi rinunciato a ricevere i finanziamenti da Cooperazione, Finanza e Impresa – l’ente partecipato dal Ministero dello sviluppo economico – perché i lavoratori hanno preferito continuare a lavorare allo smontaggio delle macchine interne allo stabilimento, produrre con i macchinari rimasti e costituire un incubatore industriale che mette a disposizione gli spazi dello stabilimento ad aziende del territorio.

Gran parte – ma non tutte – delle cooperative costituite dai lavoratori per evitare il fallimento della loro azienda sono state invece create grazie al reinvestimento del TFR e/o della mobilità dei lavoratori. Molte di queste imprese – ma non tutte – hanno ricevuto il finanziamento di Cooperazione, Finanza e Impresa e hanno quindi potuto raddoppiare il loro capitale sociale, con la prospettiva di restituirlo nel tempo a tassi agevolati. Molte – ma non tutte – si sono giovate del fondo rotativo messo a disposizione delle diverse Centrali cooperative esistenti in Italia, da Legacoop a Confocooperative. Solo una porzione – ancora più ristretta – di queste imprese, inoltre, può contare fra i soci alcuni membri della precedente proprietà.

Tutte le esperienze mappate finora, invece, rappresentano forme di riscatto che, forse, varrebbe finalmente la pena valorizzare alla luce – anziché nonostante – le relative differenze. Nessuna delle imprese recuperate esisterebbe oggi, se lavoratori e lavoratrici in carne e ossa non fossero stati disposti e determinati a sfidare insieme isolamento, resistenze, paura e diffidenze. Allora, per favore, smettiamola di chiamare questi esempi di recupero (soltanto) workers buyout.

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