La riforma del mercato del lavoro non risponde a esigenze “tecniche”, anzi obbedisce a un’interpretazione sbagliata dei problemi dell’economia. Perché la democrazia sta rinunciando a se stessa?
La riforma del mercato del lavoro presentata dal governo Monti conferma l’impronta politica neoliberista e la corrispondente impostazione economica del suo presidente che, peraltro, era nota da tempo. In questa politica del governo non c’è dunque nulla di sorprendente, ma – naturalmente – nemmeno nulla di “tecnicamente dovuto”; anzi, diversamente da quanto molti commentatori vogliono far credere, essa non solo è di parte, ma è anche controproducente per uscire da questa crisi.
Nel merito del provvedimento, già molto dibattuto, richiamo due soli aspetti.
Eliminare l’attuale obbligo di reintegrare un lavoratore licenziato per motivi economici non riconosciuti dal giudice, sostituendolo con il pagamento da parte dell’impresa di una penale, significa mercificare il diritto al lavoro, che pure è l’attività sulla quale la Costituzione fonda la nostra repubblica. Molto semplicemente, nei rapporti di lavoro l’equilibrio viene spostato a favore della controparte che già è dotata di maggior potere e mezzi e che adesso può farli prevalere pur in assenza di motivazioni riconosciute come valide dalla magistratura.
Dal punto di vista economico, la motivazione e l’impianto della riforma del mercato del lavoro si fondano sul presupposto che il problema da risolvere sia il miglioramento delle condizioni d’offerta delle imprese; questo obiettivo viene perseguito aumentando la flessibilità d’impiego del lavoro ovvero traslando i rischi dell’accresciuta instabilità dei mercati dalle imprese ai lavoratori e, in definitiva, riducendo i costi di produzione delle prime a danno dei secondi. Ma l’analisi della crisi mostra chiaramente che il problema principale maturato negli ultimi trent’anni a seguito del contenimento della dinamica salariale e della spesa pubblica è stato l’insufficienza della domanda necessaria ad equilibrare la crescente capacità d’offerta potenziale dei sistemi produttivi. I tentativi di sopperire a questo squilibrio strutturale, alimentando la domanda con le “bolle” finanziarie e immobiliari, ha solo reso il sistema più fragile cosicché, dopo una lunga seria di crisi parziali, si è arrivati a quella globale in atto. In questo contesto, l’azione del governo si concentra su aspetti delle condizioni d’offerta, come la flessibilità in uscita dei lavoratori, che attualmente non hanno rilievo per rilanciare la crescita mentre aggrava le insufficienze dal lato della domanda che sono quelle dirimenti. Ma la riforma Monti-Fornero è controproducente anche rispetto alle problematiche dal lato dell’offerta; infatti non immette maggiori certezze nel sistema produttivo, ma – anzi – ne aumenta l’instabilità la quale è il nemico principale della crescita e della possibilità che essa sia qualitativamente compatibile con le esigenze sociali e ambientali sempre più ineludibili per generare sviluppo economico, sociale e civile nel medio e lungo periodo.
Tuttavia, un punto più generale su cui occorre interrogarsi è perché si stiano affermando con crescente vigore disegni politici ed economici coerenti con la visione che ha avuto tanta responsabilità nel generare la drammatica crisi globale in atto da cinque anni e dalla quale, proprio per la persistenza di quelle politiche, non si vede la via d’uscita. Tanto più che riforme come quelle già attuate dal governo Monti – essendo presentate come neutrali e tecnicamente inevitabili mentre hanno un segno politico ed effetti regressivi molto accentuati – stanno alimentando il rischio che la democrazia degeneri nella tecnocrazia.
La riforma del mercato del lavoro sta ulteriormente accentuando proprio questo rischio, introducendo un salto di qualità. Anch’essa, come si è accennato, è chiaramente di parte e controproducente rispetto alla crisi e – ancora una volta – viene presentata come tecnicamente ineludibile con il “corollario” che non c’è tempo per preoccuparsi più di tanto di cosa ne pensano le parti sociali che ne subiranno gli effetti. Ma questa volta, Monti – infastidito dalla “novità” che i provvedimenti non sono entrati subito in vigore con il consueto decreto legge e che, invece, dovranno essere discussi in Parlamento – aggiunge la questione se il Paese sia “pronto a queste riforme” ovvero se possa permettersi questo governo. In definitiva, Monti pone il problema se il Paese possiamo permettersi i “lacci e lacciuoli” della democrazia.
Ma perché sta crescendo il rischio che la tecnocrazia scalzi la democrazia? Un contributo alla risposta è che le decisioni tecnocratiche, seppure concepite in ambiti istituzionali (come le Banche centrali o i governi “tecnici”), sono prese da poche persone (come nei mercati) le quali, nell’opinione pubblica tendono ad essere ritenute tecnicamente più affidabili e neutrali. La democrazia richiede invece scelte maturate nella collettività le quali proprio per questo, pur essendo più laboriose, possono risultare più efficienti e soddisfare esigenze altrimenti irrealizzabili. Ma per farlo hanno bisogno della politica la quale, però, anche per l’autoreferenzialità e l’opportunismo di molti suoi protagonisti che negli ultimi decenni ne hanno minato l’efficacia e la credibilità, suscita una comprensibile sfiducia nell’opinione pubblica che ostacola il maggior coinvolgimento delle istituzioni democratiche nelle scelte economiche e l’adozione di modelli di crescita e sviluppo superiori a quello che ha generato la crisi globale.
Il “recupero” della fiducia nella politica è dunque di primaria importanza per perseguire due obiettivi strettamente congiunti e particolarmente confacenti alla sinistra: la difesa e l’implementazione della democrazia; affidare il maggior ruolo economico alle istituzioni democratiche che è indispensabile, prima, per uscire dalla crisi generata dall’autonomizzazione e finanziarizzazione dei mercati e, poi, per riavviare la crescita lungo sentieri qualitativamente superiori.
Uscire in direzione progressista dalla crisi richiede un programma che parta dalle esigenze immediate, ma con soluzioni coerenti alle esigenze di lungo periodo. Non servirebbero tatticismi e opportunismi politici; occorre invece al Paese che le forze politiche della sinistra rivendichino i propri valori, mostrando concretamente e specificamente di saperli organizzare in modo tecnicamente efficace.
Non è un lavoro “di nicchia”, ma da classe dirigente responsabile; si tratta di convincere l’opinione pubblica nazionale ed europea e, tra l’altro, sarebbe necessaria una stampa parimenti “non di nicchia”, convinta di guardare finalmente al suo spazio potenziale.
apparso su il manifesto il 28 marzo 2012