Astratte promesse e concreti guai dal vertice franco-tedesco. Ma accettare questa Europa o uscirne sono due lati della stessa sconfitta: occorre lavorare per un’altra Unione
Più che il classico topolino il vertice dei due leader dei più forti paesi del continente ha prodotto un vero e proprio mostriciattolo. Non tragga in inganno l’accelerazione, soprattutto da parte francese, sulla introduzione della Tobin Tax, che peraltro ha fatto innervosire i mercati finanziari. Da un lato questa proposta è ormai stramatura anche in ambienti che nulla hanno a che spartire con una visione anche solo pallidamente progressista. La sortita di Warren Buffet a favore di una maggiorazione delle tassazioni sui ricchi e sulla ricchezza ne è un esempio, anche se proviene d’oltreoceano. Dall’altro lato nulla di concreto viene fatto, poiché tale idea verrebbe consegnata per la sua realizzazione nientemeno che nelle mani del presidente del Consiglio europeo, Van Rompuy, più adatte a insabbiarla che a tradurla in pratica.
In ogni caso anche se la dichiarazione sulla Tobin volesse essere considerata come un mezzo passo in avanti, quelli più numerosi e decisi all’indietro ci riportano bruscamente alla realtà.
Intanto è stata ribadita con ancora maggiore forza la cosiddetta “regola d’oro”, ma sarebbe meglio dire “ferrea”, ossia l’obbligo per i paesi membri della Ue di inserire nelle loro carte costituzionali il pareggio di bilancio. Con il che verrebbe seppellita la possibilità di qualunque politica economica da parte degli stati che non volesse ridurre gli stessi a un puro ruolo ragionieristico. Come si sa la norma è già presente nella Costituzione tedesca che prevede dal 2016 un tetto al deficit strutturale federale pari allo 0,35% del Pil. Se non è pareggio poco ci manca. Mentre nessuna norma è prevista in tal senso nella Costituzione francese. Si pensa di farla approvare entro la fine dell’anno, ma per raggiungere la necessaria maggioranza qualificata dei due terzi a Sarkozy mancano ancora una quarantina di voti. La dichiarazione congiunta con la cancelleria tedesca va quindi letta soprattutto in chiave di pressione sui resistenti francesi a muoversi in tale direzione. A ciò i due hanno aggiunto un ulteriore carico: intanto niente fondi Ue ai paesi poco virtuosi in termini di controllo del deficit.
Il mostriciattolo è invece rappresentato dalla istituzione di un nuovo organismo per potenziare gli strumenti di governance delle politiche europee, ovvero la creazione di un Consiglio dei capi di stato e di governo dei 17 paesi dell’Eurozona, da riunirsi almeno due volte l’anno, la cui presidenza è già stata offerta al gettonatissimo Van Rampuy. In sé e per sé si tratterebbe di una minestra riscaldata poiché la consuetudine di tali riunioni esiste già. Ma è significativo il messaggio che esce da una simile decisione, che è quello di perpetuare logiche di governo basate esclusivamente su organismi di natura assolutamente a-democratica, del tutto indipendenti e contrapposti al Parlamento europeo, organo eletto con la migliore legge elettorale – che infatti è proporzionale – ma totalmente deprivato di funzioni.
I nostri cahiers de doleances non si esauriscono certamente qui. Quello che manca –come un adeguato finanziamento del cosiddetto fondo salva stati o l’istituzione degli eurobonds, che secondo Sarkozy dovrebbero giungere solo alla fine, cioè dopo la morte del paziente – è forse ancora peggio di quello che c’è, specialmente se lo consideriamo in rapporto all’aggravamento dell’andamento della crisi economica nel contesto europeo. La brusca decelerazione dell’incremento del Pil tedesco nella ultima rilevazione trimestrale suona come un campanone d’allarme. Ha fatto giustizia delle illusioni sul fatto che l’intervento statuale a favore delle banche fosse sufficiente per rilanciare l’economia e le rosee previsioni su un 2011 positivo che pure si erano affacciate da più parti sul finire dello scorso anno.
Come sappiamo questa crisi è lunga. I migliori analisti – tra questi Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart che hanno parlato di “seconda Grande Contrazione” dopo il ’29 e non di semplice recessione – prevedevano infatti che saremmo andati incontro ad almeno sette anni di vacche magre. La previsione biblica si sta avverando e eventuali discostamenti saranno in peggio. Non solo, datando l’inizio della crisi nel 2007, ce ne è almeno fino al 2014, ma proprio in questi mesi si profila per l’Europa una prospettiva che potrebbe aggravare e allungare il corso della crisi. Il dato della Germania sembra delineare, come ha osservato anche Nouriel Roubini, nota Cassandra dei disastri del moderno capitalismo, un quadro di questa natura: mentre la periferia dell’Europa è stretta fra desertificazione del proprio tessuto economico e sociale e default finanziario, il suo cuore, l’Europa carolingia cioè, si “giapponesizza”, ove il riferimento non è al Giappone odierno in recessione per il terribile terremoto/tsunami, ma quello che conobbe una lunga, sorda e ostinata stagnazione lungo tutti gli anni Novanta. Una situazione che potrebbe facilmente diventare implosiva per l’euro e l’unità europea, seppure come sappiamo limitata al suo aspetto economico.
La brusca contrazione della crescita tedesca rimette in discussione la tanto decanta supremazia del modello tedesco. Essa è dovuta alla crisi nel settore edilizio – puntare infatti sul mattone, ce lo insegna la Spagna, non è una grande idea, neppure per il più importante paese manifatturiero d’Europa come la Germania -; alla diminuzione dei consumi – infatti le retribuzioni tedesche che pure gli operai di tutta Europa invidiano sono ben al di sotto dell’incremento della produttività in quel paese -; alle difficoltà sopravvenute nella bilancia commerciale – anche qui non v’è da stupirsi dal momento che la caduta del potere d’acquisto in tutta Europa non può non creare problemi alla capacità esportativa tedesca in quello che rimane il suo principale mercato. L’idea quindi di una Germania che continua a prosperare a scapito delle debolezze del resto del vecchio continente si rivela di corto e fallace respiro.
La pura logica economica – anche in chiave mainstream – dovrebbe perciò muovere in senso contrario. E infatti qualche voce si alza in questo senso. Avendo ricordato Buffet, è d’obbligo richiamare Soros, la cui adesione agli eurobonds è fortemente motivata. L’anziano finanziere dimostra facilmente che la loro introduzione sarebbe di gran lunga meno invasiva delle potestà statuali dei singoli membri della Ue di quanto non sia l’attuale ingerenza dettata dalle attuali regole e dalle nuove che il duo franco-tedesco vorrebbe introdurre. Naturalmente gli eurobonds comporterebbero la suddivisione del rischio tra tutti paesi con particolare peso per quelli più forti. Ma il brusco fallimento della Grecia, ad esempio, sarebbe stato peggio per le banche tedesche e francesi, ed è per questo che seppure con ritardo e a carissimo e iniquo prezzo l’intervento di salvataggio c’è stato. Eppure è stata scartata anche la versione più morbida del tema proposta da Bruegel, il famoso think tank internazionale di economisti con sede a Bruxelles, che propone di “eurobondizzare” solo il 60% di ogni rispettivo debito sovrano.
Così non è perché la sovrastruttura ideologica e politica, ossia il ritorno in versione peggiorata del neoliberismo, la fa da padrone. Ancora una volta si dimostra che aveva ragione il vecchio Keynes a proposito della funzione delle idee nella storia, specialmente quando queste sono pessime.
Verrebbe da dire che siamo in una situazione quasi classica, nella quale la sinistra, se c’è, potrebbe avere più campo per fare valere il proprio punto di vista, prospettando di fronte al baratro una linea di alternativa e nel frattempo sollevando da terra persino qualche bandiera che la borghesia ha lasciato cadere, come ad esempio quella della stessa democrazia rappresentativa, che rochiederebbe a livello sovrannazionale soluzioni inedite e creative. Ma non sembra che sia così.
Ha ragione da vendere Rossana Rossanda a preoccuparsi per la curvatura che il dibattito nella sinistra, compresa quella di alternativa, ha assunto sul tema europeo. Se la sinistra moderata – almeno nella sua grande parte, come nel caso italiano del Pd – appare prigioniera del mantra della riduzione del deficit, del rigore finanziario e finanche del pareggio di bilancio in Costituzione , capovolgendo così le cause della crisi, come se questa cioè fosse generata dall’indebitamento pubblico e non da quello privato dovuto alla sovrapproduzione da un lato e dai bassi redditi dall’altro; tra le forze dell’alternativa fa sempre più capolino l’idea di fuoriuscire dall’Unione europea o dall’euro, il che è lo stesso. Si portano a conforto di simili tesi tutte le analisi, in sé e per sé inappuntabili, sulla assoluta prevalenza delle ragioni economiche e finanziarie che tengono insieme la Ue, a scapito di quelle politiche. In effetti la Ue è l’Europa dei banchieri non dei popoli. Ma sarebbe un errore curvare le giuste osservazioni a questo riguardo di Amartya Sen, per promuovere una fuoriuscita dall’euro, come è in una frequente articolistica su Le Monde Diplomatique, da Latouche a Lordon, per citare la sede e le fonti più nobili in cui viene coltivato questo pensiero.
A parte che l’uscita dall’euro non risolverebbe il problema del debito dei paesi in maggiore difficoltà, visto che quello giacente all’estero, per molti di essi prevalente, resterebbe espresso in euro, appare improbabile solamente pensare, per non dire progettare, un’idea di sviluppo civile e sociale alternativo – a meno di non proporre una semplice decrescita – se non in una dimensione sovrannazionale, come ci indica la stessa nostra questione meridionale, che non solo è nazionale, ma europea e mediterranea. Ogni sottovalutazione del livello irrimediabilmente mondiale con cui si pone lo scontro tra capitale e lavoro è un errore micidiale. Ogni riduzione, concettuale e spaziale, del campo di questo scontro, introduce un elemento di debolezza per il secondo, non certo per il primo, il quale – da sempre, ma con più forza e agilità ora – si muove su un terreno globale. Lo si vede bene nelle lotte operaie e del mondo del precariato. Se una speranza c’è è trovare una unificazione sul terreno di un reddito garantito per chi il lavoro non ce l’ha e di una convergenza delle retribuzioni per chi lavora per togliere eserciti di riserva al capitale globale. Analogo è il discorso per i diritti, nel campo dei quali il popolo migrante assume ruoli che possono somigliare a quelli dell’operaio massa nel pieno del fordismo. La stessa dimensione del territorio acquista peso strategico se inserita in una dimensione socialmente e geograficamente più ampia, come in fondo dovrebbe dirci la vicenda della Tav. Che il ruolo del pubblico e quindi della difesa dei beni comuni abbia già una dimensione almeno europea è dimostrata in negativo proprio dalla insistenza sulla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio.
Accettare questa Europa o uscirne sono lati di una stessa sconfitta. Lavorare per un’altra Europa, misurandosi con il vento di rivolta che soffia nelle sue capitali, significa mettere assieme un pensiero lungo – anche storicamente, visto che quando nacque l’Europa stava assai peggio di oggi – con lo sforzo di prospettare una diversa uscita dalla crisi economica mondiale nella quale siamo immersi.