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Memoria e ragione dicono: mettere in dubbio il debito, relativizzare il denaro

Bisogna processare, civilmente e politicamente, più di tre decenni di storia del mondo capitalistico e la continuità delle classi dirigenti che l’hanno influenzata e diretta

Un esteso conformismo sembra regnare a proposito di due assiomi correlati. L’uno asserisce che i popoli non possano mai sottrarsi ad alcun debito contratto in passato da loro governi, indipendentemente dalle sue origini e dai suoi artefici. L’altro prescrive che il denaro si offra come una risorsa rara e pregiata onde svolgere efficacemente la sua funzione. Questi assiomi sono spesso presentati, con sorprendente sicurezza, come immutabile sapienza, riconosciuta e rispettata da ciò che solitamente s’intende per mondo civile. La storia, invece, dice altro.

Per esempio, in occasione della crisi mondiale degli anni trenta del secolo scorso, quasi tutti gli uomini di Stato (anche conservatori, e anche creditori) si rassegnarono presto alla necessità di dimenticare più meno a lungo l’enorme montagna di debiti che aveva largamente occupato la scena durante il decennio precedente. Entro pochi anni, quella montagna di debiti fu sostanzialmente dimenticata per sempre. Certo, si passò per una guerra mondiale; ma per questo c’erano altre cause, di un genere che non sembra ancora presente oggi (e di cui noi possiamo ancora prevenire l’apparizione).

Naturalmente, mettere in dubbio i debiti comporta una dose molte elevata di rischio morale. Le corrispondenti parole d’ordine possono diventare ostaggio di cattive forme di demagogia, capaci di fornire alibi auto-assolutori per interi blocchi di personale politico i cui costumi e le cui scelte abbiano molto contribuito a gonfiare la bolla.

Certamente, poi, non si dovrebbe confondere o ignorare situazioni e attese multiformi e diversamente valide. Ma un’altra cosa è colpire chirurgicamente i patti scellerati che hanno lungamente legato tra loro prestatori istituzionali interessatamente lassisti e debitori irresponsabili e malintenzionati. Tra questi ultimi, in prima fila, governi americani che per qualche decennio hanno sviluppato politiche composte essenzialmente da deregolamentazione, super-sgravi fiscali ai super-ricchi, vertiginosa corsa al riarmo, ed elemosine con interesse truffaldino per le classi medie e lavoratrici. Con riferimento a ciò, coloro che prima di altri potrebbero invocare il rischio morale sono certamente i dirigenti cinesi, che hanno nelle mani enormi quantità di debito americano (cui potrebbe cominciare ad aggiungersi adesso un po’ di debito europeo). Un tale punto di vista merita grande rispetto, soprattutto se accompagnato da disponibilità a fare i conti con la propria parte di rischio morale: vale a dire, la disponibilità a rivedere e possibilmente modificare il lungo e apparentemente vantaggioso lassismo nei confronti degli attuali debitori su cui la Cina ha finora fondato in gran parte il proprio miracoloso sviluppo. Del resto, tale sviluppo richiede ormai fondamenti e contenuti molto nuovi prima che cominci a trasformarsi in qualche specie di incubo. Insomma, la Cina è chiamata a rivedere il proprio ruolo di creditore di ultima istanza nel sistema internazionale all’incirca nello stesso senso in cui gli Stati Uniti modificarono il proprio dopo gli anni trenta del Novecento. Ciò comporta una vera e profonda riforma multilaterale dell’economia mondiale. Non certo gli attuali balbettamenti in seno al “G20”.

Un’altra importante categoria di debitori irresponsabili e malintenzionati è rappresentata naturalmente da sistemi di potere (come proprio quello italiano, finora) inficiati da corruzione, malaffare, clientelismo e inefficienza. In passato, poi, una quota rilevante dello stesso fenomeno era rappresentata a suo modo dai regimi tardo-comunisti dell’Europa orientale, a cominciare da quello jugoslavo (quanto alla Jugoslavia, ciò che il resto del mondo ricco innanzitutto ed essenzialmente pretese dalla successiva transizione fu che le sue banche recuperassero tutti i soldi perduti fino all’ultimo centesimo e a qualsiasi costo; sappiamo quali costi ci furono).

Si chiami dunque auditing o (per semplicità) beneficio d’inventario, o comunque si voglia, mettere in dubbio la bolla del debito, e operare conseguentemente, non significa altro che processare, civilmente e politicamente, più di tre decenni di storia del mondo capitalistico e la continuità delle classi dirigenti che l’hanno influenzata e diretta, quasi sempre in modo “bipartisan”. Qualunque soluzione specifica, o articolazione di misure tecnicamente responsabili e civilmente sostenibili, che abbia senso e dignità, dovrebbe essere coerente con questo principio di fondo.

Passando adesso al dogma che fonda l’utilità del denaro sulla sua tendenziale scarsità, bisognerebbe domandarsi che cosa ne resti dopo avere osservato come gli Stati Uniti diventarono una grande nazione industriale e una terra anche di speranze non soltanto e non tanto dopo che Lincoln ebbe accettato una terribile guerra intestina onde emanciparli definitivamente da un sistema di divisione internazionale del lavoro che comportava anche lo schiavismo nel loro Sud, ma ebbe anche inondato il paese di potere d’acquisto cartaceo emesso direttamente dal governo senza chiedere il favore né il permesso ad alcuna banca. O dopo avere considerato la clausola degli accordi di Bretton Woods del 1944 che prevedeva interventi correttivi nel caso in cui una particolare moneta nazionale risultasse “scarsa” (tanto più se si osserva che la moneta cui si pensava mentre si scriveva quella norma era proprio il dollaro degli Stati Uniti).

Certo, questo non basta ancora per trovare la maniera di resistere all’attuale “consenso di Francoforte” senza traumi e disordini almeno altrettanto gravi rispetto a quelli che sarebbero comunque provocati, prima o poi, dall’obbedienza alle sue prescrizioni. Ma si può e si deve lavorare alla luce di quei precedenti, o almeno smettere di dimenticarli e di trascurarli.

In particolare, la sinistra italiana dovrà sforzarsi di curare le sue persistenti divisioni e prepararsi a rendere efficacemente determinante il suo eventuale appoggio a futuri nuovi governi parlamentari quando si voterà di nuovo. Ed ha ancora qualcosa da fare per apparire credibile in questo: non solo come rappresentante e garante della necessaria disobbedienza sociale alle politiche imposte da Francoforte, ma soprattutto come promessa e speranza di una strada diversa, ossia di una nuova e quindi reale prospettiva di crescita civile. E dovrà essere in grado di fare questo in termini di responsabilità verso il paese e verso tutta quell’Europa (la vera) che la Bce non rappresenta. In questo la sinistra può avere la memoria e la ragione come alleate, e ciò potrebbe consentirle di allargare in modo efficace le sue alleanze senza alcuna subalternità.

La riconversione economica globale che oggi s’impone al fine di assicurare un futuro non tragico alla civiltà umana somiglia per dimensioni all’impresa della ricostruzione dell’economia mondiale dopo il 1945. Le relative lezioni, perciò, possono essere molto utili. Già l’esperienza del New Deal e la sua feconda internazionalizzazione (durante il decennio che va dal costruttivo boicottaggio americano degli stanchi rituali della conferenza economica mondiale di Londra nel 1933 agli accordi di Bretton Woods del 1944) affermò la nozione che ogni regola circa il denaro dovesse servire le esigenze di ciò che allora si intendeva per sviluppo con decisa priorità rispetto alle attese dei singoli detentori di attivi o comunque di posizioni di controllo sui flussi di capitale nella situazione data. Durante la seconda guerra mondiale, l’amministrazione Roosevelt fece ancora di più sulla strada della relativizzazione della funzione del denaro e del suo ridimensionamento, dal momento che il sistema di finanziamento dello sforzo bellico delle Nazioni Unite mediante la legge Affitti e Prestiti mirava esplicitamente ad aggirare il potere delle banche e a prevenire la rinnovata formazione di enormi escrescenze finanziarie simili a quelle che erano state generate dal precedente conflitto (i colossi bancari privati non ne furono affatto felici, e lo dissero). Ancora nei primi anni del dopoguerra (malgrado tutto, cioè malgrado la guerra fredda e i suoi contraccolpi conservatori), alcuni importanti meccanismi monetari del Piano Marshall consistevano in una pura e semplice (e abbondante) creazione di denaro (ossia di moneta nazionale coperta da fidi in dollari, a loro volta creati, destinati ad essere estinti grazie alla crescita così alimentata).

Sarebbe facile esercitarsi a contrapporre questi esempi di genialità e d’innovazione non astrattamente tecnica, ma innanzitutto ispirata da concezioni forti e impegnative della politica e della democrazia, da una parte alle irresponsabili acrobazie matematiche che hanno costruito molti castelli di carta crollati tra il 2007 e il 2008, e dall’altro alla sconcertante timidezza di gran parte del personale politico ai vertici dei maggiori paesi avanzati nel corso di questa tempesta, non solo nei loro comportamenti ma certamente nelle loro parole e forse (si può temere) nei loro pensieri. L’importante è che, come un tempo si diceva, la sinistra raccolga oggi la bandiera di queste esperienze e di queste lezioni, abbandonata nei rigagnoli dai ceti dominanti.

Una versione più ampia di questo articolo, sotto il titolo “Un nuovo approccio galileiano per la rinascita della sinistra e della democrazia”, compare nel sito www.katciu-martel.it