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Marcia trionfale delle banche con il latte alle ginocchia

Granarolo è al centro di una cordata bancaria, sollecitata dal governo, per impedire il passaggio di Parmalat ai francesi di Lactalis

Premessa

Dal momento che nella possibile cordata italiana che dovrebbe rilevare, in tutto o in parte, la principale impresa italiana del settore lattiero-caseario, la Parmalat, il partner industriale, o almeno il principale partner industriale nazionale, potrebbe essere costituito dalla società Granarolo (anche se a oggi non si sa veramente se la società parteciperà all’operazione e con quali modalità), questo testo si apre con una informazione di massima su tale impresa, relativamente poco conosciuta dalle cronache economiche; nella seconda parte dello scritto si analizzano invece i principali tratti di quella che dovrebbe essere la strategia di intervento della nuova composita armata dei “guerrieri del latte” – dopo quella tirata su nel caso dell’Alitalia –, che si sta mobilitando, tra molte difficoltà, per “salvare” l’italianità dell’impresa parmense.

La Granarolo e il movimento cooperativo

La Granarolo spa aderisce da sempre alla Lega delle Cooperative. In genere, quando si pensa al settore cooperativo, si immagina che esso sia sostanzialmente costituito da tante piccole imprese, per di più operanti in settori marginali dell’economia. In realtà, soprattutto negli ultimi decenni si è affermato – al di là del campo della grande distribuzione, dove Coop e Conad sono delle realtà leader di mercato –, nel settore industriale, dei servizi e dell’edilizia un certo numero di imprese medio-grandi, alcune delle quali con risultati di mercato ed economico-finanziari di grande rispetto e, in qualche caso, con importanti proiezioni internazionali. Si ricordano, ad esempio, per limitarsi all’area che fa riferimento alla Lega delle Cooperative, la Manutencoop di Bologna, che oggi fattura circa 1.300 milioni di euro, la Sacmi di Imola, una delle multinazionali “tascabili” che tengono in vita il nostro sistema paese, la Cmc di Ravenna, il Gruppo Italiano Vini, queste ultime entrambe di nuovo con importanti proiezioni internazionali e così via.

Di fatto, il movimento cooperativo, partendo da quelli che erano considerati degli interstizi marginali del sistema economico e perciò lasciati relativamente sguarniti dal capitale privato e basando la sua strategia di sviluppo sul terreno finanziario, in mancanza di capitali, su di un tenace ricorso al reinvestimento degli utili, è riuscito nel corso del tempo a costruire delle realtà imprenditoriali di tutto rispetto.

Semmai la Granarolo, che pure è una delle più grandi società del movimento cooperativo per fatturato, in termini di risultati economici e finanziari appare come quella meno brillante tra le imprese sopra citate.

Notizie sulla Granarolo

All’origine della attuale società sta la fondazione, avvenuta nel 1957, del Consorzio Bolognese Produttori Latte, che aderisce alla Lega delle Cooperative. Il consorzio cresce abbastanza rapidamente aggregando anche delle altre cooperative, nonché qualche impresa privata. Nel 1990 il consorzio da vita a una società per azioni, la Granarolo spa, cui trasferisce tutte le attività industriali e commerciali; lo stesso consorzio cambia contemporaneamente nome e assume quello di Granlatte. La campagna acquisizioni si sviluppa fortemente ancora negli anni 2000, con l’acquisizione prima della Centrale del Latte di Milano e successivamente della Yomo.

La Granlatte si concentra nell’organizzazione dei produttori agricoli e nei servizi all’impresa agricola – essa, tra l’altro, riunisce circa 1.000 allevatori produttori di latte –, la Granarolo invece nella lavorazione, confezionamento e distribuzione del latte.

Oggi il 77,5% delle azioni della Granarolo è controllato dal consorzio Granlatte, il 19,8 da Intesa San Paolo.

Al 31 settembre 2010 il gruppo occupava circa 2.000 persone dislocate, oltre che nella sede centrale, in diversi siti produttivi. Il gruppo lavora prevalentemente latte italiano (per il 72% del totale) e per il resto latte estero che viene in particolare acquistato nei mesi in cui la produzione nazionale risulta insufficiente rispetto alla domanda.

Molto presto l’azienda diversifica le sue produzioni e oggi essa opera, oltre che nel settore del latte, in quello dello yogurt, delle mozzarelle e formaggi, del burro e delle uova.

La società ha fatturato nel 2009 – non sono disponibili ancora i dati per il 2010 – circa 900 milioni di euro, rappresentando la terza realtà nazionale nel settore dopo la Parmalat – circa 4,3 miliardi di euro di cifra d’affari nel 2010 e Lactalis –1,4 miliardi nel 2009. La cifra d’affari di Granarolo si suddivide nello stesso anno 2009 per il 61% nel settore del latte, nel 14% in quello dello yogurt, nel 18% nei formaggi e nel 7% in altre produzioni.

Lo stesso fatturato risultava minore rispetto all’anno precedente, quando aveva raggiunto i 967 milioni. I dati disponibili per i primi nove mesi del 2010 indicano un’ulteriore, anche se modesta, riduzione della cifra d’affari.

Sul fronte dei risultati economici, tra il 2005 e il 2008 la società ha sempre mostrato delle perdite, con una punta massima di 31,4 milioni di euro nel 2007; nel 2009 si raggiunge invece un modesto utile (18,6 milioni), cifra che sembra peraltro ridursi nel 2010.

La società non ha pressoché mai, nella sua storia, guadagnato grandi somme di denaro. Hanno pesato sui risultati i margini ridotti che si registrano comunque nel settore, i rapporti di frequente difficili con i produttori associati della filiera cooperativa, che spingono normalmente per il riconoscimento di prezzi elevati alla stalla, una certa debolezza gestionale interna, più o meno accentuata nel tempo, la carenza di risorse finanziarie. Di recente, poi, hanno influito anche, oltre alla crisi dei consumi – gli italiani, oltre che risparmiare sulle spese superflue, sono stati costretti di recente a ridurre anche quelle per il latte – e le vicende relative all’acquisizione della Yomo.

In relazione ai magri risultati economici, alle rilevanti necessità di investimenti richieste dal settore, alla debolezza finanziaria dei suoi soci, le casse della società sono sempre state sostanzialmente vuote. La punta massima dell’indebitamento finanziario netto si è registrata nel 2006, quando ha raggiunto i 186 milioni di euro, in coincidenza con il ricorso alle banche per finanziare l’acquisto della Yomo. Il livello dei debiti era sceso comunque a 87 milioni di euro alla fine del 2009 ed esso sembrava ancora ridursi all’incirca del 20% nel 2010.

Il progetto di intervento

Attualmente si discuterebbe di almeno due possibili alternative di intervento, con diverse varianti. Nella prima, si formerebbe una società cui parteciperebbero le banche – tra le altre Intesa San Paolo, l’istituto che ha preso l’iniziativa della cordata e che per altro verso possiede una rilevante quota azionaria della stessa Granarolo, Mediobanca, Bnl, nonché forse Unicredit –, la stessa Granarolo, che non avendo soldi conferirebbe alla nuova società se stessa, nonché la Cassa Depositi e Prestiti.

Per lanciare un’opa sul 60% del capitale di Parmalat occorrono circa 3 miliardi di euro. Essi potrebbero essere suddivisi a metà tra mezzi propri e debiti. Stimando in maniera abbastanza generosa che Granarolo valga 500 milioni di euro, al movimento cooperativo spetterebbe circa un terzo del capitale della società, la Cassa depositi e prestiti apporterebbe altri 500 milioni e il resto dovrebbe venire dalle banche.

Tale soluzione, come peraltro anche quelle altre proposte, presenta alcuni problemi rilevanti sul terreno finanziario nonché su quello societario e su quello politico, per cui potrebbe non reggere l’urto con la realtà.

In alternativa si è sperato per qualche momento che si riuscisse a convincere la Lactalis a cedere la sua quota del 29% del capitale alla nuova cordata, ciò che avrebbe ridotto l’ammontare delle risorse richieste, ma la società francese non sembra essere d’accordo, anzi essa starebbe studiando la possibilità di lanciare a sua volta un’opa sulla società parmense.

Viste alcune difficoltà dello schema precedente, si starebbe anche pensando di varare il progetto senza un partner industriale, almeno all’inizio, mentre il gruppo di intervento potrebbe essere costituito invece soltanto dalle banche e dalla Cdp; ma anche questa alternativa presenta dei problemi rilevanti. Tra l’altro, Intesa San Paolo, la banca che ha spinto in maniera più convinta sull’operazione, potrebbe diventare meno interessata.

In relazione alle difficoltà finanziarie del progetto, si starebbe anche contemporaneamente pensando di vendere, in tutto o in parte, le attività estere della società; ma esse costituiscono anche la parte più redditiva del gruppo e comunque si tratterebbe per il nostro sistema industriale di un grave ripiegamento rispetto a delle posizioni internazionali a suo tempo faticosamente conquistate. Potrebbero, d’altro canto, anche entrare in gioco altre imprese estere del settore, da associare alla partita.

Alcune difficoltà dell’operazione

Oltre ai problemi già delineati, si presenterebbero degli altri, rilevanti, punti interrogativi. Intanto potrebbe registrarsi un importante problema di antitrust. Nel settore del latte fresco, Granarolo e Parmalat controllano insieme circa il 50% del mercato totale in valore e in quello del latte Uht circa il 55%. La cosa diventerebbe ancora più imbarazzante se entrassero nella partita, come almeno sembrano desiderare, anche i produttori aderenti all’altra grande centrale cooperativa, la Confcooperative, nonché la stessa Coldiretti. Si renderebbe comunque il tutto ancora più difficilmente gestibile.

I sindacati appaiono poi preoccupati dalle possibili potenziali “sinergie” produttive e distributive delle due imprese, che potrebbero portare al manifestarsi di rilevanti esuberi di personale, quantificabili, con una stima di larga massima, tra le 500 e le 1.000 unità.

Per quanto riguarda poi in specifico Granarolo il progetto suscita molte perplessità. La sensazione appare quella che l’azienda si inserisca in un gioco più grande di lei, vaso di coccio in mezzo a due vasi di ferro, Cdp e grandi banche; al primo stormire di foglie, la carenza di risorse finanziarie e la debolezza politica della società potrebbero portare a un suo assorbimento di fatto da parte degli altri soggetti. In ogni caso, come è possibile che il presidente del consiglio e Tremonti lavorino alla fine veramente per un’azienda “rossa”?

Per altro verso, il gruppo dirigente di Granarolo dovrebbe essere capace di gestire all’improvviso un gruppo cinque volte più grande di quello originario come dimensioni complessive e riuscire inoltre a digerire anche la forte proiezione internazionale della società – la Granarolo opera invece sostanzialmente solo in Italia –; la cosa appare difficile con tutta la stima che si può avere per esso. Gli studiosi di economia industriale, a cominciare dalla Penrose, appaiono molto scettici al riguardo.

Su tutto il settore pesa poi la minaccia del 2015, anno nel quale dovrebbe essere cancellato l’attuale meccanismo delle quote latte nazionali e il mercato europeo dovrebbe essere pienamente aperto alla concorrenza; da questo punto di vista va ricordato che i costi di produzione medi delle stalle italiane sono poco competitivi con quelli dei paesi europei avanzati.

Conclusioni

La strada per mantenere la Parmalat sotto il controllo di azionisti italiani, appare complessa e piena di difficoltà e non è detto che alla fine si riesca nell’intento, di fronte anche a una concorrente come Lactalis, azienda molto agguerrita e pronta a vender cara la pelle sull’operazione.

Il caso rivela ancora una volta, in ogni caso, la scarsa propensione dell’imprenditoria nazionale a varare progetti che presentino qualche rischio e che richiedano esborsi rilevanti di denaro. Si riesce in qualche modo a mobilitare – e con molti punti interrogativi – soltanto un’azienda finanziariamente molto debole e comunque forse soltanto come facciata di un’operazione di “sistema” dai contorni poco chiari e complessivamente non convincente e avviata soltanto per ragioni di propaganda politica.

In ogni caso, la spinta da parte del governo in tema di mantenimento dell’italianità dell’azienda non riesce a mascherare un vuoto totale d’azione per quanto riguarda una politica industriale di respiro che permetta nel tempo al sistema delle grandi imprese nazionali di crescere adeguatamente.