Nell’esegesi del libro di Francesco Saraceno “La scienza inutile”, i limiti di Keynes e alcuni errori che iniziano ad emergere anche tra gli studiosi di stampo neoclassico, dallo scarso peso al contesto di forti disuguaglianze alla sottovalutazione dei “prezzi ombra” di lavoro, beni e servizi.
Di questi tempi, che piovono dal cielo dei governi, pesanti come chicchi di grandine, quasi solo atteggiamenti e decisioni densi di insipienza, mi vien da pensare come, nella prima metà del Novecento, vi sia stata una vera e propria rivoluzione copernicana nella comprensione dei fatti economici, con studiosi capaci di “vedere al di là del velo delle mere apparenze”, come accadde quando fu faticosamente superato il geocentrismo. Allo stesso tempo mi chiedo come negli ultimi cinquant’anni, invece, possa esservi stato in vaste parti della teoria economica un regresso cognitivo altrettanto sorprendente. Ed è interessante pure come tutto ciò, rivoluzione e controrivoluzione, abbia avuto riflessi importanti sulla cultura espressa dalla sfera politica e da quella della comunicazione influente.
La prima rivoluzione mi sembra tanto ovvia quanto ampiamente sottovalutata e per certi versi non pienamente compresa, quanto meno se si pensa che chi conosce bene i rivoluzionari della prima ora in macroeconomia – Robertson, Keynes, Hansen, Lerner- potrebbe fare fatica a vedere la parentela che questi studiosi hanno con quelli, da Pigou a Coase, che hanno posto con grande anticipo le premesse per una critica radicale all’efficienza dei mercati, evidenziando addirittura come il sistema dei prezzi espresso dal libero agire del mercato sia un pessimo indicatore di valori relativi, e quindi fonte di distorsioni sistematiche nell’uso delle risorse.
Molto più arduo per me, e penso per molti, cominciare ad intravvedere le ragioni dell’emergere e del consolidarsi impasticciato della controrivoluzione; ragioni, ben inteso, che vadano oltre all’ovvio intreccio tra il fascino ideologico del mercato e lo strapotere degli interessi a questo fattualmente legati. Tra questi non mi astengo dal segnalare la opulenta circolazione di studiosi tra organizzazioni che si occupano di banche e moneta a livello internazionale e tra tali organizzazioni e l’accademia.
La scienza inutile
Viene almeno in parte in soccorso il libro edito di recente anche in Italiano di Francesco Saraceno, “La scienza inutile” (Luiss Un.Pr.) che, mentre nei primi due capitoli delinea i tratti essenziali della teoria dell’equilibrio generale e della rivoluzione keynesiana, reintroduce una prospettiva di storia del pensiero nella considerazione dettagliata e al contempo essenziale della controrivoluzione neoclassica, dal monetarismo alle aspettative razionali (e qui siamo ancora a cose che ritroviamo, in forma più didascalica, nei manuali universitari) per poi passare alla sequenza spesso autodistruttiva dei modelli che hanno fatto moda per poi rapidamente divenire obsoleti dopo gli anni Settanta del Novecento: la nuova macroeconomia classica e le aspettative razionali, la teoria dei cicli reali, i vari “Consensus”, da quello detto di Washington a quello di Berlino, fino al trionfo delle tesi austeriste e alla crisi del 2008 e oltre.
L’Autore è infatti convinto che “comprendere come le principali scuole di pensiero si siano avvicendate nel dominare il paesaggio intellettuale, studiando le cause della loro ascesa e declino (e a volte della loro resurrezione) potrebbe insegnare ai nostri economisti e soprattutto ai nostri responsabili politici le virtù dell’umiltà e del pragmatismo”.
Il ritorno a prospettive storiche
Il libro riempie un duplice vuoto. Il primo riguarda la successione dei modelli della controrivoluzione, sui quali è difficile districarsi senza una guida nella letteratura esplosa intorno a ciascuno di essi, con grande commistione di grano e pula. Il secondo è invece costituito dalla capacità di raccordare il succedersi delle mode modellistiche ad eventi concreti e dibattiti correlati, cosa che Saraceno fa giustapponendo allo svolgersi dei suoi capitoli e dei suoi paragrafi una ricca serie di riquadri relativamente indipendenti dal testo. Questi “focus” finiscono per disegnare altrettanti sfondi storici, quasi sempre su eventi e temi scottanti e oggetto di dibattiti. Qualche esempio: “Trump e Macron: meno tasse per i ricchi e più crescita per tutti?”; “Il paese più keynesiano? Gli Stati Uniti”, con la prova delle politiche espansive di quel paese; il dubbio: “Quanto sono razionali gli agenti razionali?”; ed infine l’improbabile ossimoro “L’austerità espansiva e la fatina della fiducia!”.
L’ironia, peraltro, affiora solo nei focus, mentre all’interno del libro riguardato nel suo filo narrativo le singole teorie vengono presentate il più possibile neutralmente, senza scivolare in sarcasmi, a volte fin troppo facili. Sono infatti i fatti storici, le contraddizioni tra modelli, l’inanità evidente delle terapie raccomandate a fornire gli spunti, del tutto autosufficienti, del regresso culturale in atto. Così almeno per un pubblico di buon senso.
Si tratta in ogni caso di un regresso che, nel suo snodarsi, sembra avere paradossalmente una sorta di “macro-disegno”. In breve: per mostrare che le politiche fiscali non servono, che bisogna lasciar fare al mercato, reso finalmente flessibile e libero da vincoli, ostacoli ed inganni, e alle politiche monetarie imperniate su regole costanti, si procede in una successione:
1) il monetarismo “spiega” il perché del fallimento stagflazionistico degli anni Settanta del Novecento e del “salto” della curva di Phillips; lo fa autorevolmente perché in qualche misura “prevede” il tutto (ricordo che nella stravagante epistemologia di Milton Friedman, molto condivisa dagli economisti, una teoria è giusta se prevede, indipendentemente dall’assurdità delle sue ipotesi fondanti);
2) monetarismo e keynesismo della sintesi “convergono” nell’attribuire le responsabilità della disoccupazione a rigidità di prezzi e salari e a vincoli all’operare del mercato. La nuova macroeconomia classica e le aspettative razionali completano il quadro sia nel senso di palesare il carattere effimero delle manovre fiscali basate sulla domanda, sia nel senso di interpretare i cicli come reazione razionale e di equilibrio ad ogni forma di “sviamento” operato dalle politiche. Ciò che prepara il terreno
3) alla teoria dei cicli reali, che attribuisce a shock dal lato dell’offerta di merci l’origine dei cicli, ripiegando poi anch’essa su reazioni ottimali agli shock, con fenomeni di sotto-occupazione e sotto-produzione, tutti dovuti ad ostacoli in azione, sempre dal lato dell’offerta, al recupero di piena saturazione delle risorse. Questi ostacoli devono essere rimossi attraverso “riforme” liberalizzanti il mercato del lavoro, quello delle merci, quello del movimento dei capitali, quello del credito.
Che, alla luce della morsa costruita con queste tre mosse, il nuovo disegno della macroeconomia fosse ritenuto concluso, venne del resto reso noto con una arroganza disarmante da Lucas, lo studioso che ha maggiormente valorizzato le aspettative razionali, nel 2001: “Quel che sostengo nella mia conferenza è che la macroeconomia, nel senso originario del termine, ha avuto successo: la questione centrale della prevenzione delle crisi è stata risolta, in tutti i suoi aspetti, e da vari decenni” (come opportunamente ricorda Saraceno nell’incipit del suo quarto capitolo). Immaginate cosa succederebbe se un fisico dicesse qualcosa di equivalente! Ed ecco perché parlo di regresso cognitivo.
Reazioni alla crisi del 2007-8
Il problema è, in barba alla crisi impossibile per Lucas del 2007-8: vi sono state vere reazioni costruttive dopo l’esplosione della crisi?
Saraceno dà un principio (dichiaratamente aperto) di risposta all’interno del suo quinto capitolo. Si è riconosciuto, anche da parte dell’ortodossia, che forse esiste una relazione di complementarietà tra le riforme (sempre le stesse) che dovrebbero sostenere la crescita nel lungo periodo e l’esigenza di non deprimere eccessivamente l’economia, via bassa domanda, nel breve periodo. Le riforme possono infatti fallire in un clima depresso, mentre un clima migliore può agevolare la riuscita delle riforme stesse; a sua volta una migliore tenuta nel breve periodo può impedire un depauperamento eccessivo del capitale, fisico, umano e sociale in precedenza costruito, contribuendo così ad una maggiore vivacità delle economie anche nel lungo periodo. (Ovvero: il buon senso può a volte folgorare!).
Sembra inoltre che, da parte di molti, ci si cominci a rendere conto (a) del fatto che esista una correlazione inversa tra iniqua distribuzione di redditi e ricchezza da un lato e vitalità e vivacità delle economie dall’altro; “la dimensione della torta e quella delle singole parti sono legate: non si può puntare all’efficienza trascurando l’equità”; (b) che vi è un eccesso di risparmio connesso alla scarsa propensione ad investire in campo reale, non curabile con i bassi tassi di interessi ma che necessita del sostegno prolungato della domanda; (c) che vi potrebbero essere sentieri virtuosi connessi ad una ripresa, meglio regolata che nel passato, di una sequenza di investimenti pubblici non solo nei campi più tradizionali delle infrastrutture, ma anche in quelli della tutela e dello sviluppo del capitale umano, delle politiche per l’ambiente e per l’innovazione.
Qualche riserva
Ho due riserve parziali, esprimendo le quali colgo al volo gli stimoli che Saraceno stesso lancia a conclusione del suo lavoro (“dove va la macroeconomia?”). La prima riguarda la sottovalutazione del carattere rivoluzionario degli economisti del primo mezzo secolo scorso cui ho fatto cenno in esordio. La seconda riguarda la sottovalutazione del ruolo negativo che nella storia del regresso culturale hanno avuto gli economisti affascinati da Keynes.
1) Sia il filone keynesiano che quello pigouviano hanno aperto una strada che aveva in comune un grande pregio, quello di argomentare che i segnali forniti dal mercato con i prezzi (e non solo) erano errati, nel senso di condurre l’economia su sentieri che trascurano opzioni migliori o che implicano costi e rischi che la contabilizzazione monetaria delle transazioni di mercato è incapace di registrare. Nella logica e nel linguaggio della programmazione ottimale si può dire che il sistema dei prezzi di mercato diverge sistematicamente dai prezzi ombra, cioè dagli indicatori corretti di valore associati alle scelte ottime per il sistema.
Esemplifico le implicazioni: le risorse sottoutilizzate non hanno valore (il prezzo ombra del lavoro o del capitale inutilizzato è pari a zero), le emissioni inquinanti hanno un alto valore negativo anche se nei mercati sono gratuite e ciò conduce ad inquinare, il costo reale di opere pubbliche è nullo se vengono usate risorse non saturate, a dispetto del fatto che in bilancio compare una registrazione monetaria positiva, mentre invece tale costo è maggiore di quanto appaia in bilancio quando la spesa pubblica spiazza risorse già saturate, a causa dei costi di aggiustamento trascurati, ecc.
2) I keynesiani hanno pesanti responsabilità. Una parte di essi ha passato il tempo venerando il maestro e facendo ricami intorno a questioni marginali (quasi che il maestro non sapesse esprimersi con chiarezza e quindi avesse un bisogno costante di esegeti); un’altra parte ha passato il tempo dividendosi su questioni più importanti. Tuttavia quasi nessuno ha posto IL vero problema. Keynes ha aperto una strada, riuscendo ad andare al di là del velo delle apparenze; ovviamente il suo quadro era incompleto, vi erano errori e sottovalutazioni, la storia avrebbe posto in evidenza altri elementi che andavano al di là di quanto nel suo quadro era incluso e alcuni di essi avrebbero probabilmente allargato ulteriormente il suo stesso sguardo se fosse vissuto più a lungo. Compito arduo di chi lo seguiva era andare avanti, superare limiti ed errori. Ciò è avvenuto in misura davvero troppo limitata, procedendo spesso per compartimenti stagno. Ciascuno di noi ha, sotto sotto, un’idea di questi limiti e se fossimo stati tutti più disposti al dialogo, come conclude Saraceno, qualcosa di meglio sarebbe venuto fuori. Personalmente penso a due limiti, l’uso del principio di equilibrio e il breve-periodismo.
La dinamica è stata prevalentemente vista come fatta di trend e cicli, allontanamento e “ritorno” all’equilibrio; quasi mai come un processo senza o fuori dall’equilibrio, più o meno intrinsecamente stabile, ma sempre aperto a crisi, ovvero a distorsioni che per lungo tempo possono restare silenti di implicazioni ma poi determinare collassi improvvisi ed inaspettati, da riguardare più come fenomeni simili a quelli metereologici o biologici che a sistemi servo-meccanici.
Eventi quali le tendenze degli ultimi decenni al peggioramento della giustizia distributiva e l’aumento del peso della ricchezza improduttiva, non solo finanziaria, vengono certo posti in relazione reciproca, ma altrettanto certamente non spiegati nella loro genesi; e così l’eccesso di risparmio, che viene sempre visto come reazione all’eccesso di indebitamento e non invece, come adombrato ma non sufficientemente sottolineato da Tobin, un fenomeno patologico la cui azione è coerente con la natura monetaria delle nostre economie. E questo succede perché l’esigenza di creare liquidità in un sistema che cresce rende più difficile, e non (come si pensa in casa ortodossa) più facile, assicurare che i risparmi monetari siano capaci di aggiustarsi al costo monetario degli investimenti (dei soli investimenti) che espandono la capacità produttiva (come chiarito dalla letteratura sulla crescita).
L’eccesso di risparmio, come purtroppo solo intuito dagli stagnazionisti, allocandosi nella ricchezza improduttiva, trova guadagni migliori nei vari casinò sparsi per il mondo e nati all’ombra dei mercati resi selvaggi dalle cosiddette “riforme”, spiazzando così ulteriormente gli investimenti produttivi.
Francesco Saraceno, La scienza inutile, Luiss University Press, 2018, 16 euro