For sale/In Italia ci sono molte aziende in movimento che cercano di attuare strategie dinamiche nelle modalità compatibili con la loro struttura e con le fragilità che le contraddistinguono. Andrebbero sostenute ma non esiste una strategia
Sul finire della grande crisi sono attivi in Italia un numero molto elevato di imprese in difficoltà o in posizioni difensive, un numero ridotto – ancorché essenziale – di operatori di eccellenza e, infine, un gruppo consistente di aziende che, pur non riuscendo a raggiungere sempre risultati di crescita equilibrata, sta tentando di realizzare strategie dinamiche nei modi e nelle forme per loro possibili.
Le “imprese in movimento”, quelle dell’ultimo gruppo, cercano di attuare strategie dinamiche nelle modalità compatibili con la loro struttura e con le fragilità che le contraddistinguono; esse costituiscono, per la loro numerosità e per le caratteristiche intrinseche dei soggetti che ne fanno parte, la componente ove risiedono le maggiori potenzialità di crescita per il sistema produttivo nel suo insieme.
Non si tratta, quindi, né di avere come obiettivo esclusivo di una politica pubblica i rari “campioni nazionali”, come affermato in molte proposte di singoli studiosi o di istituzioni nazionali e internazionali, né di ipotizzare strategie universaliste, ma piuttosto di promuovere la diffusione dei fattori del dinamismo presso una massa consistente di operatori che possono trarre grande vantaggio da appropriate azioni di supporto.
Nelle vicende italiane recenti, le imprese di qualità e dinamiche sono presenti in quasi tutti i settori del manifatturiero e con una diffusione anche in classi dimensionali solitamente sottovalutate; con tutti i limiti presenti, riescono a essere attive in misura significativa anche nel campo della ricerca e sviluppo o della presenza sui mercati esteri solitamente considerati preclusi alla piccola dimensione. Si tratta di una presenza già rilevante all’inizio del periodo, ma che negli anni tra il 2008 e il 2013 (in particolare dopo il 2011) si è accompagnata a dinamiche sorprendenti.
Una strategia delle politiche industriali che voglia riconsiderare un ruolo di leadership pubblica dovrà confrontarsi con grandi temi di prospettiva (dalla green economy alle scienze della vita, alle tecnologie più capaci di traguardare il futuro) – sperabilmente considerandone il grado di possibile industrializzazione –, ma non potrà eludere il tema del supporto per coloro che già ora competono sui mercati globali.
Ogni indicatore sintetico pubblicato periodicamente sulla competitività, sulla facilità del fare impresa, sugli oneri fiscali, sulla capacità innovativa, sull’impegno di risorse in ricerca e sviluppo da parte delle aziende industriali nazionali e su molti altri aspetti, rappresentano univocamente un quadro italiano, in rapporto agli altri paesi, che sembrerebbe incompatibile con qualsiasi possibilità di sopravvivenza in mercati globalizzati.
Eppure le performance sui mercati esteri hanno mostrato segnali di tenuta più che apprezzabili.
Ciò è avvenuto nonostante due rilevanti freni: non solo l’assenza di un sistema generale di supporto all’attività produttiva esteso – a differenza di quanto accade in tutti i principali paesi europei ed extraeuropei –, ma anche la presenza di un sistema bancario caratterizzato, nel periodo, da forti sollecitazioni sull’attività degli istituti di credito medesimi che si sono riflesse in consistenti riduzioni dei flussi di credito erogato alle imprese e in oneri molto elevati.
A fronte dell’evidenza di un orizzonte temporale della crisi per il mercato interno che si è proiettata in un orizzonte lunghissimo, la ricerca di nuovi mercati si è estesa in misura consistente: molti operatori hanno tentato di ampliare la propria area a seconda delle loro capacità. Con questo obiettivo, si passa, così, dal locale al regionale, al nazionale, registrando, infine, un vistoso incremento della scelta di internazionalizzazione.
Pur con i buoni risultati sottolineati, in termini di capacità di penetrazione sui mercati e di accettabile competitività, i fattori di debolezza rimangono evidenti, soprattutto con riferimento alla fragilità delle azioni intraprese.
Un indicatore molto rilevante è rappresentato dalla forte instabilità delle attività dinamiche: nel confronto tra i diversi anni, le variazioni di stato riferite all’internazionalizzazione, alla ricerca e all’innovazione sono molto frequenti e segnalano un’incertezza strategica o una incapacità a perseguire stabilmente dei percorsi virtuosi che limita le possibilità di successo aziendale.
Il disimpegno dalla politica industriale sembra ormai alla fine. Dopo un lunghissimo ciclo che si è tradotto anche in una contrazione dei flussi finanziari tale da portare l’Italia agli ultimi posti in Europa per Aiuti di Stato, dal 2012 si sono succeduti numerosi provvedimenti che hanno indicato, proposto o rifinanziato strumenti vecchi e nuovi con una gamma estesa di possibilità.
Gli effetti non si leggono nei flussi registrati fino al 2013, ma, forse, il livello di minimo è stato raggiunto. I provvedimenti non sono ancora del tutto chiari nel loro profilo quantitativo: alcuni per le modeste risorse allocate, altri per una operatività sinora ridotta. I punti deboli, tuttavia, sembrano individuabili ai due poli della complessiva definizione di una politica.
Ma è sul piano qualitativo e della adeguata definizione strategica che il dibattito è assente. Si riconoscono tendenze e ruoli in crescita (si pensi alla Cassa Depositi e Prestiti o al ruolo crescente delle Agenzie), ma il disegno globale è difficile da cogliere e non esplicitamente discusso. L’insieme che si viene a disegnare è tutt’altro che coerente, ma almeno segnala una vivacità che non si registrava da tempo.