La nascita dell’epidemia di coronavirus, l’esplosione del contagio e le misure del governo di Pechino sono analizzate in un testo – Social Contagion – di un blog di ricercatori cinesi all’estero, ‘Chuangcn.org’: qui una sintesi, con le lezioni che vengono dalla Cina e le conseguenze sul suo ruolo internazionale.
L’analisi di ‘Social Contagion’ (qui la traduzione in italiano a cura del sito ‘Pungolo Rosso’) inizia da Wuhan, la megalopoli epicentro del virus che dal 2001 ha visto raddoppiare la sua popolazione, arrivando a circa 11 milioni di abitanti nel 2018. Wuhan, capoluogo dell’Hubei, sulle sponde dello Yangtze (Fiume Azzurro), è uno dei maggiori centri dell’industria pesante, siderurgica e infrastrutturale della Cina. È una città millenaria, sviluppatasi sui mercati agricoli e del bestiame, che si è adattata a una crescita dirompente.
La cultura culinaria di Wuhan, i suoi mercati rionali e l’ospitare un istituto di virologia tra i più importanti della Cina hanno costruito il terreno retorico per una vasta gamma di commenti ‘orientalisti’, spesso razzisti, dove virologia e costumi si intersecano fornendo un’immagine stigmatizzata della Cina, un regno del folclore nel quale modernità e ‘barbarie’ si mescolano. L’epidemia è poi divenuta occasione per molti media occidentali ‘liberali’ di rilanciare analisi, più simili a speranze, in cui la crisi sanitaria si trasforma in instabilità sociale, innescando una ‘crisi di legittimità’ per il Partito Comunista.
Due sono gli interrogativi al centro di ‘Social Contagion’. Il primo riguarda la relazione tra economia ed epidemiologia e l’impatto del capitalismo cinese, inteso come modo di produzione e riproduzione sociale, sulla natura e sulla sfera biologica.
Il secondo interrogativo riguarda gli effetti del blocco totale introdotto nella regione, le conseguenze economiche e sociali, le forme di governo di questo atipico ‘sciopero di massa’ imposto dall’alto, le contraddizioni inaspettate o nascoste che apre nella società cinese.
L’analisi del legame tra epidemie e contesto politico-economico considera il ruolo di migrazioni, invasioni coloniali e sviluppo capitalistico sugli squilibri ambientali e sull’emergere di virus sempre più aggressivi. Inquinamento, intensi processi di urbanizzazione, il sovvertimento degli ecosistemi locali e la messa a valore della riproduzione naturale vengono descritti come il terreno fertile in cui uomini, animali e natura, modificando repentinamente le loro relazioni, danno vita a nuove malattie accelerando sia il loro trasferimento zoonotico (il salto di specie dall’animale all’essere umano) sia la virulenza delle stesse. Si tratta di tesi riprese da biologi critici come Robert G. Wallace, il cui libro Big Farms Make Big Flu, pubblicato nel 2016, spiega in maniera esauriente la connessione tra il settore agroalimentare capitalistico e l’eziologia delle recenti epidemie, che vanno dalla SARS all’Ebola.
La Cina delle ‘riforme’, con i suoi record di crescita del PIL, la sua dimensione continentale e un’immensa popolazione (1,4 miliardi di persone) ha forse prodotto il maggior impatto antropico sull’ecosistema Terra, estraendo, importando, esportando e mettendo a valore materie prime, merci, lavoro e capitale in quantità ben maggiori di quelle a disposizione delle ‘prime’ economie capitalistiche in Europa e negli Usa.
La grande crescita economica cinese non è stata accompagnata da un adeguato sviluppo del sistema sanitario di base, privatizzato nel periodo post-maoista e reso non accessibile in maniera omogenea ed egalitaria a una popolazione che, nel successo economico, ha visto acuire le disuguaglianze sia tra le aree urbane e rurali sia tra le province interne e quelle costiere. A tal proposito va ricordato l’impatto gerarchizzante del sistema dell’Hukou (cittadinanza provinciale), che lega l’accesso a diritti sociali e a servizi di welfare alla propria provincia di nascita non permettendo a centinaia di milioni di lavoratori e lavoratrici migranti e alle loro famiglie di accedere, tra gli altri, ai servizi sanitari di base. L’articolo riporta innumerevoli scandali che hanno attraversato la sanità pubblica cinese negli ultimi anni, soffermandosi su come essa sia divenuta luogo centrale per i conflitti nel mondo del lavoro, aspetto che è stato evidenziato anche da numerose inchieste prodotte da siti indipendenti come il China Labour Bulletin.
Allo stesso tempo è necessario sottolineare come la sanità pubblica cinese che affrontò la SARS nel 2004, non sia paragonabile a quell’odierna. Negli ultimi 15 anni il Partito Comunista ha investito fortemente nello sviluppo del settore e nell’ampliamento della sua erogazione sia per motivi legati alla stabilità sociale, radicati nella costante necessità del Partito-Stato di affermare la propria legittimità ed efficacia, sia per le crescenti tensioni e rivendicazioni dei lavoratori, ed infine per ragioni di carattere macroeconomico.
A partire dallo scoppio della crisi del 2007-2008, le autorità cinesi hanno intrapreso politiche volte a modificare un modello di crescita eccessivamente incentrato sulle esportazioni ricercando un potenziamento della domanda interna. In questo processo un ruolo chiave è svolto dalla riduzione dell’elevata propensione privata al risparmio, spesso legata alle necessità della popolazione di provvedere alle proprie spese sanitarie, nonché pensionistiche e formative. Oggi, come abbiamo visto anche sui nostri quotidiani, le aspettative di vita della popolazione cinese e le dotazioni mediche sono simili a quelle occidentali, anche se la spesa sanitaria per abitante (calcolata a parità di poteri d’acquisto) resta notevolmente inferiore alla media delle economie europee.
‘Social Contagion’ mette così in evidenza la contraddizione tra la traiettoria di rapida crescita della Cina e l’emergenza nata con l’irrompere del virus, il dilemma della politica di Pechino tra la priorità data all’economia e l’urgenza di affrontare l’epidemia, restituendo la complessità di una gestione della crisi che alterna efficienza e parzialità nell’arte di governo così come nella sanità pubblica.
Affrontando gli effetti dell’epidemia e la sua gestione ‘spettacolarizzata’ da parte del Partito, gli autori di ‘Social Contagion’ analizzano come la politica cinese, e le sue arti di governo, ha costruito una ‘guerra civile contro un nemico invisibile’ senza risolvere tuttavia le profonde contraddizioni esistenti. Questa ‘guerra’ ha portato alla luce la profonda asimmetria tra la narrazione ‘estetica’ di un regime efficiente e la concreta incapacità di gestione della crisi.
L’approccio iniziale che negava la gravità dell’epidemia, l’arresto del dottor Li Wenliang, uno dei primi a denunciarne i pericoli e poi scomparso a causa del covid-19, le misure contro altri medici ‘mistificatori’ hanno incrinato la macchina propagandistica del partito.
La visita del Presidente Xi Jinping nella Wuhan ‘guarita’ il 10 marzo 2020, a 45 giorni dallo scoppio dell’epidemia è stata innalzata a simbolo dell’efficacia del Partito-Stato e rappresenta il tentativo di raccogliere i dividendi di un successo: ma sono immagini che stridono con il panorama nazionale, dove le scarse connessioni tra i diversi livelli di governo hanno mostrato la sostanziale autonomia delle province e dei funzionari locali. Il resto del paese è stato gestito con appelli alla ‘buona volontà’, repressione e controllo sociale lasciando alla popolazione un interrogativo, che ormai è comune a tutti: chi pagherà i costi dell’epidemia?
Osservando lo scenario internazionale non si può dire che il ‘modello di contenimento’ cinese non abbia funzionato: l’Italia è ancora travolta dall’epidemia, l’Europa è confusa e divisa, gli Stati Uniti annaspano, senza un sistema sanitario adeguato. L’immagine della Repubblica Popolare sembra essersi rafforzata, il soft power di Pechino viaggia insieme ai suoi medici e ai suoi cargo con materiale utile alla lotta al covid-19. Sul piano internazionale vi sono pochi dubbi che la Cina abbia risposto in maniera convincente. ‘Social Contagion’ ci mostra le criticità di un sentiero di sviluppo stretto tra il dogma della crescita, l’emergenza epidemia e una stabilità sociale mai scontata. Tantomeno ora, con il mondo che affronta la seconda recessione globale in un decennio, una crisi destinata a cambiare le l’economia e le gerarchie internazionali.