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L’euro tra stagnazione e prospettive di riforma

Il Trattato di Maastricht ha imposto alla Ue un’architettura economico-istituzionale che frena crescita, salari e domanda interna. Oggi si intravede qualche timido segnale di discontinuità: la BCE amplia il suo raggio d’azione e persino la Germania mette in discussione il dogma del pareggio di bilancio.

La stagnazione dell’eurozona

La stagnazione economica nella zona euro è ampiamente documentata, e dopo la pubblicazione del Rapporto Draghi è diventata un tema centrale del dibattito pubblico. Negli ultimi vent’anni, i paesi dell’eurozona hanno registrato tassi di crescita inferiori non solo rispetto alla Cina, ma anche rispetto agli Stati Uniti e ai paesi europei che non fanno parte dell’euro, come Norvegia, Svizzera, Svezia e Danimarca. Un’eccezione è rappresentata dal Regno Unito nel periodo successivo alla crisi finanziaria del 2008.

Una ricerca che conduco con Björn Bremer lo conferma. Utilizzando il metodo dei controlli sintetici, stimiamo cosa sarebbe accaduto al PIL dei paesi dell’eurozona se non fossero entrati nell’unione monetaria. Quasi tutti i paesi dell’EZ-11 mostrano una dinamica di crescita inferiore rispetto ai loro controfattuali, con le sole eccezioni di Irlanda e Lussemburgo. Per l’Italia, il declino relativo inizia immediatamente dopo l’adozione dell’euro, mentre per altri, come la Spagna, si manifesta dal 2010, suggerendo che una parte importante della stagnazione sia legata alla risposta di politica economica alla crisi dei debiti sovrani.

Le radici istituzionali della stagnazione

La stagnazione dell’eurozona non è un fenomeno accidentale, ma una conseguenza diretta dell’architettura istituzionale dell’euro, della sua “costituzione macroeconomica” definita dal Trattato di Maastricht. Dal punto di vista microeconomico, il Trattato privilegia la concorrenza e la libertà di movimento dei fattori produttivi – in primis dei capitali – ma impone vincoli severi anche sul piano macroeconomico: una politica monetaria orientata esclusivamente alla stabilità dei prezzi, il divieto di finanziamento monetario dei disavanzi pubblici (art. 123 del Trattato) e politiche fiscali nazionali orientate al pareggio di bilancio.

In un Rapporto pubblicato nel 1997, una commissione di economisti svedesi coordinata da Lars Calmfors e incaricata dal governo di valutare l’adesione all’euro (EMU and Sweden: A Report on the EMU Inquiry), aveva avvertito che la sua architettura era eccessivamente rigida e non offriva adeguate protezioni contro shock asimmetrici profondi. Per non violare il limite del 3% di deficit, notava il Rapporto, i paesi avrebbero dovuto mantenere surplus strutturali permanenti, e in caso di shock molto pesanti sarebbero stati costretti a politiche fiscali procicliche e svalutazioni interne, ovvero tagli a salari e prezzi, con effetti recessivi e rischi di conflittualità sociale.

Per questo, la commissione svedese raccomandava di non aderire all’euro alla sua partenza, ma di attendere la sua evoluzione. Un’analisi simile avrebbe giovato anche all’Italia, dove l’alto debito pubblico con cui si entrava nell’euro rendeva ancora più importante assicurare un tasso di crescita elevato, necessario ad assicurare la sostenibilità e la progressiva riduzione del rapporto debito-PIL. Ma non si fece nessuna analisi seria e si preferì ricorrere a metafore sportive quali: “batteremo i tedeschi ai tempi supplementari”.

In sostanza, la costituzione economica di Maastricht definisce un sistema in cui la stabilità dei prezzi è il fine della politica monetaria, la politica fiscale è strutturalmente restrittiva (soprattutto per un Paese con livelli iniziali di debito elevati) e i salari sono la principale variabile di aggiustamento in caso di shock. L’unico modello di crescita pienamente compatibile con questo assetto istituzionale è quello export-led, trainato dalle esportazioni e fondato sulla compressione della domanda interna e sulla moderazione salariale, il modello adottato dalla Germania dopo la riunificazione. Tra il 1995 e il 2008, l’85% della crescita tedesca è attribuibile alle esportazioni.

Contemporaneamente, la costituzione economica europea consentiva – in maniera probabilmente involontaria – anche l’emersione di un secondo modello di crescita, trainato dal debito e dalla domanda interna. I mercati finanziari non venivano regolamentati dal Trattato di Maastricht, e ad essi si affidava il compito di controllare i governi. Contemporaneamente scompariva il vincolo di partite correnti per Paesi (come la Spagna) che avevano un problema di importazioni eccessive. In aggiunta, la presenza di una politica monetaria unica accompagnata da tassi di inflazione differenti generava tassi di interesse reali inferiori (e addirittura negativi) nei paesi a più alta inflazione (come la Spagna) e tassi di interesse reali maggiori in paesi a bassa inflazione (come la Germania). Di conseguenza, i primi crescevano più rapidamente dei secondi, grazie agli investimenti in costruzioni e al credito facile, senza doversi preoccupare del deficit estero.

Insomma, nel primo decennio dell’euro, l’assetto economico europeo ha consentito la coesistenza di due modelli di crescita: quello tedesco, trainato dalle esportazioni, e quello spagnolo, trainato dalla domanda interna e dal debito. Era un equilibrio instabile, che si spezzò con la crisi dei debiti sovrani.

La gestione della crisi dei debiti sovrani

La crisi dei debiti sovrani fu letta e gestita in modo profondamente errato. Invece di riconoscere che si trattava della manifestazione europea di una crisi bancaria internazionale, causata da un’eccessiva esposizione debitoria delle istituzioni finanziarie, come ha mostrato in dettaglio Adam Tooze, la si interpretò come un problema di finanza pubblica. Ne derivò una strategia di aggiustamento che mise fuori gioco il modello di crescita basato sulla domanda interna e sul credito, e generalizzò invece il modello tedesco di crescita trainata dalle esportazioni. I nostri dati mostrano che nel periodo successivo alla crisi dei debiti sovrani la crescita non solo si riduce nell’eurozona, ma aumenta sensibilmente la quota dovuta alle esportazioni.

In particolare, i paesi dell’Europa meridionale furono spinti a riconquistare competitività attraverso le riforme strutturali: liberalizzazioni, flessibilizzazione del mercato del lavoro, compressione dei salari e della spesa pubblica. In pratica, si impose a economie già colpite dalla recessione di adottare politiche procicliche che distruggevano domanda interna. Le conseguenze furono disastrose dal punto di vista economico e, ancor più, da quello politico, poiché – come dimostrano diverse analisi politologiche – l’austerità accelerò la crisi dei partiti tradizionali e favorì l’ascesa dei nuovi partiti “populisti”.

La prova più chiara che si trattò di un errore di politica monetaria è che le tensioni sui mercati svanirono quasi istantaneamente al solo annuncio di Mario Draghi – il celebre “whatever it takes” del luglio 2012 – con cui la BCE si impegnava a difendere l’euro. Poco dopo nacque il programma Outright Monetary Transactions (OMT). Anche se mai attivato, bastò a ristabilire la fiducia.

La trasformazione della politica monetaria e i limiti di quella fiscale

Sul piano fiscale, la risposta europea fu quella di irrigidire ulteriormente la costituzione di Maastricht. Nel 2009 la Germania introdusse nella propria Costituzione la “Schuldenbremse”, la regola del pareggio di bilancio, poi generalizzata alla zona euro con il Fiscal Compact del 2012. Si istituzionalizzò così una visione in cui la stabilizzazione finanziaria coincideva con la disciplina fiscale. Intorno al 2014-2015 il sistema appariva talmente disfunzionale che a me personalmente sembrava che per un Paese come l’Italia fosse razionale considerare l’ipotesi di uscire dall’euro, nonostante i rischi elevati.

Tuttavia, se la politica fiscale è rimasta in larga misura fedele allo spirito di Maastricht, la politica monetaria è radicalmente cambiata. La BCE di Mario Draghi e di Christine Lagarde non è la stessa istituzione che fu diretta da Jean-Claude Trichet. Sotto la pressione degli eventi la BCE ha assunto, di fatto, il ruolo di market maker of last resort, intervenendo per contenere gli spread e garantire la liquidità dei mercati dei titoli sovrani – non per scelta, ma per necessità. La necessità, prima, di salvare l’euro nel 2012; poi, di contrastare le tendenze deflazionistiche con il Quantitative Easing (QE) dal 2015; successivamente, di prevenire il collasso economico durante la pandemia con il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP) nel 2020 e infine, di gestire le tensioni legate all’aumento dei tassi d’interesse nel 2022 con il nuovo Transmission Protection Instrument (TPI).

Ogni volta, la BCE ha giustificato il proprio interventismo con l’argomento – abbastanza fumoso – della necessità di “assicurare la corretta trasmissione della politica monetaria”, condizione indispensabile per perseguire il suo mandato di stabilità dei prezzi. Ma la sostanza è che la costituzione monetaria effettiva dell’eurozona è cambiata profondamente: la BCE oggi esercita funzioni che i Trattati originari non avevano mai esplicitamente previsto. Gli interventi della BCE interferiscono pesantemente nella politica redistributiva e fiscale, per il momento in maniera regressiva – i programmi di acquisto di titoli hanno favorito i proprietari degli stessi, ovvero i ricchi – ma possono essere utilizzati in maniera differente, ad esempio per mettere in campo un QE for the people (soprattutto se l’euro digitale darà ad ogni nucleo familiare un conto presso la BCE) o per finanziare gli investimenti in decarbonizzazione.

Questo mutamento non è stato accompagnato da una riforma dei Trattati, come avrebbe dovuto, ma ha ottenuto una (debole) legittimazione attraverso la giurisprudenza europea della Corte di Giustizia. La sentenza Pringle (C-370/12, 2012) ha confermato la compatibilità del Meccanismo Europeo di Stabilità con i Trattati; la sentenza Gauweiler (C-62/14, 2015) ha riconosciuto la legittimità del programma OMT, respingendo l’accusa di violazione dell’articolo 123 sul divieto di finanziamento monetario; e infine la sentenza Weiss (C-493/17, 2018) ha esteso tale principio al Public Sector Purchase Programme (PSPP).

In entrambe le ultime due decisioni, la Corte di Giustizia ha difeso l’azione della BCE contro le contestazioni della Corte Costituzionale tedesca, che riteneva quei programmi analoghi a un finanziamento monetario agli stati e dunque ultra vires, cioè eccedenti le competenze attribuite dai Trattati. Insomma, la Corte ha accettato che la BCE eserciti un margine di discrezionalità molto più ampio e non previsto dallo spirito, se non dalla lettera, dei Trattati.

In questo senso, la costituzione economica dell’eurozona si è trasformata in modo asimmetrico: la politica monetaria si è evoluta, quella fiscale molto meno. Il nuovo quadro lega esplicitamente l’interventismo monetario al rispetto delle regole fiscali, anche se l’obbligo di austerità si attenua. Se nel 2012, per accedere all’OMT, un paese doveva sottoscrivere un programma di aggiustamento del Meccanismo Europeo di Solidarietà (MES) – cioè accettare severe condizionalità – oggi, per beneficiare del TPI, è sufficiente che lo Stato sia in regola con le norme europee di bilancio. È un progresso, ma ancora insufficiente.

Si è persa un’occasione importante con la riforma del Patto di Stabilità e Crescita del 2024, che avrebbe potuto introdurre un cambiamento sostanziale anche nella politica fiscale europea, almeno con l’esclusione degli investimenti pubblici strategici – in digitalizzazione, transizione verde e difesa comune – dal calcolo del deficit. Non è accaduto, ma è qui che andrebbero concentrate le energie riformatrici: su una riforma ulteriore del Patto di Stabilità che consenta l’aumento degli investimenti pubblici.

In questo contesto, anche la mia valutazione personale è cambiata. Se nei primi anni Dieci del Duemila ritenevo che per l’Italia potesse essere razionale considerare l’uscita dall’euro, oggi penso che non sia più il caso. L’eurozona non è più la stessa. Oggi, dunque, “cambiare l’Europa dall’interno” non è più un alibi per l’immobilismo, ma una prospettiva più concreta.

Una nuova fase?

La situazione dell’eurozona oggi è più fluida che in passato. Questo perché è cambiato l’atteggiamento del paese che ha dettato la linea politica dell’Unione negli ultimi due decenni: la Germania. Durante la crisi dei debiti sovrani, Berlino impose la propria ortodossia e il proprio modello, portando la zona euro e in ultimo anche se stessa in stagnazione. Ma oggi le élite tedesche sembrano aver preso atto che il modello di crescita trainato dalle esportazioni non funziona più.

In realtà, quel modello non ha mai funzionato per gli altri paesi dell’eurozona. Per la Germania ha funzionato per un certo periodo, finché la domanda globale di beni manifatturieri avanzati sosteneva il suo sistema produttivo. Oggi, però, la specializzazione produttiva tedesca, centrata sull’automotive, sulla meccanica e sulla chimica, non è più sincronizzata con la domanda internazionale. Il problema non è più – come negli anni Duemila – quello di ridurre i costi per riacquistare competitività, ma di colmare il ritardo su due fronti decisivi: la decarbonizzazione e la digitalizzazione.

Nella stessa Germania cresce la consapevolezza che anni di austerità hanno prodotto infrastrutture obsolete, reti digitali insufficienti, servizi pubblici sottofinanziati – un declino infrastrutturale che ora penalizza l’industria tedesca oltre che la popolazione. Per questo, recentemente si è verificata una vera svolta nella politica fiscale tedesca. Il governo ha abbandonato, di fatto, il dogma del pareggio di bilancio e varato un piano di investimenti di circa 500 miliardi di euro destinato alla transizione verde e alle infrastrutture, senza contare gli investimenti aggiuntivi per la difesa. È una rottura significativa con la tradizione della “Schuldenbremse”.

Questa svolta non è nata dall’improvvisazione. Da tempo le grandi imprese e le associazioni industriali tedesche – dal Bundesverband der Deutschen Industrie al Institut der deutschen Wirtschaft – chiedevano un incremento degli investimenti pubblici, anche a debito, per evitare il declino del modello manifatturiero. Ma è un cambiamento ambivalente: l’occasione immediata di questo cambiamento è stato il riarmo. Quindi, da un lato c’è il ritorno della politica fiscale; dall’altro, questo è accompagnato da una militarizzazione preoccupante, che punta a riconvertire in chiave bellica il settore manifatturiero tedesco in crisi.

Rimane inoltre aperta una questione cruciale: se il mutamento di atteggiamento sul piano della politica fiscale nazionale si tradurrà in un approccio più flessibile anche sul piano europeo. In un mondo in cui i mercati cinese e statunitense sono sempre più difficilmente accessibili per ragioni sia economiche che geopolitiche, è possibile che le élite tedesche comprendano che la domanda europea non debba essere “affamata”, ma sostenuta e rafforzata. È una piccola speranza. A questo si riduce, oggi, il nostro ottimismo della volontà.

* Il testo qui riportato riprende i temi dell’intervento tenuto da Lucio Baccaro – Direttore del Max Planck Institute for the Study of Societies di Colonia – lo scorso 10 ottobre 2025 al panel “Capitalismo, Stato e Europa”, nell’ambito della seconda edizione del “Festival dell’economia critica” organizzato dalla Fondazione Feltrinelli, con Sbilanciamoci! tra i partner dell’iniziativa, a Milano.