La riduzione dell’aliquota IRPEF sul secondo scaglione prevista dalla Legge di Bilancio 2026 ha acceso un confuso dibattito. Cerchiamo di chiarire, al di là della vaghezza delle categorie usate per individuare i beneficiari (ceto medio, ricchi), chi essi siano effettivamente. Da Menabò di Eticaeconomia
Il dibattito, politico e mediatico, che si è svolto negli scorsi giorni sul più discusso provvedimento della Legge di Bilancio 2026 – la riduzione dell’aliquota IRPEF sul secondo scaglione – merita attenzione per diversi motivi. Sono motivi che riguardano la chiarezza nella presentazione della misura e dei suoi effetti, l’uso di termini tanto evocativi quanto imprecisi come ceto medio o ricchi, la rara, per non dire assente, attenzione per l’effettivo impatto sulle disuguaglianze. Proviamo a argomentare brevemente questi punti.
Anzitutto ricordiamo di cosa si tratta. La legge di Bilancio prevede la riduzione dal 35 al 33% dell’aliquota Irpef sul secondo scaglione, quello che va dai 28 ai 50 mila euro di reddito lordo individuale annuo. La misura è stata con grande enfasi presentata come diretta a migliorare le condizioni del ceto medio – composto, secondo il governo, da chi percepisce un reddito compreso all’interno di tale scaglione – e i vari mezzi di comunicazione l’hanno largamente presentata con questa etichetta.
Il dibattito si è arroventato dopo le audizioni di Bankitalia, Upb e Istat al Senato che hanno – in sintesi – portato l’attenzione su due effetti, che non risultano sorprendenti a chi abbia un minimo di familiarità con il funzionamento delle aliquote IRPEF.
Il primo è che i benefici – sia in termini assoluti che in rapporto al reddito lordo – saranno maggiori per chi aveva un reddito più vicino ai 50 mila che ai 28 mila euro. Banalmente se il reddito è di 29 mila euro il risparmio di imposta è pari a 30 euro (pari a poco più dello 0,10% del reddito lordo) mentre se è di 50 mila si risparmiano 440 euro (lo 0,88% del reddito lordo) che naturalmente è il massimo risparmio consentito dalla misura.




