Nel dibattito sul reddito garantito c’è una incomprensione di fondo per cui chi promuove il reddito da lavoro non si rende conto che, pur senza cartellini da timbrare, i precari lavorano eccome
Affrontando il tema del reddito minimo in contrapposizione al reddito di cittadinanza nel concetto di reddito collegato o meno al lavoro, Sbilanciamoci ha dato la possibilità di aprire un dibattito che sino ad oggi correva su binari paralleli, ognuno con le proprie teorie più o meno innovative.
Tralasciando la sintesi delle varie posizioni che è possibile leggere direttamente sul sito, già in un precedente articolo avevo “staccato” il reddito dal concetto di lavoro come produzione di beni mercantilistici rifacendomi ai lavori di Vercelloni e Baronian (il primo degli autori ha preso parte al dibattito con un contributo insieme a Fumagalli, di cui condivido il contenuto).
Inevitabilmente per affrontare il tema si finisce nel nostro campo: ossia l’essere precari, vita precaria, lavori precari, tanto studio, ottime specializzazioni, curricula lunghi come tesine, referenze ed una montagna di ore lavoro che settimana per settimana si disperdono nel vuoto.
Proprio su questo punto, a mio avviso, si fronteggia una incomprensione di fondo, dove chi promuove “reddito da lavoro” non si rende conto che, pur senza cartellini da timbrare, si lavora, eccome se si lavora.
Con questo scritto vorrei cercare di arrivare ad una “non” definizione del termine precariato (1).
Cominciamo con qualche premessa. La disoccupazione di massa è elemento strutturale dello sviluppo tecnologico e informatizzato con cui fare i conti, pertanto addio posto fisso, governo dello Stato nell’economia e accentramento del potere nelle relazioni monetarie. Non esiste più uno Stato-nazione in grado di garantire diritti sociali ed economici, nonostante le promesse in caso di elezioni. Non a caso gli anni di lotte del compromesso riformista, come molti sostengono, ha trovato il proprio fondamento nella tripartizione storica che legava le grandi fabbriche, la tendenza alla piena occupazione e le politiche sociali. Periodi che, in tempo di globalizzazione e governo della Bce sulle politiche monetarie non torneranno più, nonostante i nostalgici.
Beni immateriali, General Intellect, De-personalizzazione
Bisogna porre l’accento sul fatto che i beni immateriali sono ormai componente sempre più vasta dei nostri consumi, di cui però, a differenza dei beni materiali, non si definisce bene il ciclo di produzione. Il General Intellect è forza produttiva centrale, seppur il lavoratore cognitivo continua ad essere sottomesso alle condizioni della prestazione precaria. In realtà l’intelligenza collettiva applicata alla vita sociale ha una potenzialità immensa che la sottomissione al principio del profitto privato disperde, e che un reddito di cittadinanza potrebbe ravvivare.
Bioeconomia è allora la parola con cui, come ritroviamo nei Quaderni di San Precario, si indica la critica dei rapporti sociali presenti nel capitalismo cognitivo.
Un’esperienza che deriva dalle lotte operaie degli ultimi anni, secondo Berardi Bifo, è che le lotte dei lavoratori precarizzati (de-personalizzati) non fanno ciclo “perché (…) occorre la contiguità spaziale dei corpi del lavoro, la continuità temporale esistenziale (…)e i comportamenti possono fare onda solo quando si dà una prossimità continuata nel tempo che l’info-lavoro non conosce più.”
Verso un manifesto del precariato
Soprattutto il precariato è uno stato mentale, emozionale e fisico (provate a guardare le statistiche in merito alle crisi d’ansia e panico esplose in maniera esponenziale negli ultimi anni) ben più ampio e incisivo del disoccupato.
In una pubblicazione di qualche anno fa – Falso movimento, dentro lo spettacolo della precarietà – si può leggere un insieme di concetti che, a mio avviso, nella loro frammentazione e trasversalità sono uno dei migliori manifesti identificativi del precario senza definizione.
Quali concetti identificano il movimento senza movimenti come lo definiscono gli autori? Ho cercato di riportare alcune parole chiave nei concetti espressi nel libro:
reperibilità: tutte le nostre facoltà, che un tempo avremmo pensato eccedere il terreno dello sfruttamento lavorativo – come le facoltà cognitive, relazionali, affettive – diventano elementi essenziali della forza-lavoro e, quindi, messe costantemente al lavoro: email, telefonate ad ogni ora, disponibilità completa, azzerato il confine del tempo lavoro-tempo personale.
la cifra dell’esistenza: la parola “precario” descrive una figura sociale non a partire da un attributo specifico, da una proprietà posseduta o negata (com’eravamo abituati da tradizione, com’è per operaio, proletario, impiegato, disoccupato), bensì è identificazione per difetto, appartiene alla sfera del “non”.
una definizione “per difetto”: è precario colui che subisce il furto non semplicemente del proprio plusvalore ma della possibilità di immaginare, progettare, costruire la propria esistenza fuori dal ricatto e dal comando del mercato.
rifuto della catena di produzione sociale: si rifiuta la catena di produzione sociale dell’era fordista, con le sue mansioni standardizzate, e si preferisce quella che inserisce fattori relazionali, cognitivi nei contenuti della prestazione lavorativa (metacompetenze) e che oggi sono parte invisibile ma fondante del curriculum.
sussunzione del reale: per descrivere la non-separabilità, la sovrapposizione di forze di lavoro e mezzi di produzione, di tempi di lavoro e tempi di vita, la messa al lavoro delle capacità relazionali, affettive, di linguaggio, della cooperazione sociale, l’intreccio tra tempo di lavoro e di vita.
Politiche di piena occupazione?
Il capitale necessita della vita precaria. Il profitto viene essenzialmente dal plusvalore che è prelevato dai salari, e cioè dal lavoro degli uomini, dunque conviene conservare un equilibrio, un buon margine di disoccupati, per poter manovrare la crisi, così fruttuosa per i grande monopoli.
A questo punto chiediamoci: la piena occupazione è veramente un qualcosa di fattibile nelle agende future degli Stati o si rischia di tirare fuori bei concetti ma vuoti di applicazione concreta? In un mio precedente articolo sempre su Sbilanciamoci, commentando il termine “choosy” dell’allora Ministro Fornero ho voluto mettere in evidenza proprio quegli studi che da tempo affrontano realisticamente il senso della disoccupazione come variabile di controllo sociale.(2)
Regolare i precari: trasformarli in poveri
Ed ecco un insieme di nuovi poveri, working poor, o ultraspecializzati che restano incastrati nelle maglie del “non lavoro” in senso mercantilistico ma che operano nei sotterranei di quella produzione cognitiva invisibile. Professionalizzazione dei saperi messi in comune trasformati in conoscenze omologate per diventare servizi a pagamento.
Le espressioni “economia della conoscenza”, “società dell’informazione”, “sapere messo al lavoro” si riferiscono al sapere come attributo indispensabile del lavoro vivo come capacità di comunicazione, pensiero e cooperazione.
Ossia tutta quella enorme zona grigia carica di potenzialità che nessun reddito minimo di inserimento sarà mai in grado di riconoscere e quindi di retribuire, liberando energie innovatrici che potrebbero fare la differenza.
Alzare la voce? E come? Nessuno si accorge se sciopera il precario.
I Quaderni di San Precario suggeriscono, a mio avviso, degli ottimi ambiti di approfondimento per inquadrare nuove forme di lotta e conflitto.
Diritto all’insolvenza significa disconoscere:
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il patto di rispetto reciproco tra possessori di merci (meglio il rispetto dei patti);
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il senso di tradimento;
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il senso di impotenza;
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il senso di inutilità.
Per una conclusione aperta
La crisi attuale è generalizzata, e non ci si riferisce esclusivamente al sistema partito, ma coinvolge le forme associative, le modalità di autorganizzazione, frammentate e poco incisive nei confronti di quella che si definisce “spirale della passivizzazione di massa”. Oggi c’è tutta una generazione di frontiera che potrebbe essere, laddove si costruisca un rapporto intergenerazionale significativo e non castrante come avviene nella maggior parte dei casi, un luogo di sperimentazione delle trasformazioni attuali e sull’idea di società che si vuole costruire. Sono d’accordo con Aldo Carra quando parla di un coinvolgimento attivo dei diretti interessati, che non si riconoscono solo per questioni anagrafiche, uno dei paradossi oggi è che a decidere su certi percorsi non sono quelli più direttamente coinvolti o toccati dal problema per mancanza di spazi concreti di confronto. Così come al posto di una mappa sociale del lavoro parlerei di una mappatura delle conoscenze e competenze. Uscire fuori da discussioni accademiche che, giustamente, non avvertono l’esigenza di nuove forme organizzate di lotta, per entrare nel terreno della pratica, dell’inchiesta e dell’organizzazione. Uscire fuori da categorie intellettuali che continuano ad interpretare il mondo con categorie ormai in crisi senza farsi prendere dalla nostalgia e dal senso di conservazione. Questa crisi può essere vissuta in una visione positiva laddove il nuovo riesca a farsi spazio, a trovare nuovi strumenti e nuove forme di produzione materiale e immateriale.
(1) Piccola premessa metodologica: all’interno c’è una serie di studi di materiali che riporterò nella breve bibliografia senza citare di volta in volta nelle note.
(2) Si veda in merito gli studi di Kalecki http://www.econ-pol.unisi.it/petri/Kalecki.doc
Breve bibliografia