Alla canna del gas/Cosa ne è stato del primo e del più grande esempio al mondo di mercato regolamentato delle emissioni di CO2 introdotto in Europa nove anni fa? Il sistema è fallito e per ridurre le emissioni si è rivelata più efficace la crisi economica
Cosa ne è stato del primo e del più grande esempio al mondo di mercato regolamentato delle emissioni di CO2? L’Emission trading scheme (Ets) in vigore in Europa da oramai 9 anni non funziona per gli scopi per i quali è stato realizzato e, se non fosse che dà lavoro a un buon numero di persone in giro per l’Europa, forse l’avrebbero già chiuso.
Il mercato delle emissioni ha rappresentato la grande speranza degli economisti ambientali della fine del XX secolo per ridurre il livello di emissioni e l’Emission Trading Scheme è lo strumento messo in piedi, nel 2005, dalla Commissione Europea per dare vita a questa speranza. La produzione di CO2 e quindi di inquinamento genera un’esternalità negativa, che non è altro che un modo sofisticato per chiamare le conseguenze (in questo caso appunto negative) di un’azione economica sul benessere di altri soggetti. Questa esternalità negativa genera a sua volta un costo sociale. Poiché le imprese non sono tenute a pagare questo costo, non hanno motivo di tenerne conto quando stabiliscono i livelli di produzione. Le imprese finiscono così per produrre maggiori quantità di quel bene (trattandosi d’inquinamento si dovrebbe parlare di “male”) di quanto sarebbe socialmente ottimale. Una delle soluzioni standard al problema è di regolamentare la produzione del male: lo Stato stabilisce dei tetti massimi di emissioni e controlla che tutti li rispettino. Il controllo è però troppo oneroso; meglio se il mercato ce la fa da solo. Come fare? L’inquinamento è un male pubblico e così, come nel caso dei beni pubblici, il mercato fallisce nel determinare l’ottimo sociale, cioè il livello di produzione che metta d’accordo tutti, produttori e consumatori. Nasce quindi l’idea di creare un mercato artificiale: l’ammontare complessivo dell’offerta (ovvero l’ammontare complessivo delle tonnellate di CO2 che il sistema economico può produrre) lo stabilisce il Regolatore e le imprese sono in qualche modo obbligate a domandare quote di emissione a seconda dei propri livelli di inquinamento (questo sistema tecnicamente è chiamato cap and trade). In parole più semplici, assegnando a ogni impresa una quota di diritti a inquinare, le imprese che inquinano di più sono destinate a dover comprare da quelle che inquinano di meno. A quel punto l’inquinamento entrerà nella loro funzione di costo e nel tempo saranno incentivate a ridurre i livelli d’inquinamento diventando più efficienti dal punto di vista energetico. L’Ets per sommi capi funziona proprio così. La Commissione Europea assegna le quote a ogni paese che poi le distribuisce su ogni impianto, in maniera ragionata evitando di penalizzare troppo le imprese che sono esposte alla concorrenza internazionale di altre imprese che operano in paesi dove non c’è questo sistema. Così un’acciaieria in concorrenza con le acciaierie cinesi riceverà più quote mentre un’impresa energetica nazionale ne riceverà di meno perché il mercato di riferimento e i concorrenti sono tendenzialmente solo europei e quindi soggetti alla stessa regolamentazione.
Ogni impresa si dota di un ufficio che gestisce le quote, ogni Stato di un apparato che le assegna e la Commissione di un apparato che stabilisce livelli e gestisce il mercato. Insomma un bel po’ di gente impiegata per un nobile scopo, niente di meglio. Peccato che nessuno avesse pensato allo scoppio di una delle crisi più gravi del capitalismo. Cosa c’entra? È presto detto, la produzione si è contratta enormemente, i consumi energetici dell’Industria da quota 156mila GWh nel 2007 sono precipitati a 130mila nel 2012 (per trovare un valore simile bisogna tornare indietro al 1995). Così le quote di emissioni di CO2 fissate dalla Commissione Europea (che nel frattempo sono rimaste invariate) superano il totale delle emissioni prodotte dall’industria in Europa generando un surplus notevole di quote, il cui prezzo, per la legge della domanda e dell’offerta, raggiunge valori molto bassi, semplicemente perché è un bene che non vuole nessuno perché non serve a nessuno. A dire il vero non è propriamente zero perché comunque le imprese mettono da parte delle quote per affrontare quello che si chiama rischio regolamentare, ovvero il timore che la Commissione cambi idea e produca una regolamentazione più restrittiva che torni a dare valore alle quote in circolo. Il prezzo quindi è sui 5 euro per tonnellata di CO2 prodotta, mentre si ritiene che per avere un effetto reale sulla produzione di CO2 attraverso il meccanismo descritto sopra il suo prezzo dovrebbe essere almeno 20 euro a tonnellata. Una soluzione sarebbe ridurre le quote messe in circolazione, ma questo farebbe aumentare il costo della produzione riducendo la competitività nei confronti delle imprese che operano fuori dal sistema Ets. In un momento di crisi come quello che sta vivendo l’economia europea è altamente improbabile che si vada in questa direzione. Di fatto si parla di questa soluzione posticipandola al 2021 anche grazie all’efficiente operato delle lobby industriale a Bruxelles. Nel frattempo la Commissione ha cercato una soluzione di breve periodo per aumentare i prezzi riducendo l’offerta attraverso l’accantonamento di permessi/crediti nel periodo 2014-16 (backloading), meccanismo che ha portato alla riduzione dell’offerta intorno al 40%. La decisione di cosa fare con questi crediti accantonati post-2016 non è certa: renderli nuovamente disponibili sul mercato oppure cancellarli definitivamente. Eliminarli definitivamente fa parte di una delle riforma strutturali di lungo termine.
Paradossalmente la crisi ha fatto meglio al clima che non uno dei sistemi ritenuti tra i più efficienti di regolamentazione.