La rotta d’Italia. Su acqua e servizi locali la finanza ha messo le mani, a spese dei cittadini. Per rispettare il referendum, un’alternativa ora c’è: una gestione senza profitti e rendite, e con gli utenti al primo posto
La finanza ha invaso in questi anni il settore dei servizi pubblici locali. I risultati sono stati il forte indebitamento nei confronti del sistema finanziario, la crescita esponenziale dei ricavi, ossia delle tariffe applicate ai cittadini necessaria per coprire gli alti oneri finanziari, il deterioramento della struttura patrimoniale delle società erogatrici di servizi pubblici che, ormai in molti casi, sono sull’orlo della bancarotta, nonché la scandalosa profittabilità delle imprese del ciclo idrico, come abbiamo mostrato nel nostro precedente articolo su sbilanciamoci.info (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Se-la-finanza-entra-nei-servizi-pubblici-locali-16416).
Ci sono alternative a quel percorso? Serve una profonda riflessione sulle modalità di gestione, affidamento e finanziamento dei servizi pubblici locali, invitando a compiere un salto culturale per ridimensionare l’idea dell’economia che persegue la rendita, di quell’economia, nella quale il profitto viene considerato l’unico parametro di successo. Secondo il premio Nobel J. Stiglitz ne “Il problema di quelli dell’un per cento” in un’economia che persegue la rendita, com’è diventata la nostra, le entrate private e quelle sociali sono malamente squilibrate: la crisi ha dimostrato come la rendita ha potuto seminare devastazioni nell’economia. Gran parte della diseguaglianza della nostra economia, è conseguenza del perseguimento della rendita perché, in misura significativa, la ricerca della rendita ridistribuisce il denaro di quelli che stanno in basso a quelli che stanno al vertice.
In Italia, sul terreno dei servizi pubblici locali negli ultimi venticinque anni si è combattuta la battaglia tra la tutela dell’autonomia organizzativa dell’Ente Locale riconosciuta dalla Costituzione e la tutela della concorrenza sul mercato, anch’essa presente in Costituzione. Tale continuo andirivieni teso alternativamente ad allargare e a restringere tali tutele, ha causato l’instabilità normativa e la non definizione di un quadro di regole certe e permanenti a tutto svantaggio dei veri “stakeholders”, dei cittadini normali, della “classe media”.
Nonostante le grandi campagne, i referendum, le sentenze della Cassazione e non ultimo il parere del Consiglio di Stato sull’illegittimità delle tariffe idriche, sta prevalendo anche in questo settore, la tesi della piena concorrenza tra le imprese al fine di ricercare l’efficienza del capitale, la massimizzazione del suo rendimento a scapito di tutto il resto (persone, ambiente, coesione sociale, democrazia) che consente l’acquisizione della fiducia dei mercati come da rituale montiano.
Ma, paradossalmente se ben si riflette, tale imperativo si fonda sulla speranza che il bene di tutti sia il risultato del comportamento egoista degli individui. E come afferma un altro economista “non allineato” come C. Felber nel suo “Economia del bene comune”, un’economia di mercato che si basa sulla ricerca del profitto e sulla concorrenza, e quindi sullo sfruttamento reciproco, non è compatibile né con la dignità dell’uomo, né con la sua libertà. Essa distrugge sistematicamente la fiducia sociale, nella speranza (spesso illusoria) di una maggiore efficienza.
Servizi senza profitti
Si può pensare di superare la vecchia dicotomia pubblico vs privato e immaginare la gestione dei servizi pubblici locali con profitti limitati o azzerati. I dati presentati nel saggio IFEL citato nel precedente articolo, dimostrano che la battaglia pubblico (tutela dell’autonomia degli Enti Locali) contro privato (tutela della concorrenza) è stata, ed è, un “falso problema”. In questi anni, senza alcuna differenza, le società di servizi pubblici locali, a capitale pubblico, miste o a capitale privato, hanno utilizzano le medesime logiche e impostazioni gestionali per raggiungere un unico obiettivo: la massimizzazione dei margini d’impresa e dei rendimenti del capitale.
La conferma di come il soggetto pubblico sia rimasto imbrigliato nella sua azione regolatoria dall’applicazione delle leggi del mercato sempre e ovunque, è presente nell’art. 1 comma 725 della legge 296/2006. Il quale prevede per la determinazione dei compensi degli amministratori delle società a totale partecipazione dei Comuni e delle Province, un sistema di indennità di risultato aggiuntiva alla normale retribuzione, solo se la società raggiunge l’utile di esercizio; come se lo scopo unico e principale delle società e soprattutto l’unico parametro di successo di una società che si occupa di servizi pubblici essenziali, sia la produzione di profitti.
Nello studio IFEL è presente un esempio interessante di tale aberrazione, che per ragioni di spazio tralasciamo di riportare. E allora, a che serve la “ripubblicizzazione dei servizi pubblici” se le logiche e le regole sono queste?
Rivoluzionare la gestione dei servizi
Se la risposta è affermativa, occorre rivoluzionare regole, comportamenti e cultura gestionale.
Oggi in Italia, non è possibile rintracciare e comparare informazioni strutturate omogeneamente sulla qualità del servizio offerto ai cittadini. Ma al di là della misurazione delle prestazioni della gestione, che sono di fondamentale importanza per i cittadini, di gran lunga maggior interesse, è la strutturazione delle informazioni a supporto delle politiche di investimento per valutarne imprescindibilità e priorità, ma soprattutto gli effetti sui fabbisogni espressi dai cittadini.
Del resto, è sugli investimenti e sui meccanismi del loro finanziamento che si sta avviluppando in modo suicida il settore dei servizi pubblici locali. E’ pertanto dirimente, arrivare a strutturare una rete di informazioni e dati per la costruzione degli scenari e la verifica degli effetti degli investimenti sulla qualità e quantità dei servizi e sull’onerosità diretta e indiretta per i cittadini. Il bilancio delle società dovrebbe essere letto in modo capovolto, non a partire dal fatturato per arrivare, detratti i costi, all’utile. Ma una volta definito un condiviso, trasparente, misurabile livello di servizio offerto, articolato per ciascun territorio e tipologia di servizio, il successo aziendale deve essere determinato dalla capacità, possibilità di riduzione dei ricavi aziendali: ossia di riduzione dei consumi e delle tariffe per i cittadini!
Sono necessari così nuovi strumenti di finanza per il settore dei servizi pubblici locali, adeguati per costi e durata, da ricercarsi senza l’intermediazione del sistema finanziario tradizionale. Il “combinato disposto” di molteplici fattori a tutti noti, ha determinato e comporterà un periodo non breve di scarsità di risorse pubbliche per gli investimenti, anche se la necessità di investire è realmente avvertita. Un’analisi condotta dalla CGIL, stima che nell’arco di 15 anni occorrerebbero investimenti nei servizi pubblici locali pari a circa 100 miliardi di euro. Si pone pertanto il problema di dove reperire le risorse per finanziare gli investimenti più o meno congruamente valutati.
Il ricorso all’indebitamento con gli strumenti del mercato finanziario tradizionale è da considerarsi non adatto per gli investimenti in infrastrutture a supporto dei servizi pubblici locali a causa dell’inadeguatezza dei tempi di rimborso (troppo brevi per le caratteristiche di lungo periodo delle infrastrutture dei servizi pubblici locali) e del costo del denaro (non in linea con la redditività producibile da un servizio pubblico). Secondo l’ANEA (l’associazione nazionale delle Autorità e Enti di Ambito italiani) la soluzione sarebbe: investimenti pubblici a fondo perduto ed incrementi tariffari a carico della collettività. Troppo facile e spudorato!
La Cassa Depositi e Prestiti, rinnovata nella sua vocazione pubblicistica, ha le competenze e le capacità giuridico-finanziarie per la creazione di strumenti innovativi promossi dagli Enti Locali nel loro territorio. Insieme ad essa è auspicabile il coinvolgimento di Banca Etica, che potrebbe rappresentare il corretto canale culturale per promuovere la raccolta degli investimenti per i servizi pubblici essenziali quali “bene comune”.
La raccolta del denaro con tali strumenti e prodotti innovativi deve essere: fatta a livello locale, di dimensioni adeguate ai territori, a basso rischio e di conseguenza a basso rendimento finanziario. Gli investitori non speculativi già ci sono: i risparmiatori postali (217,8 miliardi di euro); i fondi pensione (90 miliardi di euro); le consistenza finanziarie delle famiglie (3.541 miliardi di euro). Tutti soggetti da coinvolgere verso il finanziamento degli Enti Locali, che attualmente attrae somme irrilevanti (0,4 miliardi di euro).
Le riflessioni e le proposte di politica economica di settore presentate, si inseriscono a pieno titolo nel solco del grande dibattito apertosi sulla stampa statunitense all’indomani della rielezione di Obama (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Obama-o-della-caduta-dell-economia-del-trickle-down) a proposito della sconfitta della “trickle down economics theory” da parte della nuova emergente “middle out economics theory” che si fonda sulla convinzione che una forte classe media sia il fattore di successo della crescita economica.
Obama, ha inteso indicare una strada verso un “livellamento dei picchi”, una strada di “attrazione osmotica della distribuzione della ricchezza verso la propria mediana”, immaginando una “limitazione dei profitti e delle rendite” del famoso “1%” della popolazione a vantaggio dell’altro “99%”, in modo da spalmare la ricchezza su più persone (classe media) rafforzandone la loro capacità di spesa, innestando un circolo virtuoso di nuovi posti di lavoro, maggiori disponibilità economiche per l’istruzione e la cultura, maggiore consapevolezza dei processi di partecipazione e controllo della democrazia. In Italia, chi sta immaginando? E soprattutto, cosa?