L’articolo 18 non rappresenta solo una norma di parità con il datore e tutela contro gli abusi. La sua difesa è anche il segnale più netto che la ripartenza del paese deve avvenire riavviando gli investimenti e la domanda
Torna il fantasma dell’articolo 18. Con la Delega Lavoro in materia di riordino delle forme contrattuali si è difatti aperto in Senato il secondo round della discussione sul Jobs Act. Il tema sul tappeto è quello del contratto “a tutele crescenti”. L’art. 4 della Delega Lavoro ne delinea alcune caratteristiche, e tra queste si esclude l’applicabilità dell’art. 18 (che rappresenta ancora il cardine della garanzia limitativa dei licenziamenti, per quanto già modificato in senso restrittivo dalla riforma Fornero del 2012) in quanto nei nuovi contratti “a tutele crescenti” il recesso da parte dei datori di lavoro sarà senza vincoli nei primi tre anni. Il passaggio è epocale: dopo l’estensione con il Decreto lavoro (il primo pilastro del Jobs Act) del contratto a termine “acausale” fino a una durata massima di 36 mesi, il governo intende introdurre una ulteriore forma atipica contrattuale, che, se sommata al rimodulato contratto a termine, può estendere la precarietà del rapporto di lavoro fino 6 anni. E dopo? Nessuna garanzia di stabilizzazione.
Tralasciando gli ulteriori aspetti controversi connessi alla Delega Lavoro, è utile concentrarci sulle conseguenze economiche della flessibilità, per valutare se il contratto a tutele crescenti, e l’azzeramento dell’art.18, possono rimuovere gli ostacoli alla ripresa economica, e rilanciare l’occupazione duratura e la produttività.
Da quasi 10 anni, insieme a molti economisti e giuristi del lavoro – e andando spesso contro corrente rispetto al pensiero dominante – abbiamo denunciato, attraverso lavori scientifici e pubblicistica, i rischi connessi alla deregolamentazione del lavoro quando tale trasformazione non viene accompagnata da una parallela riorganizzazione dei settori produttivi, dalla formazione permanente, da un welfare adeguato, e da una politica industriale lungimirante, sia a livello nazionale che europeo. Nel nostro paese, che manca da due decenni, almeno, di definire gli obiettivi industriali di lungo periodo, di selezionare i settori strategici produttivi, di investire nella ricerca e nella formazione; che è deficitario da 25 anni nella formulazione di un piano nazionale per l’energia, la possibilità che la flessibilità del lavoro sia un elemento negativo e deviante rispetto alle traiettorie di sviluppo più virtuose, è estremamente elevata. I dati confermano purtroppo questa aspettativa. Secondo l’Ocse, l’Italia è oramai da un quindicennio con il mercato del lavoro più flessibile tra i paesi europei (non il più rigido come spesso erroneamente si dice). Valesse l’equazione della “flessibilità espansiva” saremmo dunque a posto. Invece, siamo anche il paese ove più alta è la disoccupazione, minore la produttività, più declinante il tasso di crescita del Pil, crescenti le disuguaglianze del reddito e della ricchezza, più bassi gli investimenti e l’avanzamento tecnologico, amplificato il senso di incertezza e disagio economico e sociale di lavoratori e famiglie. E’ tutta colpa della rigidità lavoro? La responsabilità della caduta è esclusivamente sulle spalle dei sindacati e dell’art. 18? La incompleta deregolamentazione del mercato del lavoro (come spesso sostenuto dai liberisti più convinti) è alla radice di questo declino, o più verosimilmente qualche altro fattore alimenta la traiettoria negativa? Andiamo con ordine.
L’effetto delle riforme va valutato nel quadro macroeconomico e normativo in cui maturano e si inseriscono. Se si adotta questo approccio, e si guarda con attenzione alle trasformazione del nostro sistema produttivo e normativo dell’ultimo ventennio emerge che in Italia la flessibilità del lavoro è stata interpretata dalle imprese come il sostituto della flessibilità del cambio persa con l’adozione dell’euro. Le due flessibilità non sono però equivalenti: alla competizione esterna delle merci sui mercati internazionali – attuata principalmente attraverso le svalutazioni competitive, ma con disimpegno negli avanzamenti tecnologici e nell’accumulazione, già a partire dagli anni Ottanta del mitico “piccolo è bello” – si è sostituita la competizione interna tra capitale e lavoro, per la distribuzione del reddito nazionale tra profitti e salari. Non a caso, è proprio verso la fine degli anni Novanta che si accende il primo scontro sull’art. 18. Questo conflitto economico e sociale, interno al paese, si inasprisce negli anni più recenti, mano a mano che la redistribuzione del reddito a favore dei profitti alimenta gli investimenti finanziari e speculativi, che si sostituiscono a quelli reali, spiazzandoli e depauperando progressivamente la struttura produttiva del paese, l’accumulazione di capitale e indebolendo, infine, la produttività e i salari. L’effetto ultimo della deregolamentazione del lavoro in Italia – e della parallela politica di moderazione salariale accettata con responsabilità e sacrificio dai sindacati per favorire lo scambio (poi largamente disatteso dalle imprese) tra i minori salari oggi a fronte di maggiori investimenti e nuovi posti di lavoro qualificato domani – è stato perciò il rallentamento dell’accumulazione di capitale, del progresso tecnologico, dell’intensità di capitale, della produttività e dei salari, che agganciati ad una produttività sempre più declinante, e a un mercato del lavoro sempre più debole, e disarticolato rispetto alle relazioni industriali (si pensi alla vicende FIAT), sono retrocessi, sia in termini nominali che reali. Per dirla in breve, la diminuzione, implicita e esplicita del costo del lavoro attraverso la flessibilità e le svalutazioni interne, ha spinto le imprese a frenare gli investimenti, e dunque il rinnovamento tecnologico, convinte che la redistribuzione del reddito a loro favore (in media 10 punti percentuali di Pil annuo rispetto ai primi anni Novanta) avrebbe comunque sostenuto i profitti nel tempo. Naturalmente, ciò non è accaduto, e nel medio periodo la contrazione della produttività e la caduta della competitività a seguito del disinvestimento, tangibile e intagibile, ha trascinato nel baratro della recessione non solo il lavoro ma anche le imprese. La crisi finanziaria internazionale, con i suoi risvolti tutti europei, ha fatto il resto.
Oggi, il mercato del lavoro italiano, o meglio, ciò che ne resta, dovrebbe essere affiancato da innovazioni non solo tecnologiche, ma anche da quelle nel campo del welfare e della formazione, anziché essere ulteriormente parcellizzato e precarizzato con la cancellazione dell’art. 18. Le risorse però non ci sono, e il governo dovrà affrontare a breve l’ennesima manovra correttiva. Perciò, l’art. 18 non rappresenta solo una norma di parità con il datore di lavoro e di tutela contro gli abusi di illegittimità, ma la sua difesa è anche il segnale più netto che la ripartenza del paese deve avvenire riavviando gli investimenti e la domanda aggregata, chiamando al tavolo della responsabilità primariamente il sistema delle imprese e della politica nazionale ed europea. Il mondo del lavoro farà la sua parte.
La nuova Commissione Europea presenterà a breve un piano di investimenti da 300 miliardi di euro. Non sappiamo ancora dove e come saranno spese queste risorse. Sappiamo però che è su questo terreno della politica economica e industriale che il governo dovrebbe spendersi se vuole rafforzare e accrescere l’occupazione produttiva e di lunga duratura. Questa ci appare l’unica via possibile per rilanciare la crescita e sostenere il benessere. I sogni di flessibilità espansiva vanno accantonati.
Una versione ridotta di questo articolo è apparsa su rassegna sindacale