Che il tema del “lavoro” sia una questione strategica risulta ormai evidente dal fatto che gli aspetti negativi che lo investono – disoccupazione, compressione salariale, precariato, diffusa inoccupazione da scoraggiamento – non sono frutto di una crisi che è difficile considerarla congiunturale. Essa ha piuttosto i connotati di una prospettiva strutturale se si ha presente come la crescita occupazionale sia frenata sia dalla crescita della produttività del lavoro generate da innovazioni tecnologiche pressate dalla competizione internazionale, sia dalla pressione al ridimensionamento dell’intervento pubblico. Un futuro caratterizzato da un sistematico eccesso di offerta sul mercato del lavoro non può che tradursi in un deprezzamento – in quantità e qualità – del valore del lavoro, acutizzando l’attuale polarizzazione della distribuzione dei redditi che vede favorita la quota da capitale (profitti e rendite).
Il lavoro, non solo come risorsa produttiva, è divenuto, e rischia di essere sempre più, la variabile dipendente (dalla concorrenza internazionale fra proletariati privi di forza) dei processi di una crescita del prodotto (senza crescita dell’occupazione), tanto da poter sostenere che, allo stato attuale, la disoccupazione e la precarizzazione del lavoro sono dei non-obiettivi di politica economica (ed espressione di una non-politica del lavoro, se la si intende come garanzia della qualità della vita dei propri cittadini).
Se tali sono le tendenze strutturali, le prospettive di lungo periodo dovrebbero destare forti preoccupazione per il modello di società che esse prefigurano: una società più insicura economicamente e socialmente per l’estendersi e consolidarsi delle fasce sociali che incontrano difficoltà a disporre di un reddito “decente”, sia per i livelli salariali che per la continuità di impiego. Se, in presenza di una “crisi” così pesante vi è l’esigenza di una risposta urgente e forte a sostegno dell’occupazione (che peraltro non sembra essere all’ordine del giorno della nostra classe dirigente), altrettanto urgente è porsi la questione di come affrontare la prospettiva di un modello di società che prefigura il “lavoro” come la “naturale” variabile di aggiustamento dei contradditori processi di crescita.
È una questione tanto cruciale quanto complessa. È con questa consapevolezza che abbiamo colto, come redazione di Sbilanciamoci!, l’occasione della presentazione della legge di iniziativa popolare sul reddito minimo garantito per aprire una riflessione su quali forme istituzionali possano essere le più adeguate per fornire agli occupati, attuali e potenziali, una prospettiva di reddito che garantisca loro condizioni di esistenza dignitose. Non è certamente possibile dar conto compiutamente delle sollecitazioni emerse dal dibattito –in tempi brevi sarà disponibile un e.book di Sbilanciamoci! che lo ripropone integralmente – ma penso che su alcune di esse sia utili presentarle che mi soffermi in questa sede.
1. Nel dibattito si è fatto ampio utilizzo del termine “cittadinanza” con un significato denso di qualità in quanto, nelle efficaci parole di Chiara Saraceno, essa rappresenta la dotazione di un patrimonio di diritti inalienabili della persona in quanto tale; un diritto non solo a sopravvivere, ma ad esistere come precondizione di eguaglianza democratica. Questo ricollegarsi allo spirito e al dettato costituzionale è stato, a mio avviso, lo sfondo sul quale si sono sviluppate tutte le analisi, pur diverse nelle visioni e nelle proposte.
2. Riconoscere, d’altra parte, che non tutti i soggetti sono uguali, né che hanno tutti le medesime opportunità pone la questione se, come e quanto intervenire per garantire il diritto a esistere dignitosamente. Non è difficile osservare che, nella realtà di uno Stato di welfare, in presenza di condizioni materiali (inabilità ad esempio) e morali (condizionamenti sociali nel caso delle donne ad esempio) che impediscono a coloro che ne sono soggetti di accedere a un impiego remunerato, e quindi a disporre di un reddito che garantisca loro la sussistenza, sono previste (o dovrebbero prevedersi) interventi pubblici al fine di alleviarne le difficoltà.
In generale – e prescindendo dalla situazione nazionale (notoriamente molto insoddisfacente sul piano di un organico welfare) -, le fasce di soggetti reputate meritevoli del sostegno pubblico sono identificate essenzialmente con riferimento all’attività lavorativa. Per coloro che non possono aspirare a un impiego per condizioni di inabilità o di deprivazione sociale sono previste forme di assistenza sociale (pensioni di invalidità, sussidi di povertà); per chi ha concluso un’attività lavorativa può disporre, se ha maturato le condizioni, di una prestazione pensionistica; per chi ha visto interrompersi il rapporto di lavoro ed è temporaneamente disoccupato può beneficiare, sempreché sussistano le condizioni, del ricorso agli ammortizzatori sociali (sussidi alla disoccupazione, incluso il ricorso alla cassa integrazione guadagni), altrimenti (come ne caso degli “esodati”) rimane privo di qualsiasi sostegno del reddito; nella medesima sorte incorrono coloro che non riescono a trovare lavoro, anche se per essi sono previsti, in un contesto di politiche attive del lavoro, forme di avviamento al lavoro (stage; formazione ecc.).
Esiste quindi una varietà di situazioni e di interventi che ordinano, amministrativamente e socialmente, in tante figure sociali contrapposte le possibili realtà che una persona può vivere in diversi momenti della sua vita. Una frammentazione che disconosce l’unitarietà del soggetto che, qualsiasi sia la sua situazioni oggettiva, ha comunque l’esigenza di poter disporre, in mancanza di un lavoro, almeno di un reddito seppur minimo per poter esistere.
3. Il rapporto che istituzionalmente deve sussistere tra lavoro e reddito è stato ovviamente il tema centrale del dibattuto. In sostanza, si può dire che vi è un ampio riconoscimento della relazione necessaria tra i due termini, anche se la direzione di causalità che li “deve” connettere non è stata la medesima; sostanzialmente sono emersi, in estrema sintesi, due diversi modi di vedere il rapporto lavoro-reddito che – con i termini presenti nel dibattito – possono essere distinti tra chi dà la priorità al lavoro di cittadinanza e chi la dà al reddito di cittadinanza.
3a. Per la prima posizione, le difficoltà del mondo del lavoro vanno affrontate ampliando le opportunità ad un lavoro dignitoso in grado di fornire un corrispondente reddito. La cittadinanza viene garantita dall’espansione dell’occupazione (attraverso, ad esempio, opportuni piani del lavoro) il cui reddito (salariato). Importante aspetto complementare di tale intervento è la sua finalizzazione alla produzione di beni e servizi aventi valore sociale (servizi di cura, ristrutturazione del territorio ecc.).
Una politica centrata sull’espansione dell’occupazione implica, tuttavia anche se non necessariamente, che anche le altre modalità redistributive a sostegno del reddito siano finalizzate all’obiettivo di favorire l’occupabilità. Non meraviglia pertanto che, in questa prospettiva, si prevedano interventi condizionati e delimitati sia nella lotta alla povertà (pensioni sociali e forme di reddito minimo di inserimento) sia per gli “ammortizzatori sociali” quantunque estesi anche a fasce di lavoratori finora escluse (quali precari ed esodati).
3b. La posizione alternativa prospetta invece la necessità di un sostegno del reddito per ricercare un lavoro dignitoso. Questo rovesciamento di ottica è finalizzato, in alcune posizioni, a favorire un intervento di riduzione generalizzata dell’orario medio di lavoro. Si ritiene, in sostanza, che un effettivo allargamento della cittadinanza “reale” si possa avere nel lungo periodo solo attraverso una redistribuzione delle ore lavorate tra occupati e inattivi con l’espansione di contratti di lavoro a tempo “ridotto” da considerare come rapporto di lavoro normale. È peraltro evidente che, affinché ciò non si traduca in un equivalente riduzione del salario reale occorre che il salario sia integrato con un sussidio di carattere generalizzato; è anche evidente che affinché questa strategia possa funzionare occorre che tale sussidio sia erogato a priori della ricerca del lavoro e non sia condizionato dal rifiuto dell’opportunità offerta. Per questi due aspetti una tale forma di sussidio ha caratteri che l’avvicinano a un reddito di cittadinanza.
Intorno a tale reddito di base andrebbero ristrutturati tutti gli altri interventi non come espressione di specifiche situazioni individuali, ma come riconoscimento di un diritto del singolo a poter disporre di un livello minimo di sicurezza nel tempo e quindi come collettività di fissare una norma sociale sui livelli minimi garantiti di sussistenza. Una prospettiva unica a fronte delle frammentate condizione del lavoro (e di reddito) generate dall’attuale meccanismo di mercato.
Il “lavoro per un reddito” e il “reddito per un lavoro” si sono presentate nel dibattito come due opzioni nettamente contrapposte che si differenziano per una diversa visione strategica della politica del lavoro e non per gli aspetti “tecnici” che le possano caratterizzare (sui cui dettagli pur importanti rinvio chi fosse interessato all’e.book in via di pubblicazione). Pur non sottovalutando la rilevanza di queste differenze di fondo ritengo che le due opzioni possano essere in larga misura complementari e ritengo che lo si possa dimostrare in merito a tre livelli rilevanti: tecnico, economico, politico.
4a. Le due prospettive sono tecnicamente compatibili nel caso siano viste come due strumenti per un obiettivo condiviso e si eviti di trasformarle in obiettivi (rischio possibile qualora siano funzionali a una specifica visione di società). Il miglioramento delle condizioni di vita del mondo del lavoro con interventi diretti (piani del lavoro) è essenziale per dare una risposta urgente e forte al problema della crisi occupazionale, ma, permanendo l’attuale contesto istituzionale, essi non sono in grado di contrastare la precarizzazione sociale in atto. La redistribuzione del lavoro può costituire una risposta a questa esigenza, ma per la complessità delle trasformazioni istituzionali che essa implica richiede tempi inevitabilmente più lunghi. Non va pertanto trascurata la possibilità, qualora fossero avviati dei piani del lavoro consistenti, di implementarli con modalità redistributive del lavoro (contratti a tempo ridotto; sgravi fiscali per lavoratori e imprese; accorpamento ed estensione dei sussidi per chi è temporaneamente o permanentemente escluso dal lavoro) in modo da legare l’intervento più propriamente congiunturale all’obiettivo di ristrutturazione di più lungo periodo.
4b. Nel corso del dibattito si è registrato un profondo scetticismo sulla sostenibilità economica di un reddito di base incondizionato, apparendo l’opzione del lavoro di cittadinanza come l’unica alternativa “ragionevole” dal punto di vista finanziario per favorire la crescita del lavoro. È mia impressione che una tale conclusione non sia fondata per la semplice ragione che una tale valutazione si possa effettuare solo in presenza a progetti che precisino i caratteri dell’intervento, gli effetti diretti e indiretti della loro attuazione, i tempi della loro implementazione. L’impressione è che la differenza di valutazione sia dovuta alla diversa percezione dell’estensione dell’intervento nei due casi: più ragionevolmente limitata per il lavoro di cittadinanza, più programmaticamente estesa per il reddito di cittadinanza. Ma se entrambe le opzioni si rivolgono all’obiettivo complessivo (trovare nel prossimo futuro un’attività “decente” per 5-7 milioni di persone) non sembra che l’impegno finanziario – certamente rilevante – possa risultare molto diverso nei due casi.
4c. Tuttavia, la questione decisiva è se (entrambe) le opzioni sono accettabili politicamente. In effetti, anche se con peso diverso e con tempi diversi, esse mettono in discussione gli orientamenti correnti di politica economica in quanto richiedono di ridiscutere (ovviamente in maniera diversa) gli attuali obiettivi di politica economica, non solo di quella del lavoro ma anche di quella fiscale, industriale e della domanda. Porre il lavoro al centro della politica economica e condizionare ad essa gli interventi a favore della produzione prospettano un’alternativa radicale alla visione che guida le presenti scelte politiche. Condivido la considerazione di Chiara Saraceno che il vero nodo è quello di trasformare nei fatti il diritto all’esistenza in un diritto inalienabile e non a disposizione dei governanti di turno” e se ciò non accade è per “la difficoltà politico-culturale a percepire il diritto alla sussistenza come un diritto umano e di cittadinanza fondamentale.
All’osservazione che si tratta di proposte che non tengono conto delle attuali condizioni economiche e politiche (peraltro funzionali a una trasformazione della società nella direzione di una maggiore subordinazione del lavoro) va contrapposta l’osservazione di Federico Caffè che, denunciando l’indifferenza della politica nei confronti della frustrazione umana dovuta alla mancanza di occasioni di lavoro e l’assenza di una scala di valori che ponga la mancata occupazione per lo meno allo stesso livello del mancato rispetto di un qualsiasi vincolo finanziario, affermava che qualsiasi proposta di politica economica che avesse come fine l’aumento del prodotto senza che si realizzi una minore disoccupazione è una mera indicazione statistica priva di ogni valido interesse sociale.
5. Le proposte che sono emerse dal dibattito possono sembrare “esili” e “astratte”, ma forse lo sono solo perché in opposizione con i “forti” e “concreti” obiettivi assunti come ineludibili dall’attuale classe politica. Ma come dice Polanyi: subordinare scienza, tecnologia e organizzazione economica alla volontà di un progresso che sia umano e alla realizzazione di una personalità che sia libera costituisce ormai una necessità per la sopravvivenza. Un’esigenza da tempo posta sul tappeto alla quale però manca un serio convincimento politico ad assumerla come obiettivo cruciale.
Testo dell’intervento all’XI Forum di Sbilanciamoci!, Europa disuguale, 7 settembre 2013