Il fatto che si sia scelto da anni di competere sul versante dei costi e del taglio dei diritti piuttosto che sul piano dell’innovazione e degli investimenti dovrebbe essere il punto di partenza per costruire una proposta alternativa. Che non si limiti a criticare le singole misure del governo, ma si ponga come “alternativa di […]
Innanzitutto un apprezzamento a Sbilanciamoci! e una forte condivisione per l’impianto di critica alle politiche del lavoro applicate fin qui da un quindicennio a questa parte, di cui il Jobs Act costituisce l’epilogo.
C’è qui un punto di grande convergenza con le analisi che sottostanno all’elaborazione della Cgil espressa dal suo Piano del lavoro, ma anche con altre proposte tra cui la “Proposta keynesiana” degli accademici di Torino. Il fatto che si sia scelto da anni di competere sul versante dei costi e del taglio dei diritti piuttosto che sul piano dell’innovazione e degli investimenti dovrebbe essere il punto di partenza per costruire una proposta alternativa, che non si limiti a criticare le singole misure del governo, ma si ponga come “alternativa di sistema”.
Per fare questo, non si può prescindere dal ribaltamento delle politiche dell’UE, che è paradossalmente diventata il luogo della stagnazione mentre altre realtà, in primis gli USA ma anche altri Paesi, hanno sperimentato strade alternative per uscire dalla recessione, fondate tutte sull’impulso agli investimenti e alla salvaguardia dell’occupazione e del reddito delle persone.
Ciò detto, e ribadito quindi un forte punto di convergenza, credo ci sia, nel Workers Act di Sbilanciamoci!, uno scarto quando si passa alle terapie, là dove si concentra l’attenzione sulle proposte di riduzione generalizzata dell’orario di lavoro e del reddito di cittadinanza. Ed è su questi due punti che vorrei ragionare.
Orario di lavoro
Nel Workers Act si ragiona, nella parte analitica, giustamente sull’impossibilità di proporre una riduzione generalizzata, ma tale accortezza si perde nella parte propositiva. Io credo, invece, che proprio nell’articolazione delle soluzioni stia una strada possibile: gran parte delle attività terziarie (ipermercati, ristorazione collettiva, servizi di pulizia) sono strutturalmente svolte ricorrendo al lavoro a tempo parziale, ma anche molta parte dell’attività manifatturiera si svolge ormai secondo uno schema “stagionale” di picchi e flessi, cui le imprese rispondono ricorrendo a svariate misure, dalle forme sempre più spinte di lavoro a termine o comunque precario alle altrettanto molteplici forme di esternalizzazione. Pensare in queste circostanze di proporre una riduzione generalizzata dell’orario è fare – concettualmente – un salto indietro a schemi produttivi fordisti che non servono.
Altro sarebbe, e credo che su questo si debba proseguire nello studio, pensare ad un fondo pubblico, alimentato dalle diverse aliquote contributive costruite in modo tale da favorire da un lato l’allungamento degli orari per chi ha rapporti di lavoro molto corti, e dall’altro per favorire forme redistributive del lavoro per chi oggi è a tempo pieno. Il tutto con il vincolo della contrattazione collettiva quale veicolo necessario per accedere alle agevolazioni. In nuce, un’idea del genere la si sarebbe potuta rintracciare nel Protocollo con il Governo Prodi del 23 luglio 2007 (dove si diceva: “prevedere aumenti contributivi per i contratti di lavoro a tempo parziale con orario inferiore alle 12 ore settimanali al fine di promuovere, soprattutto nei settori dei servizi, la diffusione di contratti di lavoro più consistenti”). Una norma di questo genere, se correlata strettamente con lo svolgimento della contrattazione, realizzerebbe davvero quello che viene ripetuto come un mantra ma che mai si è realizzato, ossia lo spostamento del peso della contrattazione.
Reddito, ammortizzatori sociali e previdenza
Su questi punti la discussione è assai complessa e non può certo essere riassunta in poche righe. Sulla previdenza va fatta una considerazione preliminare: non credo ci siano le condizioni per una modifica del sistema di calcolo contributivo, e proporlo mi pare una scelta non condivisibile. Detto questo, il tema da sollevare dovrebbe essere piuttosto quello dell’adeguatezza della pensione a fronte di percorsi di lavoro intermittenti e frammentati: la Cgil, ancora una volta fondandosi sul Protocollo del 2007, ha proposto la pensione contributiva di garanzia, una misura che integri con risorse fiscali il raggiungimento del 60% riguardo al montante maturato. Perché non assumerla come riferimento?
Per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali bisognerebbe universalizzare il sistema, mantenendone il fondamento assicurativo, e incentrandolo su due istituti, riferiti rispettivamente alla perdita del rapporto di lavoro e alla sua sospensione a fonte di difficoltà temporanee dell’impresa e/o alle sue trasformazioni. Esiste a proposito una proposta, datata 2010, della Cgil, certamente da attualizzare rispetto anche alle ultime “perle” dei Jobs Act, ma con un costo quantificato e sostenibile (tra 5 e 8 miliardi di euro). Certo il tutto andrebbe intrecciato con politiche attive, percorsi di formazione, ecc. senza però dimenticare che la principale politica attiva è la crescita “intelligente”.
Infine, il reddito: a valle dei due paragrafi precedenti, la discussione sul reddito può incanalarsi su binari forse più proficui. Si tratterebbe infatti di finalizzare le misure secondo due destinazioni: da un lato un reddito di ultima istanza a valle dell’esaurimento delle misure da ammortizzatore sociale, dall’altro un reddito per sostenere l’ingresso al lavoro e l’inadeguatezza dei salari. In entrambi i casi, la fonte non può che essere fiscale. I costi sarebbero notevoli. Bisognerebbe introdurre criteri di accesso che però si scontrano con dilemmi difficili: le misure sono individuali, o c’entra il reddito familiare? I beneficiari sono condizionati, e se sì, come declinare le tante deprivazioni da cui possono essere affetti (dispersione scolastica, disoccupazione, lavoro sommerso, irregolarità, indigenza abitativa, ecc.)? Qui mi fermo, ma è chiaro che le risorse destinate a queste misure non possono essere il frutto di “risparmi” realizzati con le politiche del lavoro.