Sulle tracce dei cambiamenti del lavoro sotto la spinta di crisi e tecnologia. Da un lato il digitale che libera la creatività, dall’altro le “digital sweatshops”
Tenere presenti i diversi aspetti, e conseguenze, della “crisi” – aldilà delle soluzioni e dei messaggi “ufficiali” o comunque accreditati (dei politici, e anche degli economisti) – mi interessa molto. Due spunti che ho trovato di recente riguardano possibili aspetti di cambiamento dell’esperienza del lavoro, fin’ora poco messi in luce: in un caso positivi, nell’altro preoccupanti.
Quelli che suonano – e ci vengono descritti – appunto come positivi sono menzionati in alcuni articoli che mettono a fuoco le attività artistiche definite amatoriali: e si dice che con la “professionalizzazione” che ha interessato diversi tipi di artisti nel secolo scorso (e con il loro inserimento più o meno stabile in istituzioni e sedi specializzate, vale per esempio per gli orchestrali e gli attori di teatro) sono andati perduti elementi importanti di una fase precedente: creatività, spontaneità, anche piacere.
Ciò che sta succedendo adesso, si suggerisce, fa uscire da questa fase, ci porta avanti.
Vengono descritti esempi di vario genere: gruppi musicali si formano a livello di quartiere, o perché accomunati da particolari scelte e riferimenti (la musica di paesi particolari, l’uso di strumenti inconsueti; anche l’età delle persone coinvolte può essere un criterio di aggregazione). Si insiste sul fatto che oggi “artisti amatoriali frustrati” – perché in pasato non accettati da quelli che erano riconosciuti come gli “arbitri” nei rispettivi settori, in studi cinematografici, gallerie d’arte, case discografiche, e nell’editoria – hanno occasioni per realizzare le loro aspirazioni, grazie a YouTube e a meccanismi analoghi. Anche romanzieri e scrittori riescono a saltare le tradizionali barriere di accesso e si affermano, e pubblicano, per effetto dei nuovi sistemi non cartacei di stampa e distribuzione. La produzione artistica amatoriale è più accessibile in termini di costi, sia per coloro che la realizzano sia per gli spettatori e altri “utilizzatori”. Molte cose si realizzano in settori no profit.
Se sia una cosa positiva o meno, su questo non si traggono conclusioni. Ma si ricorda che la parola “amatoriale”, amateur, viene dal latino, e fa riferimento a un rapporto di “amore”: dimensione che c’entra, si sottolinea, con il mondo dell’arte. E c’è una frase interessante di Robin Simpson, che è a capo della U.K. Voluntary Arts Network: ”la crisi ha spinto molti a pensare alle cose che danno un senso alla loro vita”.
L’altra notizia riguarda un mondo molto diverso, e il titolo del pezzo a cui mi riferisco (Newsweek Special Issue, 2010) è “The New Digital Sweatshops”. Si fa il punto su quella parte della popolazione che trova collocazione nei vari mondi del “lavoro digitale” e ci si interroga su come i dati della disoccupazione e della “crisi” vadano letti in questo scenario, comunque in grande sviluppo. Nell’articolo si fa una distinzione tra posizioni collocate in alto, creative, molto ben remunerate, il vertice, si dice, di una specie di piramide; c’è poi uno strato intermedio; e sotto la base, e qui il lavoro è fatica e, riprendendo una definizione in disuso, è “sudore”.
Un esempio del livello alto è così presentato: un’azienda ha bisogno di risolvere un problema per il quale non trova risposta all’interno delle sue strutture, e dunque si rivolge a quella che è definita una “eBay per la soluzione di problemi difficili”. Sulla rete si sollecita chi abbia l’idea giusta a proporla, si fissa una scadenza; se uno ce la fa, può guadagnare anche ventimila dollari.
All’estremo opposto, e qui si ritorna al riferimento alle sweatshops del passato, ci sono persone che attraverso internet, rispondendo a centinaia di messaggi, operano in varie parti del mondo per lo stesso datore di lavoro. L’idea è di offrire rapide soluzioni a problemi di turisti e viaggiatori (come trovare il miglior caffè in una determinata città, attraverso una rete di clienti abituali); o di far girare le risposte giuste a giochi che vengono proposti a numeri altissimi di partecipanti (si cita un gioco di Amazon, Mechanical Turk). Qui il guadagno è molto basso. La legislazione sul lavoro e anche pratiche che sono consolidate almeno in certi contesti, non si applicano. Ma soprattutto si insiste sul fatto che sono moltissime le persone che non hanno alcuna garanzia in termini di retribuzione, salario minimo, tutela sanitaria e pensionistica; e si segnala anche il problema del lavoro minorile). Succede anche che si imponga ai lavoratori di essere controllati per ogni cosa che dicono, per ogni movimento del loro mouse.
A molti si richiede di non fare sapere che lavorano per una certa impresa, e a quali condizioni: anzi, ci si mette a lavorare senza neanche avere un’ idea di quali attività si dovranno svolgere, e per quale “imprenditore”, e dove questo sia collocato. Un commento ancora: “se la forza lavoro può essere selezionata, organizzata, e diretta da un qualunque punto lontano, le relazioni e le iniziative comuni tra lavoratori saranno ridotte, o anzi impossibili”.
Dunque si delinea uno scenario in cui le tradizionali condizioni di solidarietà e la possibilità di rivendicare diritti non si danno; ma nemmeno non è possibile, per i lavoratori coinvolti, creare rapporti, movimenti collettivi. E per gli “imprenditori” attivi in questo sistema ci sono molti modi per evitare qualunque controllo o normativa.
E’ utile che questi possibili sviluppi ci siano fatti presenti.